Stefano Benni: “Lolita” @ Teatro Marconi (Roma) – 09/2017

Benni torna al libro di Nabokov leggendolo tutto da solo, in un reading che comprende una decina di brani e proiezioni di immagini

Lo scrittore è prima di tutto un lettore, il lettore è qualcuno che è stato bambino e che da bambino ha osservato l’esempio degli altri, lo ha imitato prima e lo ha passato sotto la sua piccola lente critica dopo, quando ha iniziato a fare domande. Qual è l’istante in cui nasce il lettore? Quale quello in cui nasce lo scrittore? Nascono entrambi nel bambino, nelle sue domande, nel suo modo di osservare il mondo?

Il 23 settembre scorso, al Teatro Marconi, ho assistito ad una metamorfosi straordinaria e progressiva. Lo scrittore Stefano Benni in primis, il cui nome è stampato sul biglietto d’ingresso come sulle copertine delle decine di suoi libri che posseggo nella mia libreria; in secondo luogo l’uomo Stefano Benni, che da dietro le quinte osserva la sala in un gesto intimo che sembra far trapelare la curiosità del bambino Stefano Benni; il lettore Stefano Benni, che si siede su una poltrona, dopo esser entrato in scena e aver recitato le prime righe di uno degli incipit più memorabili della storia della letteratura novecentesca, e volge lo sguardo al leggio; l’attore Stefano Benni, che si alza, va ad un altro leggio e mette in scena la propria voce, affidandole le svariate interpretazioni del testo letterario protagonista della serata.

Il libro è un classico intramontabile e, chi lo ha letto lo sa, meraviglioso e conturbante: “Lolita“, di Vladimir Nabokov, pubblicato per la prima volta nel 1955, narra dell’amore scandaloso, folle e intensissimo che un professore di letteratura, Humbert Humbert, nutre per Dolores, da lui soprannominata Lolita, la figlia dodicenne della sua padrona di casa.

Complice lo stile di Nabokov e la potenza della vicenda narrata, il reading di Benni – inserito nell’ambito del progetto “Lunga vita”, a cura di Tradizione Teatro (il cui direttore artistico è Davide Sacco e il direttore organizzativo è Ilaria Ceci) – cattura l’attenzione e lascia col fiato sospeso dall’inizio alla fine. Sono minimali i giochi di luce, tra un brano e l’altro c’è qualche breve istante musicale che fa da colonna sonora ideale e indubbiamente ha un ruolo attivo nel creare la suggestione di ritrovarsi là, nelle pagine del romanzo, a vagabondare con i protagonisti da un motel all’altro, a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50.
Benni, con i soli strumenti della voce e della mimica facciale, riesce, attraverso le parole di Humbert Humbert, ad interpretare i vari personaggi che mano a mano il protagonista inserisce nel tessuto del suo racconto, senza mai far dimenticare che sono visti dall’occhio della creatura di Nabokov, uno dei personaggi letterari più affascinanti e allo stesso tempo ripugnanti che siano mai stati creati.

Rifletto spesso su quello che la letteratura rappresenta per me e universalmente, più la studio, la leggo, la vivo, più mi rendo conto che i suoi significati sono molteplici e non riducibili a poche banali sentenze. Più vado avanti e più mi rendo conto che la letteratura è qualcosa di necessario e vitale. Sì, vitale, perché è vita, è mondi nuovi e diversi, è forza inarrestabile e incontenibile. È l’unione di mondi diversi, come quelli del teatro e del libro: il palcoscenico e la carta, la voce e l’occhio, l’attore e lo scrittore e infine l’incontro tra due scrittori, di cui uno si fa, per una sera, attore e lettore, uomo e bambino. E poi un pubblico che non si muove, completamente rapito fino alla fine, come immerso anch’esso nella lettura, come lontano dallo spazio e dal tempo. Calvino scriveva che nella lettura si aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili. Io mi sento di dargli piena ragione.

 

Ilaria Pantusa

Foto: Serena Savatonio

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