Goodbye, mosquitos!

Zanzare, zecche e scarafaggi non piacciono a nessuno. E se si potesse provocarne l'estinzione? [Racconto breve]

La pubblicazione dell’articolo scientifico “Mosquitos: do we need them?” da parte di alcuni ricercatori dell’Imperial College di Londra sul prestigioso Journal of Parasitology aprì il dibattito nella comunità scientifica. Descrivendo i mirabolanti progressi dell’ingegneria genetica, il documento era chiaro: modificandone il DNA, si poteva provocare artificialmente l’estinzione delle zanzare. Varie prove in laboratorio dimostravano che era possibile rendere le femmine infertili e incapaci di pungere, causando il collasso dell’intera popolazione di zanzare nell’arco di una decina di generazioni. Senza ulteriori calcoli, l’articolo chiosava sulla reale utilità di questi insetti, chiedendosi se la prospettiva di sterminarli fosse poi così utopistica. Con la loro scomparsa, ipoteticamente, si sarebbe potuto dare una bella spallata anche a tutta quella lunghissima lista di malattie infettive ben conosciuta dagli studenti di medicina, capitanata dalla regina delle parassitosi: la malaria.

Ma non tutti erano d’accordo sul fatto che sterminare le zanzare avrebbe avuto solo floride conseguenze. La natura ha i suoi tempi e i suoi ritmi, e andare a modificarla in maniera tanto brusca avrebbe avuto effetti imprevedibili. Per questo, la comunità scientifica cadde in una titubanza sterile, che non portò a nulla di fatto nell’immediato. Le supposizioni più allarmistiche andavano dallo sviluppo di una specie di zanzara super-resistente allo squilibrio irreversibile che si sarebbe andato a creare nella catena alimentare, andando a colpire anfibi, ragni, rettili e tutta quella gang del bosco ghiotta di questi insetti. Ma quando qualche mese dopo vennero rilasciate in Uganda alcune zanzare anofele modificate, nessuna previsione aveva preso in considerazione quello che poi accadde.
Il numero di zanzare nella zona crollò, e una vera e propria epidemia genetica iniziò a espandersi tra le diverse specie di zanzare vicine. Un virus chiamato O’nyong’nyong venne eradicato dopo solo un anno dal rilascio della prima zanzara modificata. A ruota seguirono tante altre malattie infettive; per ultima, anche la tanto temuta malaria vide il crepuscolo. Il numero globale di zanzare calò dell’80% in tre anni. La natura ci aveva assecondato, forse stupita dalla velocità di esecuzione: la vittoria era clamorosa. Il ricercatore che rilasciò in Uganda la prima zanzara modificata vinse il Premio Nobel e riconoscimenti in tutto il mondo. Dai tempi di Edward Jenner e dell’eradicazione del vaiolo non si aveva avuto quest’impressione limpida di controllo della natura, di onnipotenza della scienza.

Gli strascichi sull’ambiente furono insignificanti. I comuni predatori delle zanzare non ebbero problemi a passare a una dieta “mosquito-free”. Si trattava di insetti facilmente sostituibili, anzi la loro scomparsa evidenziò, per contrasto, la loro dannosità: la natura non aveva affatto bisogno delle zanzare.

La fiducia nei mezzi della tecnologia e del progresso scientifico era alle stelle: il potere decisionale degli istituti di ricerca crebbe esponenzialmente, fino a raggiungere un importante peso specifico politico. La scienza non solo aveva dimostrato di essere molto più efficace di partiti e istituzioni, ma si era autoproclamata vertice della piramide, autorità suprema.
I rapidi miglioramenti portarono presto a un ragionamento logico: se con le zanzare aveva funzionato, perché non continuare? La lista di invertebrati e parassiti dannosi e nefasti era ancora lunga, in effetti. La comunità era ormai piegata al nuovo algoritmo pan-scientifico e non oppose nessuna resistenza di tipo etico. In pochi anni zecche, acari, pulci, vermi solitari, tafani e altri animali non pucciosi subirono lo stesso trattamento delle colleghe zanzare. L’ingegneria genetica si dimostrò un killer silenzioso e spaventosamente efficace, e andava bene a tutti: gli unici a protestare furono i produttori di zanzariere e quelli di antiparassitari per cani, che iniziarono una campagna mediatica fatta di scenari apocalittici dovuti all’eccessiva intromissione dell’uomo sull’ambiente. Decisamente troppo poco per fermare la locomotiva del progresso scientifico, che continuava a divorare la pianura inesorabilmente.

