Intervista a Maurizio Ponticello: autore del romanzo storico “La vera storia di Martia Basile”

Un romanzo storico basato su un fatto di cronaca realmente accaduto, con al centro una straordinaria protagonista femminile nella Napoli del XVII secolo. Basile è uno dei simboli della condizione femminile tra Rinascimento ed età barocca, eppure è di un’attualità sconvolgente

Maurizio Ponticello è un giornalista e scrittore. È stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive e redattore e cronista di vari quotidiani. Pubblica il giallo “La nona ora” (Bietti, 2013) e il saggio “I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario” (Edizioni Mediterranee, 2013). Per la Newton Compton ha pubblicato nel 2012 “Misteri, segreti e storie insolite di Napoli”, con Agnese Palumbo; nel 2015 “Forse non tutti sanno che a Napoli…”; nel 2016 “Un giorno a Napoli con san Gennaro. Misteri, segreti, storie insolite e tesori” – dal quale è stato tratto un documentario – e nel 2018 “Napoli velata e sconosciuta”. È inoltre presidente della storica associazione di giallisti Napolinoir. Pubblica nel 2020 per Mondadori il suo primo romanzo storico “La vera storia di Martia Basile”

  • Ci presenti il tuo romanzo storico “La vera storia di Martia Basile”?

È la storia dell’evoluzione di una donna realmente esistita nel Seicento, da sposa bambina a donna adulta e determinata. Attraverso esperienze dolorose, e grazie all’aiuto di un gruppetto di altre donne che costituiscono una “sorellanza” ante litteram, Martia riuscirà a riconquistare, come diremmo con il linguaggio moderno, la sua soggettività: a diventare, cioè, una donna pienamente consapevole del proprio destino. Se vuoi, è un romanzo di formazione che tocca argomenti scabrosi, e che s’incastra in una realtà a tratti spettacolare: la Napoli dei viceré spagnoli.

  • La dedica in apertura alla tua opera recita: “All’immenso coraggio delle donne”… Martia Basile è sicuramente un esempio di forza e di resistenza: cosa significa ancora oggi la sua figura? Perché la sua storia ti ha toccato così profondamente?

Oggi viviamo in una società che dichiara di essersi affrancata dal peccato originale della discriminazione della donna. La dura realtà, invece, è che, dietro ingannevoli immagini rassicuranti, le donne vivono ancora situazioni di grande disagio e, in certi casi, di diseguaglianza. Negli ultimi anni si è registrata un’escalation del fenomeno del femminicidio che, a mio parere, è soltanto la punta dell’iceberg del problema. Uomini che uccidono fidanzate, madri e mogli, rappresentano la violenza repressa di gran parte di quel mondo maschile inconsapevolmente tuttora ancorato a una cultura passata come quella post tridentina del XVI e XVII secolo. Nel Seicento, la condizione femminile era apertamente soggetta alla superiorità maschile, e Martia lotta per il proprio diritto a essere rispettata, in primis, e amata poi. Tuttavia, gli uomini che incontra sono incapaci di darle tutto ciò, e anche una figura non apertamente negativa come il poeta Giovanni della Carrettòla – altro personaggio realmente esistito – non è in grado di comprendere fino in fondo il malessere di donne come Martia Basile. Pertanto, ritengo che questo romanzo sia estremamente attuale, e che possa innescare nel lettore, maschio o femmina che sia, una serie di riflessioni necessarie e propedeutiche al cambiamento della situazione. Non è certamente un caso che, mentre Martia accoglie sempre plausi di solidarietà dalle lettrici donne, certi uomini ammettano di rimanere disturbati dalle scene più esplicite. Probabilmente, questo libro è terapeutico. Direi: donne, fatelo leggere ai vostri uomini!

  • So che hai studiato a fondo il personaggio storico di Martia, per restituirne un ritratto il più veritiero possibile. Cosa si diceva di lei nelle cronache del tempo? Hai avuto modo di leggere delle testimonianze reali sul suo processo e sulla sua esecuzione? Era davvero considerata una “janara”, una strega?

