Danielle SeeWalker è hunkpapa lakota e membro della riserva Sioux di Standing Rock in North Dakota. È un’artista, attivista e madre di due figli e vive a Denver, in Colorado. Danielle è componente dell’American Indian Commission ed è impegnata a mettere in discussione le rappresentazioni stereotipate delle popolazioni indigene e ad offrire una più accurata e profonda narrazione dell’America nativa contemporanea. Con la partecipazione di Carlotta Cardana e Lorena Carbonara pubblica “Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani” (DOTS, 2020)
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- Ci presenti la tua opera “Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani”?
Come nativa americana, spesso mi si avvicinano con curiosità dei non nativi, educatori e curiosi che sanno poco o nulla della nostra storia statunitense e dei suoi legami con le culture native americane. Ho scoperto – ed è stato questo a spingermi a scrivere “Siamo ancora qui” – che la maggior parte degli statunitensi non conosce la vera storia degli indiani americani e alcuni di loro non sanno che esistono ancora! Volevo scrivere un libro snello e di facile lettura che trattasse molti di questi argomenti e che offrisse una panoramica sulla storia e la cultura dei nativi americani negli Stati Uniti .
- Vorresti raccontarci del falso mito del “Vanishing Indian”, e delle sue fatali conseguenze?
L’idea che i nativi non esistano più non solo è assolutamente lontana dalla realtà, ma è anche dannosa. Quest’idea, come quella del “buon selvaggio”, non fa altro che alimentare e perpetuare gli stereotipi. Un’altra conseguenza di questa credenza è che la gente non trovi offensivo travestirsi da nativo per carnevale o utilizzarci come mascotte per le squadre sportive. Non siamo una reliquia del passato, esistiamo ancora oggi.
- È molto interessante il concetto di “Grandmother Earth”. Vuoi parlarcene?
Vorrei specificare che tutto ciò di cui parlo si riferisce alla mia esperienza in quanto donna Lakota. Non presumo di parlare a nome di tutti i nativi perché siamo quasi 400 tribù e ognuno ha la sua cultura e la propria storia. Quindi quando parlo del concetto di “Grandmother Earth” mi riferisco alla mia cultura. “Grandmother Earth” è colei che provvede per tutti noi e noi siamo solo degli ospiti. “Grandmother Earth” è qui da prima di noi e sarà qui anche dopo di noi. È una delle cose che onoriamo maggiormente nella mia tribù e sentiamo il dovere di proteggerla.
- Prima dello sradicamento dei nativi americani dalle loro terre e il confinamento nelle riserve, le donne avevano un ruolo centrale all’interno delle tribù. Com’è considerata oggi la donna sia tra i gruppi che hanno deciso di vivere nelle città che tra quelli che sono rimasti nelle riserve?
Molte tribù erano matrilineari e a causa della colonizzazione il ruolo della donna è stato forzato all’interno di un sistema patriarcale dove gli uomini erano al comando. Quindi questi ruoli sono lentamente evoluti nel loro opposto, anche a causa dell’introduzione dell’alcol e delle dipendenze da stupefacenti. L’abuso domestico e la violenza verso le donne, soprattutto donne indigene, è uno dei grossi problemi contemporanei ma non voglio generalizzare perché le donne, madri, zie, anziane, sono ancora molto rispettate al punto che in alcune comunità i bambini prendono ancora il nome della madre.
- Ad oggi, a che punto è la lotta degli indiani americani per il controllo delle terre native?
I nativi americani non hanno mai creduto nella proprietà privata: crediamo che siamo solo ospiti e che la Terra non può essere posseduta privatamente. Ma perché c’è molto sfruttamento della terra, incluso luoghi sacri, i Nativi Americani stanno ancora combattendo per la terra, sia quella ancestrale che quella inclusa nei trattati. Stiamo ancora combattendo perché la nostra priorità è avere rispetto per la Madre Terra. I trattati sono ancora problematici perché non sono stati rispettati e continuammo a batterci perché vengano rispettati.
- Tra i racconti più crudeli presenti nel tuo libro, c’è quello dell’istituzione delle boarding schools alla fine dell’Ottocento. Cosa si intendeva con la frase: “Uccidi l’indiano, salva l’uomo”?
Si tratta di un’idea di Richard Pratt: visto che non puoi sconfiggere un nativo allora tanto vale convertirlo in qualcosa di valore. Si pensava che “uccidere il selvaggio” fosse un modo per “civilizzarlo” e renderlo utile alla società. In queste scuole venivano solo insegnati mestieri e non veniva data loro un’educazione. Questo perché ci si voleva assicurare che i nativi rimanessero sul fondo della società, senza un‘educazione.
- Che cosa significa percorrere “la strada rossa”?
È un concetto filosofico comune a molte tribù. Si sentono spesso i nativi americani dire che stanno percorrendo “la strada rossa”, la quale viene identificata come la direzione verso un cambiamento positivo, contrariamente a tutti i problemi circostanti con cui spesso, ancora oggi, si lotta.
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