Un proverbio turco dice: «Un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri».
In “Detachment“, film di Tony Kaye, il silente “consumo” interiore del protagonista, Henry Barthes (Adrien Brody), è potente. Un professore di talento che scientemente vive la realtà del supplente perché nasconde in sé una profonda lacerazione e non ricerca la classica stabilità, ma solo una difesa che lo preservi da una spregevole superficialità.
Il prof. Barthes si protegge tenendo la società a distanza e per questo fare il supplente sembra il suo status naturale.
Vive in un equilibrio precario e disperato mantenendo però un legame profondo con la propria coscienza, fotogramma dopo fotogramma, risulta più connesso lui con la realtà di quanto lo siano tutti gli altri.
Il regista Tony Kaye (“American History X”) riesce sempre a condurci in luoghi non scontati dove la denuncia e la tenerezza, per una collettività impietosa, si respirano con grande intensità.
Un paradosso assurdo e distruttivo è che nel nostro mondo, chi ha la consapevolezza che l’insegnamento è toccare una vita e condurla per la giusta strada sceglie, per difendersi, di vivere ai margini, senza che nessuno consideri l’importanza sociale di un talento simile.
Henry Barthes non confonde l’intrattenimento con l’insegnamento appassionato, egli è perfettamente consapevole che il sistema è vuoto. Tutto si riduce a burocrazia, apparenza, regolamenti e tempo da lasciare scorrere fino al suono della campanella.
Mentre il condizionamento mediatico, come un virus devastante, ci induce a desiderare desideri programmati, le nuove generazioni crescono circondati dalla tecnologia dell’immagine ma, tenuti ben lontani dalla capacità di immaginare un mondo diverso.
Il sistema offre plastica, apparentemente di gran pregio, senza preoccuparsi minimamente di salvaguardare e stimolare la capacità critica dei suoi adolescenti.
Emozionante e maledettamente reale la scena della lezione del prof sulla società dei consumi e su come il potere si prodighi per diffondere assimilazione passiva e omologazione in un olocausto del marketing dove tutto è distante dalla libertà di pensiero e dalla volontà di proteggere la nostra mente.
Ogni incontro che il protagonista ha con gli altri personaggi, il nonno malato, la giovane prostituta, i suoi colleghi, gli studenti, tutto ha un significato preciso e deflagrante in una delicatezza che ci fa comprendere l’assoluta interiorità del prof.
Malgrado la sua lacerazione esistenziale l’Henry, apparentemente distaccato, si presenta come un’anima solidale pronta a comprendere e ad aiutare in ogni incontro.
Ed è proprio questa sua volontà di aiutare che porta il suo consolidato modello di vivere, da distaccato, ad entrare in crisi riavvicinandolo al mondo dei sentimenti e frantumando quella distanza artificiosa tra lui e gli altri.
L’eclettico Tony Kaye, cantante, compositore, pittore e nel film, oltre che regista, anche direttore della fotografia, ci conduce verso una realtà amara, apparentemente estrema che è di un’attualità tremenda e disarmante, un’istantanea della nostra urgenza sociale.
Una storia diffusa, la vicenda di una scuola pubblica, un professionale di periferia, ragazze e ragazzi proiettati verso la sconfitta che vivono in un panorama che non li accoglie, ma li distorce in un continuo stato di degrado.
Il cast è ampio e, oltre ad un magistrale e perfetto Adrien Brody, presenta una capace e intensa Sami Gayle nella parte di Erica, la giovane prostituta, Marcia Gay Harden nel ruolo della preside, un fantastico James Caan in versione professore impudente, Christina Hendricks (“Drive” di Nicolas Winding Refn) la professoressa attratta da Herny, Lucy Liu nel ruolo della psicologa inascoltata e Betty Kaye che interpreta Meredith, la studentessa di arte schiacciata dall’incomprensione del padre.
Il montaggio di Michelle Botticelli e Barry Alexander Brown è molto interessante e valorizza la narrazione dall’ottima sceneggiatura di Carl Lund. Il regista adotta la tecnica del falso documentario, il mockumentary, catturando il pubblico e portandolo nel centro del punto di vista di Herny.
Con pezzi di false interviste il mockumentary trasporta lo spettatore nelle riflessioni che il prof sente ma non dice.
Questa scelta, stilisticamente coraggiosa e imperfetta, aumenta ancora il valore del reale innalzando di più la pellicola verso un’opera di gran pregio.
La pellicola, del 2011, purtroppo sottovalutata e trascurata dalla critica, (un po’ come la scuola), ha portato a casa diversi premi:
Premio internazionale della critica e Premio rivelazione al Deuville Film Festival,
Premio del pubblico come miglior film al São Paulo International Film Festival,
Premio miglior contributo artistico a Tony Kaye e Nomination al Gran Premio di Tokio a Tony Kaye al Tokyo International Film Festival
e Premio Maverick a Tony Kaye al Woodstock Film Festival.
Detachment è un film capace di comunicare e centra il bersaglio: la scuola, pericolante e decadente per i futuri “sconfitti”, gli allievi e per gli stessi insegnanti, ormai disincantati e lontani anni luce dall’ideale educativo. Tony Kaye riesce a esprimere perfettamente, e con grande potenza, quell’inquietudine concreta che oggi respiriamo amaramente come un’abitudine.
Stefano Pavan
avevo incrociato questo film solo in alcuni spezzoni da youtube… sembra essere davvero un gran bel film. grazie Pavan,bella recensione… lo andro’ a vedere di sicuro ! <3
bellissimo film! davvero ben girato e ottime interpretazioni. concordo con l articolo
SEMPRE SENTITO PARLARE MA MAI VISTO. LO FARO’
BELLA RECENSIONE. GRAZIE STEFANO P.
bellissimo film. e’ triste pensare che oggi i ragazzi non possano beneficiare neanche di quei pochi insegnanti bravi rimasti nelle scuole. ne pagheremo un prezzo
grazie Pavan per questa perla