Intervista a Frank Iodice – autore del romanzo “I Disinnamorati”

Un romanzo intenso, che gioca seminando indizi, rivolgendosi direttamente al lettore; una storia che svela pian piano il suo intento e riesce a sorprendere con i suoi complessi e umanissimi personaggi

Frank Iodice è uno scrittore e un uomo libero. Vive da anni tra la Francia e gli Stati Uniti. Pubblica i romanzi “Anne et Anne”, “Kindo”, “Acropolis”, “Gli appunti necessari”, “Le api di ghiaccio”, “Un perfetto idiota”, “Matroneum”, “La meccanica dei sentimenti” e le raccolte di racconti “La fabbrica delle ragazze” e “La Catedral del tango”. “Breve dialogo sulla felicità” con Pepe Mujica è stato distribuito gratuitamente in diecimila copie nelle scuole. Pubblica nel 2019 per Eretica Edizioni “I disinnamorati”, la storia di Antonino Bellofiore, un uomo che non riesce a staccarsi dai suoi demoni e dal suo deleterio bisogno di solitudine.

Qual è il significato del titolo del tuo romanzo I disinnamorati?

In francese “désamoureux” è una parola strana. Tutti parlano di disamore, “le désamour”. Esistono saggi psicologici che tentano di spiegare l’incapacità di amare, le sue cause e le sue conseguenze nella sfera affettiva e sociale. Ma l’aggettivo, disinnamorato, è meno facile da spiegare, è come una bastonata durante un sogno perfetto in cui ci siamo illusi di amare la persona giusta e non abbiamo voluto ammettere che nei mesi, negli anni, in tutta una vita talvolta, non ci siamo avvicinati affatto a questa persona, ma allontanati. In altre parole, ci siamo disinnamorati. Nel disinnamoramento ritrovo due condizioni umane: disillusione e amore. Se si affronta l’una senza l’altra si trova una sorta di equilibrio. C’è chi riesce a stare bene anche da solo. Ma se si vive l’esperienza del disamore, non c’è via d’uscita. La lontananza diventa materia spessa e corposa al centro del letto. Le parole arrivano fino alla bocca e poi muoiono in un soffio che nessuno sente. Gli abbracci iniziano e non arrivano all’altra persona, che nel frattempo li sta aspettando con tutta la forza e la passione possibili, ma, a sua volta, non si gira per dirti: sì, sono qui. Insomma, disinnamorarsi è una bella sfortuna. Eppure, non fa che succedere, tutti i giorni. Dopo aver osservato questo fenomeno, il mio compito era scavare nel passato di Antonino e Anisetta, e scoprire il perché.

Quali sono state le fonti di ispirazione per la tua opera?

All’inizio esisteva solo Bellofiore, come Adamo prima della costola. Era il protagonista di un altro romanzo, diffuso gratuitamente in una versione ridotta, il romanzo in cui Antonino è un quarantenne volgare e deluso. Andando a ritroso, mi sono chiesto le ragioni di un uomo così. Com’è stata la sua giovinezza? E la sua infanzia? Perché ho davanti un personaggio totalmente disinteressato alla linea, alle strade che infila a caso come i calzini, sempre spaiati, o agli accendini che ruba a chiunque e di cui il suo cassetto, al commissariato, è sempre pieno? Allora ho scoperto la sua storia, le origini, e le ho raccontate ne I disinnamorati. Presto pubblicherò la seconda parte della sua vita e per i lettori che vorranno leggerla tutto avrà più senso. Se incontri una persona a quarant’anni, non ti viene spontaneo chiederti com’era a venti? È stata questa la molla scatenante di questo romanzo.

Ci presenti un ritratto di Antonino Bellofiore, il complesso e travagliato protagonista del romanzo “I disinnamorati”?

Bellofiore si vergogna del suo nome, è troppo dolce, dice. E non solo. Antonino è il diminutivo di Antonio, e Antonio era il nome di suo padre, che in qualche modo rappresenta il suo passato disastroso, l’abbandono, quando aveva dieci anni, un abbandono riassunto nella frase che gli ha detto prima di sparire, “fa’ quello che devi fare, Antonino, e non te ne vergognare, è da femminucce”. Ho voluto sottolineare il maschilismo, la negatività di questo padre che ha lasciato Antonino e sua madre e che ricompare ora attraverso tre cartoline indirizzate a lui ma recapitate con trent’anni di ritardo. Il romanzo si apre infatti con il tocco del postino che deve consegnare delle raccomandate datate luglio del ’52. Antonino è appena rientrato, ha comprato un test di gravidanza, ed è costretto a iniziare la sua indagine, che da pubblica diventa a mano a mano privata. Bellofiore non sa cosa sta cercando in realtà, oppure lo sa fin dall’inizio, e gli fa paura. Una paura inconscia che si concretizza nella sua incapacità di amare e farsi amare.