Dalle mie ricerche sono emersi almeno due importanti documenti coevi a Martia. Il primo è il poemetto scritto dal poeta di strada Giovanni della Carrettòla. Si tratta di un testo tipico della letteratura popolare dell’epoca in cui si mescolavano cronaca, fantasia e didatticismo morale. La Martia che Giovanni descrive è una donna bellissima, il poeta ne è chiaramente affascinato ma non può fare a meno di purgarne la vicenda e condannarla a causa dell’etica del tempo e, non dimentichiamo, del controllo serrato che praticava il Santo Officio con la censura su ogni pubblicazione. Martia, quindi, anche per Giovanni deve necessariamente incarnare lo stereotipo della donna ammaliatrice, una Circe che non può che condurre alla rovina degli uomini che la circondano. L’altra fonte è meno nota benché molto più affascinante. Si tratta di un verbale del Santo Officio in cui si legge un’autodenuncia di Martia Basile sotto processo. A volte, accadeva che i condannati, per cercare di guadagnare tempo, si autodenunciassero di reati anche ben più gravi. In questo modo, ci cercava di indurre la corte giudicante a seguire un nuovo percorso di indagini con l’effetto di fermare, almeno temporaneamente, la mano del boia. È quello che fa Martia autoaccusandosi di stregoneria: nella sua deposizione, effettivamente racconta di incontri tra janare sotto l’albero di Benevento e di Sabba ma, soprattutto, riferisce una storia di violenze subite, di amori traditi e di grande sofferenza. La sua voce ci parla da lontano, e io ho cercato di scrivere quello che lei ha tramandato ricostruendo i pezzi mancanti.

  • Una figura che spicca per la sua umanità in una realtà violenta e meschina è quella di Giovanni della Carrettòla. Un uomo realmente esistito, dal cui poemetto in ottave sulla vita e la morte di Martia Basile hai tratto spunto per il tuo romanzo. So che l’opera del menestrello napoletano non è stata accolta con favore dalla critica del tempo, e questo è uno dei motivi per i quali la storia della sfortunata donna è stata trasfigurata nel corso dei secoli. Vuoi parlarcene?

La questione non è esattamente così: il poemetto di Giovanni della Carrettòla, databile agli inizi del XVII secolo, infatti, ha conosciuto una grande popolarità per un lungo periodo di tempo, tant’è che ho rintracciato sue ristampe in tutta Italia fino all’ultimo decennio dell’Ottocento. Il popolo ha sempre amato questa storia, a storcere il naso, invece, è stata la cosiddetta cultura “alta”. Il famoso Charles Dickens, per esempio, pubblicò in una delle sue riviste un articolo in cui, parlando proprio di Martia Basile, definiva “spazzatura” la letteratura di strada, quella, per intenderci, che echeggiava nei vicoli napoletani; e altrettanto severo suona il giudizio espresso ai primi del XX secolo dal filosofo Benedetto Croce che, addirittura, censura il poemetto pubblicandone solo le stanze che lui ritiene moralmente accettabili. Da tutto ciò, è facile desumere che Martia è stata uccisa più volte.

  • Lo stile di scrittura utilizzato nel tuo romanzo è molto particolare: a una prosa evocativa ed elegante hai intervallato l’immediatezza del dialetto napoletano, che restituisce da una parte la morbosità, la superstizione e la bassezza e dall’altra la schiettezza e l’ingenuità di molti dei personaggi coinvolti nella storia di Martia. Come hai gestito il passaggio tra due registri linguistici così diversi, riuscendo a mantenere un’uniformità di stile e a non spezzare mai il ritmo dell’opera?

