Matisse. Arabesque

Fino al 21 Giugno, le Scuderie del Quirinale ospitano un’imperdibile mostra dedicata al rivoluzionario artista francese e alle sue influenze alternative...

L’arabesco È il mezzo più sintetico per esprimersi in ogni fase. Lo si trova nelle grandi linee di certi disegni rupestri. È lo slancio passionale che gonfia questi disegni. [Ci sono arrivato] guardando queste donne mediterranee, questa cocorita, questi frutti e queste foglie. Questi sono papiers découpés e questo è l’arabesco. L’arabesco si organizza come una musica. Essa è il suo timbro particolare. L’opera e l’artista. L’opera è l’emanazione, la proiezione di sé stessi

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Il genio di Henri Matisse arriva a Roma in una mostra allestita alle Scuderie del Quirinale fino al 21 giugno.
Matisse. Arabesque” è un’esposizione, a cura di Ester Coen, ma non è una retrospettiva o un’antologica che raccoglie le opere più famose dell’artista. La mostra, infatti, pur esponendo molti capolavori di Matisse, peraltro provenienti da importanti musei internazionali (dalla Tate al MoMa, passando per Ermitage e Pompidou, per citarne alcuni) non ci fa vedere soltanto il pittore che già conosciamo, ma svela aspetti meno noti della sua arte e della sua vita, a iniziare dalle sue influenze e fascinazioni per la decorazione e l’orientalismo.
Matisse, padre dei fauves, rappresenta una variante “mediterranea” e solare dell’espressionismo. La vivezza coloristica, che è il vero tratto caratteristico di questo movimento, esprime un’autentica “gioia di vivere” che resterà costante in tutta la produzione di Matisse.
L’uso del colore in Matisse è quanto di più intenso e vivace si sia mai visto in pittura. Usa colori primari stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale. Ad essi accosta i colori complementari con l’evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico. Ne risulta un insieme molto vivace con un’evidente gusto per la decoratività.

La mostra, vuole restituirci l’idea delle suggestioni che l’Oriente ebbe nella pittura di Matisse: un Oriente che, con i suoi artifici, i suoi arabeschi, i suoi colori, suggerisce uno spazio più vasto, un vero spazio plastico e offre un nuovo respiro alle sue composizioni, liberandolo dalle costrizioni formali, dalla necessità della prospettiva e della “somiglianza” per aprire a uno spazio fatto di colori vibranti, a una nuova idea di arte decorativa fondata sull’idea di superficie pura.
Matisse si lascia alle spalle le destrutturazioni e le deformazioni proprie dell’avanguardia, più interessato ad associazioni con modelli di arte barbarica. Il motivo della decorazione diventa per l’artista la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura. È dai motivi intrecciati delle civiltà antiche che Matisse coglie i principi di rappresentazione di uno spazio diverso che gli consente di “uscire dalla pittura intimistica” di tradizione ottocentesca.
L’allestimento delle dieci sale, per niente soffocante, lascia modo di confrontare e ammirare oltre cento opere provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private (molte mai state prima in Italia), ma soprattutto oggetti, manufatti, tessuti, tra vetrine che raccolgono suppellettili, utensili, maschere, abiti, a cui l’artista deve molto della sua ispirazione. Raffinato e prezioso Matisse è un artista che i collezionisti faticano a prestare per cui la mostra romana è occasione da non perdere per ammirare la luce e i fasti decorativi del grande maestro.

 

I visitatori saranno accolti da “Gigli, Iris e Mimose” (1913) capolavoro proveniente dal Museo Puškin di Mosca e ispirato alla decorazione della ceramica ottomana e nordafricana dove la natura viene rappresentata in maniera simbolica. Nella sala successiva ci si addentra nella fase del “primitivismo” fondamentale per Matisse come per Pablo Picasso. L’amore per le maschere e i tessuti africani è evidente nell’opera “Ritratto di Yvonne Landsberg” (1914).
Il sole e i colori del Mediterraneo esplodono nella Sala quattro: c’è il Marocco e il rapporto con il mondo islamico. Nel celebre “Zohra sulla terrazza” del 1912 (Museo Puškin, Mosca) che per la prima volta viaggia in Italia, così come in “Marocchino in verde” sempre del 1912 (Ermitage, San Pietroburgo) e negli altri quattro quadri della sala, capolavori di questi anni, Matisse rende l’effettotessile” dell’impianto pittorico attraverso l’estrema semplificazione dell’immagine e l’esuberanza del colore.

 

Ma non c’è solo pittura: nella sala cinque anche acqueforti, appunti di ispirazioni per il libro di poesie di Mallarmé del 1932. Al piano superiore c’è persino un grande paravento moresco del 1921 (dal Philadelphia Museum of Art) e molti disegni di profili femminili. In questo piano spazio anche ad abiti, costumi che realizzò per i balletti dello spettacolo “Chant du Rossignol” del 1920. Nello stesso anno, Matisse, ha a cuore un soggetto, quello della finestra, che rappresenta concettualmente i giochi e i rimandi tra interno ed esterno: in sala 9 è evidente nel dipinto “Interno con fonografo” del 1934 (dalla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli). Nell’ultima sala ritorna il gesto essenziale nei sorprendenti studi e disegni di foglie, alberi e piante, dalle superfici smisurate, dalla potenza di veri e propri dipinti, a ricordare, come disse l’artista stesso allo storico dell’arte Jedlick nel 1952, e come è ricordato, con una scritta a parete alla fine del percorso espositivo, nell’ultima stanza dell’esposizione, che «La massima semplicità coincide con la massima pienezza (…) Ma da sempre c’è voluto coraggio per essere semplici. Credo che non ci sia niente al mondo di più difficile. Chi lavora con mezzi semplici non deve aver paura di diventare apparentemente banale».

Katia Valentini

 

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