Vorresti condividere con noi una citazione al romanzo I disinnamorati che ti sta particolarmente a cuore?

Quando si sveglia con lei accanto, benché non sappia riconoscere la felicità, è felice. Guarda Anisetta con occhi che lei deve ormai conoscere; sono passati molti mesi da quando li ha visti per la prima volta e non ha bisogno che il proprietario di quegli occhi le dia alcuna spiegazione. Gli occhi non hanno mai bisogno di spiegazioni.

Nella tua carriera letteraria hai scritto quindici romanzi e due raccolte di racconti. Tra tutte le tue opere, qual è quella a cui ti senti più legato, e perché? E qual è invece il personaggio che più hai amato caratterizzare?

Amo le mie poesie, che un giorno mi deciderò a pubblicare. E i racconti, perché sono indipendenti e strafottenti. E in una maniera diversa amo alcuni personaggi dei miei romanzi, perché mi hanno reso la persona che sono, come fratelli e sorelle con cui cresci e ti confronti, litighi, ti strappi i capelli pure, ma ami infine, di un amore genetico. Il romanzo a cui sono più legato è proprio I disinnamorati. L’ho scritto in un periodo molto intenso della mia produzione, mosso da una vocazione che mi teneva sveglio dalle 4 del mattino fino a quando avevo la forza di resistere. Una resistenza che negli anni è diventata fisica. Perché quello che non si racconta quando si parla di questo mestiere è il mal di schiena cronico e il formicolio nelle braccia e nelle gambe dopo dieci, dodici ore di fila davanti a un blocco di fogli bianchi. Per la stessa ragione, Bellofiore è il mio personaggio più sentito. Crearlo è stato come scoprire una mia proiezione nella luce della tenda del suo bagno strettissimo. Lo stesso bagno che io, nella vita fuori dai libri, condividevo con la donna che nel romanzo avrei chiamato Anisetta…

Dalla tua biografia: “Perché scrivere è un lavoro che ti obbliga a cercare le certezze solo nelle tue mani. Le mani degli altri possono servire a tante altre belle cose, ma non a questo”. Cosa significa per te scrivere e raccontare storie?

Mi ricordo di quando ho scritto quella frase. Pensavo alla sprezzatura per i beni materiali, uno stile di vita che mi ha insegnato Juan Rodolfo Wilcock, un autore argentino naturalizzato in Italia, pubblicato da Adelphi, ma poco noto perché controcorrente e spietato nelle sue critiche alla Chiesa e alla politica “ridicola” del Bel Paese. E quella sprezzatura nei confronti di tutto ciò che per gli altri importa, la casa, l’auto, il conto in banca, e che per uno come me è solo materia da modellare e rendere sotto forma letteraria, è stata la mia salvezza. Per scrivere come scrivo io non ti devi fidare di nessuno, né dei grandi autori che sono pronti a rubare le tue idee e venderle come proprie, né dei finti autori che cercano solo uno specchio in cui farsi belli. Se vuoi “cantare una misera canzone, ma cantare il vero”, devi guardare dritto davanti a te. Non puoi pretendere di cercare nelle mani degli altri le risposte che solo tu puoi dare a te stesso e ai tuoi personaggi, e di conseguenza ai tuoi lettori. Ecco cosa significa per me raccontare storie. Amare la vita e le sue contraddizioni irrisolvibili, tentare di farla amare anche a chi ti legge, dare la tua testimonianza onesta e ammettere che nulla è perfetto. Solo così puoi ancora stupirti quando leggi un libro, tuo o di qualcun altro. Gli Scapigliati milanesi mi hanno insegnato il resto.

Troveremo il personaggio di Antonino in un tuo prossimo romanzo? Quali sono i tuoi progetti in ambito letterario?

Spero di pubblicare presto la seconda metà della storia di Bellofiore. In questo momento è sulla scrivania di uno dei più importanti critici e agenti letterari italiani. Non ho più dita da incrociare! Si tratta di un romanzo a cui ho appena finito di lavorare, partendo da Gli appunti necessari, un testo stampato in una versione tascabile nel 2013, diffuso gratuitamente nelle scuole con il supporto dell’associazione culturale Articoli Liberi. In quel romanzo, intitolato nell’unica maniera possibile, Bellofiore, quarantenne, grasso, alcolizzato, deluso dalla sua stessa vita, capirà che avrebbe potuto essere un uomo diverso, completo, felice. Libero. In che modo? Nell’unico modo possibile: amando.

Eleonora Signorini

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