Giuseppe Lago: “La Fuoriuscita” [Intervista]

Una storia che affronta il tema della psicoterapia e dei suoi eccessi

In dodici capitoli, un viaggio nel mondo delle emozioni, degli affetti, delle dinamiche interpersonali. Una trama profonda e affascinante, che conduce nelle aree cruciali di un percorso che molte persone ormai praticano o hanno praticato. Uno scenario che presenta una vicenda complessa e avvincente, che nel finale si tinge di giallo e di risvolti inaspettati

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Ho trovato la trama del suo romanzo particolarmente accattivante. Devo però notare che il libro si muove in direzioni differenti: è un romanzo psicologico nel suo complesso che sconfina nel giallo. Lei come definirebbe il genere de “La fuoriuscita”?

Con un neologismo “psicogiallo”, anche se il genere in verità è chiaramente quello psicologico. Il registro però non è didascalico (come nei libri di Irvin Yalom) ma drammatico, in quanto le dinamiche narrate esprimono elementi emotivi che possono sfociare nella violenza diretta dei personaggi contro se stessi o gli altri. Il fatto che il giallo emerga verso la fine del romanzo non è un caso ma la conseguenza del sistema carismatico costituito da Adele Lussari. Costei è forte nel fustigare i suoi “pazienti”, rinfacciando loro le carenze dello sviluppo psicosessuale che essi presentano. Nei confronti del figlio Ezio, invece, la sua si rivela una figura materna assai carente. Ecco, il giallo emerge da questa discrepanza e si snoda nei capitoli finali come il risultato delle vicende precedenti.

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Come nasce e come si sviluppa il processo di creazione di un suo romanzo?

Nasce dalla mia esperienza e si configura come un’allegoria, totalmente sfrondata da elementi biografici o personali, fino a quando riesce a vivere di se stessa. Faccio l’esempio del mio primo romanzo “Sogni da Navigare”. Narra la storia di un giovane veneziano in epoca precolombiana. Egli naviga nelle galee di Venezia e andrà in Portogallo a conoscere le caravelle, scappando dalla Repubblica e dalle sue leggi. Mi sono ritrovato per intero in questo personaggio, ma la logica della storia così speciale mi ha portato a studiare per mesi la storia delle navi di Colombo e degli sconosciuti inventori delle caravelle. I personaggi del libro, benché riflettessero me stesso e le mie conoscenze dell’epoca in cui ho scritto, hanno così cominciato a vivere una vita propria e a intrecciare una trama che neanche io all’inizio immaginavo. Lo stesso mi è successo con La Fuoriuscita. Ho avuto un’ispirazione in diverse persone seguite in psicoterapia con un passato di setta psicologica alle spalle. Non appena sono nati Martha Weber o Adele Lussari, o Laura o Marinella o i tanti altri numerosi personaggi presenti nel romanzo, ognuno di loro mi ha costretto a rispettarne la coerenza e i miei spunti, compreso me stesso, sono venuti meno, totalmente schiacciati dalla consistenza dei personaggi.

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Quali sono gli eccessi della psicoterapia di cui si parla nel libro?

La psicoterapia va prima definita, altrimenti ognuno si lascia prendere dall’idea dominante o fuorviante del momento. Psicoterapia è una relazione alla pari tra un esperto e una persona con difficoltà psicologiche. L’esperto, che non deve presentare le stesse difficoltà psicologiche del paziente, aiuta il paziente a riflettere su se stesso e si serve di tutti gli strumenti a disposizione, pensieri, angosce, sogni etc. L’esperto non sta al di sopra del paziente, nel senso che non gestisce un sapere assoluto né lo minaccia con diagnosi di patologia nell’intento di costringerlo a cambiare. L’esperto affianca il cliente e lo aiuta a realizzare se stesso sulla base delle proprie aspettative e non sulle aspettative che un esperto può avere, a cominciare dal modello di persona sana stabilito dalla scuola di pensiero cui l’esperto stesso fa riferimento. Ebbene, tutte le volte che la psicoterapia non viene gestita da esperti che rispettano l’umanità del paziente e la sua storia, abbiamo gli eccessi. In questo, Adele Lussari non si fa mancare nulla. La sua gestione del carisma la porta ad essere l’asse del suo “grande gruppo”, intorno al quale ruotano gli altri in una condizione di totale soggezione culturale e personale. L’innesto poi, della componente politica nella prassi di Adele, non fa che rinforzare il suo carisma, allontanando da lei i sospetti di una totale autoreferenzialità e collocandola nella sfera dei ribelli che danno spazio alle classi più deboli o a un quanto mai mistificante concetto di collettivo. Potrei dire che nel descrivere gli eccessi di Adele ho effettivamente spiegato quelli che io credo siano i più comuni errori in psicoterapia.

