Aveva ragione lei

Aveva ragione lei, signor giudice, io sono più io. Chiudeteli tutti e gettate via la chiave

«La signorina è socialmente pericolosa?» chiese il Giudice squarciando il velo degli scientismi dello psichiatra che la teneva in cura.
«Non posso affermarlo con certezza, io non lo so. Come non so dirle con certezza che uscendo da quest’aula di Tribunale io non possa, nel corso di un battibecco col vigile urbano per una multa per sosta vietata, dare in escandescenza e tirare un pugno al vigile. Io lo so, non è giusto e non si fa, ma il libero arbitrio… no, non posso affermare una certezza del genere, non posso dare garanzia su eventi futuri e imprevedibili per me e per la signorina che ho in cura. Di nuovo c’è che la paziente ha reagito lentamente, ma positivamente, alla terapia farmacologica somministratele. Se continuerà a curarsi, a farsi le punture agli orari prescritti, se verrà seguita dalla famiglia, se eviterà circostanze deflagranti, forse…», depose dubbioso il medico al microfono dell’aula giudiziaria.
«Se. Se. Se. Vostro Onore, io vorrei che a definizione dell’udienza si potesse arrivare ad un giudizio cristallino sulla pericolosità sociale dell’imputata», incalzò l’avvocato della parte civile. «Se. Se. Se. La signorina, come sappiamo tutti, ha una grave situazione familiare, attacchi di quel tipo hanno traumatizzato la mia cliente, la sua famiglia, i suoi bambini di sette e nove anni… Perciò, Giudice, o terminiamo l’udienza con un giudizio inequivoco sulla sua pericolosità sociale e sulla certezza che la signora non possa, una volta uscita, compiere altri crimini, o, sussistendo anche la minima possibilità o incertezza, devo concludere per la richiesta già formulata nel mio atto conclusivo, ovvero per la permanenza senza termine della signora presso l’Istituto di Igiene Mentale “Renaissence”».
A questo punto l’avvocato della difesa si alzò, con scatto deciso. Era quasi furibondo, o probabilmente fingeva solamente. Di certo era stanco e scontento di aver perso quella mezza giornataccia nell’arrivo di sua santità il Giudice, del Pubblico Ministero e dei due agenti di Polizia.
«Perfino la cancelliera», avrà certamente pensato tra sé e sé prima che l’udienza iniziasse, «È indaffarata nelle sue faccende da scribacchina, e io che sono dieci giorni che non si becca l’ombra di un cliente sono costretto ad ammorbarmi i coglioni con pazze e zingari per due lire che vedrò tra più di un anno, potrei paradossalmente essere già morto a bonifico avvenuto, hm… serviranno a coprire parte delle spese del funerale».
Il difensore in piedi di fronte al Giudice, la toga aggrovigliata sulle spalle , iniziò la sua arringa: «Vostro Onore…» e via col pippotto di frasi prestampate da un manuale del ministero per la buona salute: la signora è guarita, ha capito, è fisicamente e spiritualmente provata, ha trovato un fratello disposto a prenderla con sé, è di buona educazione, ha studiato…
La mia figura, impassibile, ascoltava gli speech sul mio grado di pericolosità sociale quasi come se le parti stessero discutendo di matematica applicata alla fisica quantistica, roba di cui a me non avrebbe importato nulla.
Gli occhi fermi sulla targhetta dorata “La legge è uguale per tutti”, le mani sul bancone di legno scuro, un ciuffetto di capelli biondo cenere immobile tra l’occhio destro e lo zigomo pallido che mi incorniciava diagonalmente la vista.
