L’amant (Parte Prima)

Analisi atipica di un intreccio filmico-letterario a puntate

Ouverture

Capita spesso, guardando un film tratto da un capolavoro letterario, di fare un confronto col testo d’origine, rimanendone per la maggior parte delle volte delusi. Questo accade perché film e libro vengono erroneamente considerati come un unico lavoro, dimenticando, in verità, che si tratta di opere diverse, basate su punti di vista diversi, e quindi, raramente concordanti. Per molto tempo, ad esempio, ho considerato “L’amant” di Jean Jacques Annaud un film troppo superficiale nella sua costruzione narrativa; ma riguardandolo oggi, a distanza di anni dall’ultima volta, mi rendo conto di quanto in realtà la mia opinione fosse azzardata, dipesa soprattutto dalla mia devozione al libro originale ed alla sua autrice, Marguerite Duras.

Oggi, questo film appare ai miei occhi in tutta la sua complessità affascinandomi. Certo, la differenza tra L’amant di Annaud e L’amant della Duras è indubbia, in certi punti abissale; tuttavia, in questo caso, l’uno non può essere del tutto scisso dall’altro, poiché si completano a vicenda; anzi, si può perfino dire che l’uno aiuta a comprendere meglio l’altro. Ma, per capirne di più, dobbiamo necessariamente partire dall’inizio.

A differenza di una qualsivoglia storia enfatizzata dalla fantasia dell’autore, L’amant di Marguerite Duras è un romanzo autobiografico, un racconto diretto, in prima persona , del suo primo amore, il suo segreto più intimo, colui che la iniziò all’arte dell’eros all’età di quindici anni e mezzo. È la confessione di un ricordo scomodo, apparentemente dimenticato nella memoria ormai assopita dagli anni, che vien fuori all’improvviso, da una semplice telefonata, travolgendo con la sua carica emotiva. Così, attraverso le memorie che via, via riaffiorano durante il racconto, lei, la donna, si racconta attraverso la ragazzina, senza autocensurarsi e rivivendo per la seconda volta la sua vita. Ma se nel libro questo aspetto vien fuori attraverso i flashback che affiorano in maniera spontanea, senza cioè nessuno sviluppo cronologico preciso e dando in questo modo lo stesso spessore e la stessa importanza a tutti i fatti e persone che hanno animato la vita dell’autrice, il film si presenta più lineare nell’evoluzione narrativa, concentrandosi prevalentemente sulla figura dei due amanti e ponendo in secondo piano tutto il resto, senza perderlo del tutto di vista, ma relegandolo al ruolo di contorno.

Per seguire al meglio l’analisi che andrò esponendo, cercate di abbandonare i limiti delle due versioni de L’amant, leggendo oltre il libro e guardando al di là del film, lasciando che la storia si impadronisca di voi e vi si mostri nella sua vera essenza. Se siete pronti possiamo iniziare.

 

Puntata n.1: Lo sguardo

Tutto ha inizio con il lungo monologo della donna matura -la scrittrice- che vi introduce nel suo racconto attraverso quell’immagine che vi accompagnerà per tutta la storia, la sua immagine prediletta, la ragazzina appoggiata al parapetto del traghetto che attraversa il fiume Mekong:

«Dunque ho quindici anni e mezzo. Un traghetto attraversa il Mekong. L’immagine dura per tutto l’attraversamento del fiume».

Ai vostri occhi appare così, innocente e spietata, silenziosa e frastornante, semplicemente bella, immersa nella luce dorata del paesaggio del fiume. Il vostro sguardo è subito rapito da lei e la esplora attraverso la macchina da presa, dettaglio su dettaglio, dal vestito di seta naturale senza maniche, “quasi trasparente”, alla cintura maschile in vita; dalle scarpe di lamé e strass da ballerina, alle trecce da bambina.

«[…] Ma quel giorno non sono le scarpe la nota insolita, inaudita nell’abbigliamento della ragazza. Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l’ambiguità dell’immagine è quel cappello».

