Encerrados: viaggio nelle prigioni del Sud America

Se il carcere è lo specchio di un Paese: questa è l'indagine/reportage di Bispuri sulle prigioni sudamericane... dove la vita cerca riscatto oltre l'inumano

Abbiamo intervistato a Roma Valerio Bispuri (laurea in letteratura, giornalista e professionista fotoreporter dal 2001. Ha lavorato per alcune dei più importanti quotidiani e riviste italiani quali “L’Espresso”, “Venerdì di Repubblica” e “Internazionale”; ha esposto il suo lavoro in Italia, in Spagna e in Argentina), autore di uno straordinario reportage sulle carceri del Sud America. Di fronte ad un caffè, ci ha descritto la propria esperienza ed il proprio rapporto con la fotografia che per lui rappresenta uno strumento potente per raccontare.

Valerio cosa è per te la fotografia? E quali sono le tue spinte emotive, nel volerti avventurare in luoghi così lontani?

La fotografia per me è soprattutto un mezzo per indagare, per scoprire qualcosa di nascosto, le realtà che si conoscono poco o che non si conoscono affatto. Inoltre è un mezzo per scavare dentro di me e svelare me stesso.

Parafrasando Cartier-Bresson: le prime 10.000 fotografie sono le peggiori. Come è stato il tuo inizio?

Parlando di grandi fotografi, vorrei aprire una breve parentesi, in quanto ritengo necessario andare avanti, Cartier-Bresson e Capa sono immensi ma, attualmente, c’è bisogno di un altro sguardo e di un nuovo modo di fotografare. Riguardo il mio inizio, invece, posso dire che la fotografia richiede molta esperienza. E’ un processo lento di crescita.

Sebastião Salgado in una recente intervista a “Che tempo che fa” ha affermato che “l’effetto collaterale di fare tante foto è che si fotografa molto meno (che ci sono poche buone fotografie)” un tema attualissimo interfacciantesi con il futuro della fotografia digitale…

Con la pellicola le possibilità di scatto sono inferiori, mentre la macchina digitale ti permette di “catturare” molte più foto; inoltre il linguaggio è cambiato. Come dice un grande fotografo dell’agenzia ‘Magnum’, Guy Le Querrec, bisogna ballare intorno ad una scena per cercare un’angolatura, trovare la propria angolatura; in tal senso la digitale ti consente maggiori possibilità, perché puoi variare e spaziare.

I tuoi reportage come “Encerrados” hanno carattere di denuncia?

La denuncia non è la prima cosa a cui penso quando scatto una fotografia, è una cosa che viene in un secondo momento. I miei sono reportage attraverso i quali voglio raccontare un paese, un continente.

Per quasi dieci anni ho seguito la situazione delle carceri nel continente sudamericano. Un’immersione in un mondo che all’inizio sembrava “diverso”, complicato, fatto spesso di violenze e soprusi. Con il tempo, però, ho scoperto come i detenuti tentino sempre di creare un loro spazio, molto simile a quello che avevano fuori le sbarre e fanno di tutto per mantenere una loro dignità. Le carceri sono un riflesso della società, uno specchio di quello che succede in un paese, nei piccoli drammi e nelle grandi crisi economiche e sociali.

Durante i tuoi viaggi c’è un luogo o un paese al quale ti sei affezionato?

Il filo conduttore che ha legato tutto il lavoro è stato il desiderio di scoprire ogni paese del Sud America singolarmente e in un contesto globale. Ma la risposta è: certamente, sì. E’ l’Argentina! Ci ho vissuto 10 anni ed è un paese che mi ha dato molto. Vi sono arrivato nel 2001 in piena crisi economica e mi sono innamorato della gente, della loro rabbia, della loro voglia di cambiare. Una società straordinaria che mischia la cultura sudamericana con quella europea.

Come mai utilizzi il bianco e nero?

In realtà non uso sempre il bianco e nero, lo uso quanto uso il colore.

Encerrados è un lavoro molto lungo sviluppato in bianco e nero, Paco è un lavoro a colori. E’ una decisione che prendo in post-produzione. Certamente il bianco e nero svela una maggiore drammaticità, e per alcuni “racconti” che voglio fare è quasi obbligatorio.

Una tua frase: “Giù all’inferno. (mai ero sceso così giù, in basso nell’umanità, dove non c’è più nulla). E come sempre quando finisco di scattare ritorna tutto su”. Cosa ti resta dentro quando rientri nella tua città?

Sono voluto entrare nella profondità del contesto carcerario non tanto per denunciare una situazione spesso al limite della sopravvivenza, ma per raccontare cosa ancora unisce e divide oggi il Sud America. Ho girato per 74 carceri sudamericane, maschili e femminili (Ecuador, Perù, Bolivia, Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Colombia e Venezuela), sono entrato in contatto con detenuti e guardie, con la paura e la rabbia, con la speranza e la sfiducia. Quello che resta dentro è sempre tanto dolore. Anche se una volta rientrato nella mia città cerco di non riversare sulle persone care quella sofferenza che ho toccato e che mi accompagna. A volte penso di essere ”doppio”: una determinata persona mentre sono in viaggio ed un’altra al mio ritorno, rimanendo comunque sempre me stesso.

Lavori e progetti per il futuro?

Attualmente sono molto concentrato su “Encerrados”, perché vorrei pubblicare il libro… Quindi tutto il mio impegno è riversato su questo fronte:

http://www.kisskissbankbank.com/it/projects/encerrados

Ho anche un nuovo “grande” progetto, che però è ancora in fase embrionale, e che vorrei svelare in seguito.

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