Ma ecco che l’avvocato della parte civile, stufatosi di sentire farfugliare il revival di bontà e luoghi comuni del mio avvocaticchio di periferia, l’interruppe brusco stoppandogli il discorso con un breve ma acuto «Vostro Onore…», lasciato in sospeso. Attese che gli occhi del Giudice risvegliati dal sonno in cui stavano lentamente sciogliendosi si spostassero e catalizzassero inconsciamente sulla sua figura. Non appena ebbe la sua attenzione, infatti, come un fiume in piena esordì domandando: «Sa l’avvocato dell’imputata quali fatti ha commesso l’imputata? Sa l’avvocato dell’imputata quanti episodi incriminati si sono susseguiti nel tempo? Sa l’avvocato dell’imputata degli appostamenti che la stessa faceva la notte sotto casa della giovane scrittrice? Ha letto l’avvocato dell’imputata i referti medici inerenti le aggressioni subite dalla mia cliente da parte dell’imputata? Che la mia cliente ha salvato la sua vita e quella di suo marito per un soffio? Ancora, signor Giudice: sa il perito psichiatra cosa ha combinato l’imputata? La scienza è concorde nell’affermare che alcuni soggetti maniaci sono sopiti quando l’oggetto delle loro manie svanisce così come nell’uxoricidio, così che se viene chiesto: “è socialmente pericoloso un uxoricida?”.. la risposta non può che non essere, a prescindere dalle contingenti pene irrogate, negativa. Chi uccide la propria moglie non è più socialmente pericoloso perché l’oggetto della sua mania, la moglie appunto, si è risolto nella morte. Nel caso che occupa, Vostro Onore, la mia assistita insieme a suo marito è viva, fortunatamente. L’oggetto delle manie dell’imputata è esistente e, pertanto, stante la psicosi che affligge il soggetto, come pacificamente certificata, l’imputata è ancora socialmente pericolosa e lo sarà per sempre».
A questo punto l’avvocaticchio si colorì di rosso in volto e, visibilmente agitato, disse: «Vostro Onore, l’imputata è rinchiusa da mesi in un manicomio criminale che, sebbene ora si chiami Istituto, è pur sempre un luogo angusto e invivibile. Io stesso sono stato a trovare la mia cliente presso la struttura che dista a quaranta chilometri da qualsiasi centro abitato. Ho trovato la mia cliente, visibilmente denutrita ed emozionalmente chiusa. Mi ha confessato di essere stata oggetto di dileggio da parte di alcuni occupanti la clinica, anche a sfondo sessuale… Vostro Onore la mia cliente è sana, mentalmente stabile nel suo ambiente, ma in quelle mura chiunque impazzirebbe, è pieno di matti e…» mentre titubava nella sua incertezza di provincia, lo sguardo del Pubblico Ministero e del Giudice si incontrarono a metà dell’aula di Giustizia e affermarono in coro, quasi facendo il verso a quanto detto dall’avvocaticchio, «Si è una gabbia di matti, e la tua cliente è una matta da legare. È per questo che l’abbiamo rinchiusa».
«Voglio solo dire, Vostro Onore, che sappiamo tutti quali sono i fatti incriminati e il perché la mia cliente ha agito in quel modo. La signora, sebbene abbia avuto alcuni problemi nel passato, e sebbene non abbia più la custodia dei figli, non ha fatto ciò per cui è stata condannata senza un motivo. Pur se illecito e illegale il motivo vi era. La signora aveva consegnato alla scrittrice il proprio memoriale con la speranza di una imminente pubblicazione su un mensile nazionale. La scrittrice prese in consegna il memoriale, probabilmente già sapendo che mai avrebbe tentato di far pubblicare quella roba, né tantomeno aveva intenzione di leggerla. Così quando la mia cliente si presentò a casa della scrittrice chiedendo la restituzione del carteggio, scoprì la drammatica, per la sua sfera emotiva, verità: il carteggio era andato perso e lei non ne aveva fatto nessuna copia. Depressa e nello sconforto più totale, covò per alcuni mesi rabbia e risentimento che, alla fine sfociarono nei fatti per cui la stessa è stata giudicata, pur se non imputabile all’epoca. L’oggetto della sua mania, per così dire, dunque, non è la scrittrice, bensì era il carteggio. La mia cliente è cosciente che il suo memoriale è andato perso, per sempre e di questo se n’è fatta una ragione». Concluse poi in fretta «Giudice, non possiamo tenere a vita la mia cliente nell’istituto».
«Ben detto… non possiamo non possiamo, non possiamo» pensai, sguardo fisso, ciuffo biondo lievemente poggiato sul pallido zigomo, «Il cibo sa di merda e quegli uomini… la loro puzza, i loro sguardi ebeti addosso. No, Vostro Onore io devo uscire da quel buco dove mi hai ficcato tu e il tuo amico psichiatra».
