Com’è umano, lei…

(Umano, troppo umano)

“Quando penso a come alla fine mi hai ridotto tu”…
Sono stati il terrorismo psicologico,
le millantate interminabili ore di coda ai cancelli,
la prospettata idea del parcheggio abusivo, fuori dal casello,
dei conseguenti chilometri da percorrere a piedi:
un’apocalisse per la mia pigrizia, la promessa di un disagio epocale, ma soprattutto la foto di Alia e il “guarda che pare ci siano pochi bagni chimici”, ricordato così, in un sussurro, a poche ore dall’evento.

Ecco, sì, credo che decisiva sia stata l’immagine del cono per fare pipì e la consapevolezza di esserne sprovvista, il terrore nel visualizzarmi davanti all’urgenza inappagabile, all’impossibilità di svuotare una vescica, già provata da ore di cammino.
È con questo – e per questo – carico emotivo e immaginativo che ho deciso di presenziare, mio malgrado, al concerto di Vasco: proprio io che non sopporto spinte, calca, sudori, schiamazzi, vociare, bagarini, gente.
La promessa di duecentotrentamila persone sofferenti, che non possono evacuare, che sudano, che si spingono, che parlano, che partecipano ad un evento senza pari non mi ha allettata, ma mi ha convinta.
È così che alla fine mi hai ridotto tu, mondo:
alla nostalgia preventiva, alla ricerca di una laica Comunione, alla paura del rimpianto.
Posso io, viva, nell’Anno Domini, nonché Salutis, 2017, rinunciare al poter dire, un giorno, “Io c’ero, sono stata figlia – seppur illegittima – del mio tempo”?
No.
E non ho rinunciato; mi sono preparata, fatta forza e tuffata fra le braccia dell’appartenenza.
Ed eravamo lì, un po’ spaesati perché le file non erano interminabili e di bagni chimici ce n’erano a bizzeffe.
Eravamo lì, accalcati dentro un’epoca, a voler trovare un senso, anche se questa storia un senso non ce l’ha.
Ho fatto bene a vincermi, a regalarmi di guardarci.
E vi ho guardati bene, compagni di vita, vi ho capiti, ho capito come alla fine vi ha ridotti il mondo, anche mentre compravate la maglietta. Eh già.
La maglietta è il miracolo, per quelli che per credere hanno bisogno di toccare con mano.
L’epifania immortalata sul cotone delle fascette, sulle bandierine, sulle sciarpine, a mettere la spunta su quanto avremmo potuto fare e che, in effetti, abbiamo fatto.
Perché noi siamo così, ci spintoniamo, ci facciamo largo con i gomiti, ma poi, quando muore Paolo Villaggio, sentiamo che quell’assenza è anche nostra, che c’è una garanzia di familiarità, nel comune ricordo, che ci fa ancorare gli uni agli altri, ci rende nostalgici e bisognosi, ci fa piagnucolare negli assoli e cantare all’unisono “Una canzone per te”.
È un segreto, una sorta di amore universale ed inconfessabile per l’esistenza, per quanto
ci rimane di concreto, prova che non abbiamo sognato, se eravamo in tanti, prova che siamo.
Ci vogliamo bene, noi umani, noi che facciamo il tifo per la cavalla che ha rifiutato di correre al Palio di Siena, che siamo noi in fondo, con il cuore equino, ribelle e cinquenne: un po’ Tornasol e un po’ cavallina, cavallina storna a portare, nostalgici e sociali, l’unica cosa che davvero non torna.

 

Beatrice Zerbini

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