Lo strumento di lavoro principale di uno scrittore è, ovviamente, la lingua che usa per narrare. A parte la vicenda, di per sé molto forte e pungente, volevo che anche attraverso le parole il lettore potesse immergersi, gustare e annusare la Napoli di Martia fatta anche dal dialetto napoletano che, a differenza di oggi, era usato da tutte le classi sociali. Tuttavia, la scena in cui si muove la protagonista è quella di una città internazionale dove si potevano sentir parlare gli idiomi di tutta Europa: Napoli era pur sempre la capitale del viceregno spagnolo, per cui è stato fondamentale dare anche un assaggio di quest’altra lingua. Nondimeno, “La vera storia di Martia Basile” è un romanzo scritto per essere letto ovunque, ed è per questo che ho scelto di addolcire il dialetto affinché potesse essere compreso da ognuno alternandolo con l’italiano. Per quel che riguarda le parti descrittive, invece, ho usato un registro medio alto, lessicalmente ricco ed estremamente evocativo cercando, ancora una volta, di far assaggiare il sapore di una lingua del tempo ma senza essere pedante: forse, è stato questo il collante stilistico.

  • Nel romanzo non si assiste solo alla drammatica storia di Martia Basile, ma anche a una puntuale cronaca del tempo, con particolare attenzione per gli usi e i costumi adottati nella Napoli capitale del viceregno spagnolo. Sono molto interessanti le parti dedicate ai riti, pagani e religiosi, e alle superstizioni popolari. Cosa ti ha più affascinato, durante le tue ricerche e il reperimento delle fonti, dello spirito che animava la città partenopea nei primi anni del Seicento?

Nei miei studi convergono diversi elementi, dall’antropologia alla storia delle religioni comparate e, nel caso di Martia Basile, che s’intreccia a doppio filo con la storia degli anni di quel tempo, emergono tutti insieme alle cronache quotidiane. Ogni avvenimento che riguarda la città è certificato, non ho dovuto fare altro che far vivere i personaggi su questo incredibile palcoscenico, l’ideale per ogni scrittore. Non è un romanzo di corte, per lo più le scene si muovono in ambienti popolari e della classe intermedia, e per me sarebbe stato impossibile scriverlo senza raccontare pure di quella che era la tradizione che, per un lettore contemporaneo, appare quasi come uno squarcio esotico in un altro evo. La Napoli seicentesca aveva uno spirito ancora indomito e, infatti, nel romanzo ci si imbatte in quelli che sono i prodromi della più grande rivoluzione europea dell’epoca: la rivolta di Masaniello. Poi, mi piace ricordare che la città non si è mai piegata completamente all’Inquisizione che, almeno nelle sue forme più cruente, fu totalmente rigettata. Il fascino maggiore, però, secondo me è in quella traccia profondamente pagana che non si è mai interrotta, e che fa di Napoli una città unica al mondo, modernissima, per certi versi, e comunque antichissima.

  • La vicenda della vita e della morte di Martia Basile, sposa bambina e martire, è un pugno nello stomaco. Tante sono le violenze e i soprusi a cui è andata incontro, ma ciò che più colpisce è la sua propensione ad apprezzare comunque la sua esistenza. C’è una frase nell’opera che recita: “In cuor suo sapeva di essere venuta al mondo per essere amata”. Questa è sicuramente una storia di dolore e ingiustizia, ma potremmo definirla anche una storia d’amore e di consapevolezza?

Martia è una donna in carne ed ossa, non una eroina di carta. In lei pulsano tutte le emozioni di una giovane donna che si affaccia alla vita, il suo desiderio di amore è l’espressione della sua vitalità, una vitalità che non si fa abbattere dalla violenza e dalla crudeltà. Non dobbiamo dimenticare che, all’inizio della storia, Martia ha quasi 12 anni, e 20 alla fine. In lei bruciano tutto il fuoco e l’ardore della gioventù. Ed è proprio grazie ad essi e al suo speciale temperamento che Martia non è mai vittima ma guarda dritto in faccia il mondo per quello che è, senza perdere, però, il proprio amore per la vita. Sembra un paradosso ma, conoscendo la sua vicenda, non lo è: la tragedia di Martia, perché di questo si tratta, è un inno alla vita.

Antonella Quaglia

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