Sicuramente furono quei pensieri rabbiosi che mi frullavano per la testa a colorirmi gli zigomi di rosso, a darmi un’aria di presenza, ora, vivida alla discussione.
Mi mossi, ma solo lievemente, girandomi prima dal lato destra per scrutare i pochissimi presenti all’udienza, poi dal lato sinistro per tener d’occhio i movimenti e le occhiate del Pubblico Ministero e dell’avvocato della scrittrice.
Quest’ultimo prese la parola, dopo che il Pubblico Ministero si era riportato alle sue conclusioni formulate in atti: «Vostro Onore, si chiede che la misura di sicurezza venga mantenuta invariata perché l’imputata rappresenta un grave pericolo sociale e un grave pericolo per la mia assistita e la sua famiglia. Si chiede questo, Vostro Onore, anche in considerazione del fatto che l’imputato, pur se non imputabile all’epoca dei fatti, ha inseguito brandendo un pezzo di legno la mia assistita e i suoi bambini di sette e otto anni, lungo la strada che costeggia la sua abitazione e che la stessa ha dovuto rintanarsi, come se fosse una preda da cacciare, presso alcuni esercizi commerciali per sfuggire alle sue grinfie, ha trascorso ore ed ore sotto l’abitazione della mia assistita a spiarla dalla strada attraverso le finestre, ha tentato di uccidere la mia assistita investendola con l’automobile nel parcheggio desolato di un centro commerciale in chiusura. E avrei altre circostanze, ma sono tutte riscontrabili negli atti già prodotti. Ho concluso».
Si alzò, dunque, in piedi l’avvocaticchio, visibilmente provato e armato di poca e scemante buona volontà manifestata dal leggero sudore che gli luccicava le tempie. «Vostro Onore, la mia assistita è completamente sana, lucida e del tutto presente. Ha risposto in modo soddisfacente alle cure nell’Istituto e non può più rimanervi. Tutti i parametri biologici e umorali della signora sono rientrati nella norma e il Centro di Salute Mentale le assicurerà le cure necessarie anche presso la sua abitazione. Liberatela: la signora è rinata e, se consentite, avrebbe delle dichiarazioni spontanee da rendere».
Ecco è il mio turno, sì, il segnale, il discorso già provato mille volte nella penombra dell’Istituto, gli uomini ebeti che presiedevano le loro trincee mentali.
Mi alzo, lo scialle di lana grezza pesante sulle spalle, inforco gli occhiali: «Vostro Onore! Buongiorno, sono io finalmente che parlo. Fa un certo effetto sentire discutere altri riguardo le cose che non vanno nella tua testa. Sono di nuovo io, anche grazie al supporto e alle cure del Centro, ho ripreso il contatto e la lucidità. Capita a tutti di vivere un periodo stressante. Considero tutt’ora la signora scrittrice una delle mie migliori amiche e so che quello che si è creato tra noi è solo frutto di uno spiacevole equivoco che spero un giorno si risolverà. Sono una persona educata e colta, ho studiato recitazione alla Scuola Menegutti di Roma, non faccio uso di stupefacenti da anni. Della mia famiglia è rimasto solamente il mio unico fratello presso la cui abitazione vorrei risiedere per un primo momento se acconsentirete alla mia uscita dall’Istituto. Eccomi, perciò, sono tornata ad essere me stessa e non voglio tornare indietro».
Bevvi un goccio d’acqua e ripresi: «Quindi ringrazio tutti i presenti per questo premio. Un saluto, in particolare, lo dedico alla mia nonnina scomparsa che sarebbe orgogliosa oggi, se fosse viva, nel vedermi qui…», stavo parlando, ma non ero più io a muovere la bocca. Almeno non era più il mio primo io. Lo sguardo addormentato dei presenti, brillò tutto di un colpo. «Ritiro il premio assegnatomi dalla giuria e ringrazio tutte le persone presenti. Grazie». La mia voce terminò, il mio corpo tornò a sedersi, quasi privo di volontà. Solo una goccia d’acqua salata, come una lacrima, mi rigò la guancia scavando dallo zigomo coperto dal mio ciuffo biondo cenere.

 

Giancarlo Pitaro

 

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