E lei, la ragazzina sul parapetto, vi lascia fare, anzi, vi invita a sezionarla con lo sguardo, attirando una volta per tutte il vostro totale interesse:

«Sul traghetto guardatemi, li ho ancora. Quindici anni e mezzo. Ho già cominciato a truccarmi, adopero la crema Tokalon per cercare di nascondere le lentiggini che ho sulle guance, in alto proprio sotto gli occhi. […] Quel giorno ho anche il rossetto, rosso scuro, come si usava allora, rosso ciliegia».

Guardatela, guardatela bene, perché vi sta rivelando la sua verità: questa magra ragazzina di fronte a voi è l’immagine del piacere; lei sa di esserlo, sa di essere l’immagine del piacere, del desiderio; per questo si lascia guardare consapevole e crudele, riconoscendosi nel vostro sguardo, lo stesso del suo amante.

«[…] Ma io so che non si tratta di bellezza, ma di qualcos’altro, di qualcosa di diverso, che appartiene allo spirito. Sono come voglio apparire, anche bella se gli altri lo vogliono, o carina, carina diciamo per i familiari, per loro e basta, insomma posso diventare come gli altri vogliono che sia. E credeteci. Anche credere che sono affascinante. dal momento che lo credo, so anche farlo diventare vero agli occhi di chi mi vede e desidera che io sia di suo gusto».

D’un tratto lo sguardo volge altrove, verso la limousine nera nascosta nella moltitudine di passanti e oggetti del traghetto, dalla quale scende un giovane uomo dai tratti orientali. È lui adesso l’oggetto della vostra attenzione. È vestito in abito bianco da ricchi il cinese; i suoi modi sono eleganti, la sua figura morbida, curata. Si avvicina “palesemente intimidito” alla ragazzina; la macchina da presa -il vostro occhio- lo accompagna lentamente fermandosi davanti a lei. Adesso entrambe sono di fronte a voi, l’uno accanto all’altra, appoggiati al parapetto del traghetto che attraversa il Mekong.

«[…] Nono sorride subito, prima le offre una sigaretta. Gli trema la mano. Trema perché non è bianco, e c’è la diversità razziale da superare. Lei gli dice che, grazie, non fuma, non aggiunge altro, non dice mi lasci in pace, allora lui si rassicura. Le dice che vedendola ha creduto di sognare, lei non risponde, non vale la pena rispondere, non saprebbe cosa rispondere. […] Ripete che è veramente sorprendente vederla in quel traghetto. Di mattina presto, una bella ragazza come lei, capisce, non me lo sarei mai aspettato, una ragazza bianca su un autobus indigeno. Le dice che quel cappello le sta bene, benissimo, che… è originale.. un cappello da uomo. Perché no? Carina com’è può permettersi tutto. Lei lo guarda poi gli chiede chi è. Lui risponde che torna da Parigi, dov’era andato a studiare, che abita anche lui a Sadec, proprio sul fiume, la grande casa che ha le terrazze con le balaustre di ceramica azzurra. Lei gli chiede di che nazionalità è. Risponde di essere cinese, la sua famiglia viene dalla Cina settentrionale, da Fou Chouen».

Non ha nome l’amante cinese, volutamente. Non serve il nome, è superfluo. Ciò che conta è il suo piacere, quel desiderio oscuro per la ragazzina bianca di Saigon che lo ha in suo potere fin da subito, dal primo istante. Adesso entrambi sono l’oggetto del vostro sguardo e voi sentite la tensione sessuale salire dal profumo delle immagini. D’ora in poi ci sarà soltanto un unico punto di vista, quello vostro su di loro; e nella vostra pulsione scopica si troverà la chiave del loro agire. In fondo, il vostro occhio “ghiottoneria carnibalesca” di batailleana memoria, è il simbolo del desiderio di conoscenza – guardare ed essere guardati per guardarsi attraverso lo sguardo altrui- che introduce, per citare Foucault: «Il vuoto in cui si diffonde e si perde, ma non cessa di parlare- un po’ come l’occhio interiore diafano e illuminato dei mistici e degli spirituali segna il posto in cui il linguaggio segreto dell’orazione si fissa si soffoca in una comunicazione meravigliosa che lo fa tacere». (M.Foucault, “Preface à la trasgression”).

Giusy Mandalà

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