Così, quando qualcuno ipotizzò di estendere il discorso a altri animali che erano semplicemente schifosi, come scarafaggi o cimici, nessuno prese la cosa con sgomento. Il contesto culturale che si era creato lasciava poco spazio a dilemmi a sfondo morale, in nome di un utilitarismo al quale erano stati aggiunti canoni estetici. Le opposizioni erano troppo deboli: nessun partito delle blatte seppe far valere i propri diritti, perché in fondo non piacciono a nessuno, le blatte. Solo per il fatto che sono brutte da vedere: non molto muscolosa, come ragione per sterminarle. Ma il pensiero unico ormai aveva deciso: “stop cockroaches” era lo slogan che albergò per settimane tra i discorsi degli addetti ai lavori.

Con il susseguirsi delle stagioni, tra la comunità scientifica aumentò l’influenza di un gruppo di scienziati più radicale. Al motto di raise the bar, proponevano qualcosa di molto intuitivo: allargare il discorso ad animali vertebrati, più sviluppati e complessi, ma comunque dannosi e non utili. In particolare, il loro obiettivo principe erano i piccioni. Già, i piccioni: volatili stupidi, antiestetici, vettori di malattie, emblema della sporcizia. Perché farli continuare ad esistere? In cosa sarebbero meglio dei tanti odiati scarafaggi?
Ormai la direzione intrapresa era chiara. La manovra irreversibile. E così, anche il piccione sembrò arrivare al capolinea della sua carriera evolutiva. Nessuno sembrava essere in grado di fermare il processo. Gli animalisti si erano estinti da un pezzo, e per la gente comune difendere i piccioni sembrava qualcosa di ridicolo. Anche solo ipotizzare la cosa veniva considerata una sciocchezza da sfigati anti-scientifici, con la gogna mediatica all’angolo, pronta a fare il suo dovere.

Tuttavia, tra i meandri della società iniziarono a brulicare pensieri oppositori. Gruppi segreti, a invito, su Facebook iniziarono a rispolverare i concetti base dell’animalismo. Si tornò a discutere del presunto diritto dell’uomo di sostituirsi all’evoluzione, di decidere quale specie possa sopravvivere e quale no. Il piccione si trasformò rapidamente in un martire. Nonostante l’opinione pubblica fosse completamente orientata in direzione contraria, alcuni trovarono il coraggio di parlarne pubblicamente. Ricevendo, come da copione, fango e critiche – nel migliore dei casi – fino alla censura. Non c’era più spazio per il dibattito, e quando anche alcuni scienziati se ne accorsero si era già fuori tempo massimo.
Così, quando in una soleggiata giornata di maggio alcune persone mascherate liberarono una cinquantina di piccioni in Piazza San Marco a Venezia – da poco proclamata “pigeon-free” –  lo sgomento esplose. Le immagini degli uccelli che svolazzando terrorizzavano i passanti fecero il giro del mondo, per non parlare delle persone che si ritrovarono le loro feci addosso, intervistate come sopravvissuti miracolati. Ci fu addirittura chi parlò di bio-terrorismo, asserendo a tutte le malattie di cui i piccioni possono essere vettori. Il gesto non poteva passare inosservato: molti politici, piegati al pensiero unico, lo utilizzarono come casus belli per accrescere la propria popolarità, scagliandosi contro “i nemici della Scienza”. La faglia si era creata. Una nuova guerra – c’era già chi la chiamava la Guerra del Piccione – aveva visto gli albori.

 

di Raffaele Scarpellini

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