Cortesie per gli ospiti

Racconto breve di Dario Marcucci

Marilena e Filippo, al tempo di questa cronaca sposi da quattro anni circa, erano pure volontari presso una onlus che s’occupava di accoglienza ai migranti. A dirla tutta, anzi, s’erano conosciuti proprio lì.

Sinceramente animati dal fuoco sacro della solidarietà, ferventi e quasi militareschi nella loro opera, passavano ogni momento libero della giornata a organizzare attività di ogni tipo per l’associazione: lezioni di lingua italiana, gite a musei, passeggiate in centro, incontri di accoglienza…

Si prendevano tanto a cuore quell’impegno e lo interpretavano con tanta spontanea severità, che spesso si pigliavano addirittura la briga di bacchettare gli altri volontari, esigendo da essi la stessa dedizione e la stessa laboriosità corrucciata che albergava in loro due.

– Se fossimo noi al loro posto?

Era il ritornello che ripetevano sempre:

– Se fossimo noi al loro posto?

 

Alle diciannove spaccate congedarono la classe e chiusero a chiave l’aula nella quale, in coppia, tenevano lezione di italiano.

Ritti in piedi ai lati della porta, poi, come due statue in un tempio, salutavano con un sorriso i migranti che defluivano disordinati: rumeni, bangladesi, pakistani, africani… per tutti un moto d’affetto sincero stagnava negli animi di Marilena e Filippo.

Nel tramonto che ghermiva la città, finalmente, la coppia fece per dirigersi verso casa mano nella mano; ma la vista di quattro negri, loro studenti nel corso base, fermò di colpo entrambi, come per un segnale convenuto.

Nigeriani o giù di lì, stavano accroccati in semicerchio su un muricciolo scalcinato, seri in volto, e si passavano, tutti e quattro, un unico pacchetto di patatine, dal quale attingevano con parsimonia.

– Quella è la loro cena.

Sentenziò gravemente Filippo. Marilena lo guardò negli occhi, e i due si capirono all’istante: l’amore è anche questo.

Neanche dieci minuti dopo, i quattro africani entravano, silenziosi, compiti e quasi oppressi nella morsa di una timidezza feroce, nell’appartamento di Marilena e Filippo. Bisogna dire che, in tanti anni di volontariato, era la prima volta che marito e moglie arrivavano ad un gesto del genere – invitare un piccolo gruppo di migranti a cena in casa propria – e se da un lato ne erano sicuramente inorgogliti, e non vedevano l’ora di vantarsene con i colleghi della Onlus (pungolandoli ovviamente a far altrettanto), dall’altro ne erano vagamente e intimamente turbati.

Marilena soprattutto, ebbe uno strano e inaspettato sussulto nel vedere le sudice infradito di plastica dei negri calpestare il suo parquet di faggio; la colpì vedere come quelle pelli, nere come la pece, risaltassero violente contro le tende bianche ricamate: il suo stomaco iniziò, contro la sua volontà, a mugugnare.

La tavola fu apparecchiata a puntino, perché si sa, gli ospiti sono sacri, sempre, e fu imbandita con pane casareccio, vino, acqua minerale, salumi e formaggi di vario tipo, olive, sottaceti, tonno in scatola… non era il caso di mettersi ai fornelli, ma una volta saccheggiata la credenza, di vivande ce n’erano in abbondanza, e la cena ebbe inizio.

Il cibo ha la meravigliosa proprietà di metterci a nostro agio, e a poco a poco i quattro africani abbandonarono la timidezza, per far posto ad un appetito bestiale, ad una fame invereconda, antica quanto l’uomo.

Filippo e Marilena, più che perplessi, guardavano quelle fauci bianche trinciare etti ed etti di prosciutto di Parma, salamino milanese, fette su fette di pane; Marilena poteva dirsi atterrita: la sua tavola, il suo cibo, la sua casa… sentimenti che non pensava di poter nutrire le si inoculavano nelle vene mescolandosi al sangue, così come quei quattro corpi estranei, corpi neri, neri perdio, infestavano casa sua come batteri maligni.

I negri, ormai abbandonatisi al cibo e al vino, presero a parlare rumorosamente tra loro; ridevano e blateravano chissà cosa nel loro idioma barbaro (alla faccia delle lezioni di italiano); marito e moglie li guardavano interdetti, esclusi da quella che, più di una conversazione, pareva un coro di mugghi e suoni gutturali. Filippo sedeva rigido come uno stoccafisso, con lo sguardo vitreo, ospite a casa sua; Marilena covava una rabbia ferina che doveva in qualche modo trovar sfogo, per non avvelenarla dall’interno.

Uno dei negri, poi, aveva preso a stronfiare forte col naso, sputacchiando pure rimasugli di cibo sulla tovaglia azzurrina. Stronfiava forte ogni trenta secondi, con cadenza metronomica, ragliando ogni tanto un’oscena risata.

Allora Marilena, con la vena sulla tempia che le pulsava come un palloncino pieno d’acqua, non ne poté più; in qualche modo aveva da agire. Si alzò in piedi, sorprendendo anche il marito, e gridò così:

– Negri, che fate? Volete far gli onori alla padrona di casa? Dio maledetto… così sarete finalmente soddisfatti e uscirete da qui. Avanti, dunque, che aspettate, negri?

E così dicendo si sfilò la maglia, mettendo in mostra due meloncini ancora sodi e polputi, nonostante le quaranta primavere che si portava sulla groppa. Da donna, pensava naturalmente – sciocca vanità – che il trofeo al quale gli ospiti ambissero fosse proprio da ricercare sotto i suoi vestiti.

Il poker di negri si alzò dalle sedie all’unisono, continuando la conversazione bestiale di risa e muggiti come non fosse accaduto nulla di particolarmente strano, o nulla che non fosse implicitamente previsto.

In un lampo si sbraghettarono, sventolando le quattro papaie nere, pezzi di carbone rovente, nella sala da pranzo di Marilena e Filippo. E mentre lui guardava la scena inebetito, ormai svuotato da ogni reazione vitale, lei si inginocchiava sul parquet di faggio, pronta, o almeno lo sperava, a smaltire quelle sorbole africane che già la irraggiavano da ogni punto cardinale; parevano cani attorno ad un’unica ciotola.

Il quartetto si muoveva con perfetta armonia, quasi fosse stato diretto da un grande orchestrale, e Marilena, nonostante avesse solo due mani e una bocca, che in totale fa tre, si dava da fare con quei quattro nerbi con così tanta solerzia che, incredibile paradosso matematico, pareva quasi che mai nessun’asta fosse inattiva.

L’impegno profuso, ahimè, purtroppo non bastò alla povera donna per stemperare la foja atavica dei quattro campioni; uno di loro, indispettitosi per qualche ragione, decise ch’era l’ora di colpire, e con una gomitata prodigiosa dall’alto verso il basso, sul cranio, la spedì direttamente al creatore.

Filippo intanto, una statua di gesso, restava compito al suo posto; ancora non aveva finito quel po’ di formaggio che s’era messo nel piatto.

 Dario Marcucci

 

*ogni riferimento a fatti, persone, colore della pelle, ecc… è pura licenza poetica. Sia chiaro.

 

Share Button
Written By
More from ukizero

Ardecore: “Vecchia Roma” [Recensione]

Nuovo repertorio della tradizione romana: dimostrando una vera vocazione che si lascia...
Read More

12 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.