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Ci racconti delle due figure principali, concettualmente agli antipodi, di Adele Lussari e Livio Spada.

Era necessario far scaturire la differenza tra i due modi di intendere la psicoterapia mettendo a confronto due personaggi, che guarda caso sono un uomo e una donna. La loro dialettica, che poi si trasforma in uno scontro, scaturisce dal modo in cui sono stati concepiti come personaggi. Così, una volta creati Livio e Adele, essi hanno cominciato a reagire l’un l’altro lasciandomi quasi a guardare il loro confronto. Il regista Livio Bordone mi ha fatto notare che Adele è veramente un personaggio affascinante, anche se disegnato a tinte fosche. Marco Sparvoli, un collega psicoterapeuta che scrive libri gialli, alla presentazione mi ha chiesto se avevo qualcosa a che fare con Adele ed io gli ho risposto che tutti i giorni a tutte le ore cerco di non essere come lei. Ciò non significa che cerchi di essere come Livio Spada. Lui esiste come il positivo dell’altra ma non era mia intenzione farne un eroe. Anche la stessa Adele è presentata in situazioni molto umane, che allontanano da lei l’alone malefico della strega. Infatti, non mi piace chi brucia le streghe, uomini o donne che siano. Preferisco correre il rischio di esaltare un personaggio negativo, piuttosto che volutamente renderlo odioso ai lettori. Il finale del libro, ossia lo sguardo al percorso esistenziale del personaggio, a mio avviso, è sufficiente a farne un ritratto che la colloca nella giusta dimensione, senza aspetti caricaturali che la demoliscano per volontà dell’autore.

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È troppo presto anticiparci quale sarà il futuro di Adele e se avrà un futuro?

I personaggi come Adele, per me, non dovrebbero avere un futuro, per quanto dicevo dianzi. Basta raccontare il loro percorso esistenziale per renderne visibili al lettore le contraddizioni e i vuoti inconsapevoli. La Storia insegna che i personaggi carismatici muoiono male, non tanto per il tipo di morte quanto per la stessa irriverenza della morte, la quale li priva degli orpelli e delle pretese che per tutta la vita hanno gestito, spesso in modo mistificante. Sic transit gloria mundi, si suole dire anche quando non di carisma si tratta ma di effettivo potere. Quello che è sicuro è che i proseliti, cioè seguaci e discepoli dei personaggi carismatici, non si arrendono facilmente alla realtà della morte del loro guru. Per tutta la vita, chi si è fatto inglobare in un sistema carismatico fa vivere dentro di sé ciò che gli viene detto, imposto, ispirato. Per cui, non può accettare che tutto questo finisca per sempre, e allora procede con la mummificazione del capo carismatico (Lenin?) e trasforma il carisma in istituzione ferrea, con le opere del morto esposte come vangeli e le reliquie adorate in pubbliche adunate. Ecco la fine di Adele!

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A quali scrittori del suo filone e a quali letture in generale è rivolta principalmente la sua attenzione?

Certamente ho preso in considerazione l’opera di Irvin Yalom, anche lui come me psichiatra e psicoterapeuta di gruppo. Per gli altri autori rimango ai classici, in quanto sono un lettore sporadico di narrativa. Adoro Camus e la sua prosa asciutta, e naturalmente Celine. Posso dire che mi sono fatto le ossa con il romanzo francese, Balzac, Hugo, Flaubert, Maupassant. Tra gli italiani ho una passione per Pirandello, Calvino, Moravia. Ahimè, adesso non leggo più nulla se non saggi scientifici. Ma vedo molto cinema. Forse è per questo che la forma dialogica è molto presente ne “La Fuoriuscita”.

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Quali sono i punti di contatto del suo romanzo con la tematica trattata nella serie televisiva “In treatment”?

Forse proprio quanto ho finito di dire: il dialogo. Il serial è molto ben fatto dal punto di vista psicologico e riporta casi clinici non banali, probabilmente presi dalla realtà. Di “In treatment”, mi è piaciuta la capacità di rendere visibile una seduta di psicoterapia, lasciando che fossero i contenuti e non l’azione scenica a movimentare la narrazione. È straordinario cogliere il movimento narrativo quando ciò che lo produce non sono le persone, quasi sempre sedute su due divani contrapposti, quanto le parole, le espressioni del volto, i dettagli e gli accenti delle frasi. Tuttavia, nel mio romanzo non c’è solo il setting della psicoterapia, anzi gli ambienti sono diversi e spesso rappresentati dalle case dei vari personaggi. Come dire un po’ di In treatment e in più il contesto urbano o naturale che colloca i personaggi nel mondo e non soltanto nella parentesi di un incontro psicoterapeutico.

