Covenant @BlackOut (04/2014)

Performance tutta da ballare...

Arriva un momento –nella vita di una donna, di una persona in generale e sicuramente nella mia– in cui le emozioni passano velocemente dal tirare su con il naso di fronte a qualsiasi forma di vita al di sotto dei sei mesi, al cantare a squarciagola “Black” dei Pearl Jam. Sabato scorso ha prevalso la seconda e invece che impegnarmi nel continuare la specie, sono andata a vedere i Covenant.

I Covenant sono una band svedese formatasi a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, che di quel periodo porta avanti un genere sempre ben accolto dal pubblico, l’elettronica.

Già qui sarebbe doverosa una premessa per specificare come la loro carriera si sia tinta di EBM e future-pop, di industrial e ambient, ma ai fini del live report dirò un’unica cosa: c’hanno fatto balla’!

La serata si è tenuta al BlackOut, durante una serata particolarmente mite, che ha reso più sopportabile l’attesa in fila prima dell’inizio del concerto.

L’esibizione del gruppo svedese è stata introdotta da quella degli Halo Effect, band romana sulla falsariga dei Covenant, che ha fatto da sottofondo musicale per lo sport che preferisco durante le uscite “mondane”, ovvero un sano e irrinunciabile taglia e cuci interiore. Nello specifico una sorta di monologo tra me e me sugli usi e costumi degli indigeni presenti.

Sto per riportare una cosa ovvia, ma che non finisce mai di incantarmi: ogni serata, ogni locale, ogni genere musicale ha un suo dresscode e una sua popolazione. In questo caso è nero a perdita d’occhio, nero come un film di Dario Argento che racconta la vita di Linda Lovelace. Sì perché le “darkettone” sono un tripudio di pizzo, calze strappate, bustini e latex che manco durante il “Confessions Tour” di Madonna. Non solo, ma la varietà cromatica dei loro capelli va dall’ “ala di corvo spezzata in una notte buia e tempestosa” al “magenta di una rosa purpurea del Cairo”. L’unico biondo che vedo è il mio e quello di un bambino tra le braccia della madre (bambino che tra l’altro ho fissato per mezz’ora mentre il mio orologio biologico suonava la gabber) e per un momento temo che verremo sacrificati entrambi sull’altare dello steampunk, cosa che naturalmente avviene solo nella mia testa quando mi lasciano troppo a pensare.

La verità è che, dopo tutti questi anni, è in posti come questo che torno quando ho voglia di ballare.

E quando salgono i Covenant, l’aspettativa non viene delusa.

Guardando Eskil Simonsson (cantante del gruppo) ti viene da pensare che quanti tra coloro che in Svezia non si suicidano, poi diventano come lui. Uomo algido ma ammiccante, si presenta sul palco in camicia bianca e cravatta sottile e la serata è sua.

Canta, invoca, urla e suda. Accompagnato da Andreas Catjar e Daniel Jonasson, propone pezzi nuovi (dall’album “Leaving Babylon“) e vecchi (una su tutte, “Like Tears in Rain“) mentre la gente lo acclama.

Come il nome della band suggerisce –“covenant” vuol dire “patto“, contratto con Dio– sembra di assistere a una liturgia, in cui la spinta dei bassi e le luci accecanti conducono il pubblico a un livello di percezionealtro” e Simonsson è il reverendo pronto ad accogliere i fedeli accorsi.

I Covenant sono generosi e regalano un live lungo e comprensivo di encore e noi balliamo di gratitudine e sudore.

Alla fine i più rimangono per l’after party (incluso il gruppo di Helsingborg e qui mi mangio le mani), mentre io torno a casa con l’orologio biologico momentaneamente stordito dai synth.

In uno dei film che hanno segnato la mia adolescenza (“Singles” per la cronaca) a un certo punto una protagonista dice all’altra: «Noi andremo sempre a ballare». Ecco. Io andrò sempre a ballare.

Agnese Iannone

http://youtu.be/9D0-JtyTUko

 

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