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La sua professione incide e, se incide, quanto incide sull’attività di scrittore e con il suo stile di scrittura?

Incide moltissimo. Sono più di trent’anni che parlo ai miei pazienti, cercando di raccontare la loro vita, per riorganizzare la loro personalità. Trovare le parole per descrivere in modo efficace una persona e la sua storia è come scrivere un racconto che avvince e affascina. Certo, ho sempre avuto un talento narrativo, fin dall’infanzia. La mia professione, però, mi ha permesso di entrare nelle vite degli altri e di poter restituire loro la stima di sé senza giudizi o schemi, semplicemente raccontando l’insieme che su un piano narrativo acquista senso, anche quando il risvolto è drammatico o traumatico. Parlo molto nel mio lavoro, tanto che più di un paziente a volte me lo fa notare. Sarà perché non accetto i racconti sconnessi e frammentari e vorrei subito sistemare in senso narrativo la quantità di dati che mi capita di ascoltare dalle persone.

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Le faccio una domanda particolare in qualità di psichiatra psicoterapeuta, considerando anche che lei è stato intervistato più volte da emittenti nazionali su efferati casi di recente cronaca nera. In Italia stiamo assistendo a un impressionante aumento di violenza sulle donne e di violenza in generale. Negli ultimi anni da noi sono cresciuti in modo esponenziale non solo il numero e la tipologia di media ma anche le ore di programmazione di messa in onda di notizie su innumerevoli piattaforme. Le chiedo: esiste una relazione, anche solo lontana, tra violenza e pressione mediatica di notizie sanguinose che alcuni di noi subiscono ogni giorno? O meglio: la nostra società è pronta a questo continuo bombardamento di notizie in tempo reale diffuse ventiquattro ore al giorno che si vanno a mischiare nella mente dell’utente a fake news, programmi satellitari, canali on demand?

Tema assai importante e serio. Quanto ci influenzano le immagini in senso negativo? Il fatto è che per fortuna ci influenzano anche in senso positivo, per cui la cultura di massa andrebbe curata con attenzione dalle istituzioni. Non farò discorsi sociologici, ci sono esperti più preparati me. Vorrei però evitare di guardare il dito anziché la luna. Di per sé non è un male tutta questa informazione. Diciamo che è servita a sprovincializzare il mondo e soprattutto l’Italia. Ma ha creato il fenomeno del Truman show, ossia la possibilità che modelli artificiali e mistificanti possano entrare nella nostra mente, condizionandone le scelte e la riflessività. L’orientamento diventa a questo punto fondamentale. Penso che la psicoterapia moderna debba fornire questo orientamento, evitando di voler somigliare a una fonte di suggestione come la psicoterapia arcaica o carismatica. Quanto alla violenza, ritengo l’idea che sono le immagini di violenza a innescarla una panzana. Casomai la fiction può indurre fenomeni di moda e manierismo, tipo il bullismo mediatico. La violenza, a mio avviso, è sempre suscitata da altra violenza diretta, quella vera cioè, non quella rappresentata nei media.

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Se potesse psicanalizzare uno scrittore dell’ultimo secolo, anche un autore storico non più tra noi, chi le piacerebbe avere tra i suoi pazienti e perché?

Non sono mancati i letterati tra i miei pazienti. Tuttavia, mi sarebbe piaciuto poter impedire il suicidio di Cesare Pavese, restituendogli quell’autostima e quell’entusiasmo di vivere che gli venne meno. Naturalmente, anche Dino Campana e la sua ben nota bipolarità mi avrebbero mobilitato non poco. Il motivo è che una mente geniale non può che giovarsi della psicoterapia, forse più di altri. Tuttavia, devo far rilevare un difetto degli artisti in genere. Cioè, utilizzare la conoscenza proveniente dalla psicoterapia per aumentare la complessità del loro genio e non invece per migliorare la solidità della loro personalità. La deriva culturale della psicoterapia, cioè il fatto di mettere al primo posto il fattori culturali, finisce per mettere al secondo posto i fattori terapeutici.

 

Borja Bolcina

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