Il piccasorci del gobbo

Racconto breve di Dario Marcucci

Era un alveare. Simmetrico al millimetro, popolato, vivace… tutto il nuovissimo comprensorio di villette monofamiliari era solcato da viali alberati, agghindato da aiole sempre spuntate di fresco, costellato di cestini per la raccolta differenziata e panchine comodissime.

Ci si conosceva tutti bene: ci si salutava cordialmente quando ci si incontrava nei viali, si faceva jogging insieme, si organizzavano barbecue nei giardini e aperitivi nei salotti… le regole di buon vicinato erano la Bibbia di quel micromondo filisteo, e le maldicenze eran tutte tenute al rigido guinzaglio del bon-ton.

Però, tra tutto questa buona creanza, come sempre accade per il naturale ordine delle cose, c’era un’eccezione; c’era la macchia, il rovello sempre mulinante, la maglia rotta nella rete: c’era un gobbo.

Proprio un autentico gobbo munito di gobba, che vivacchiava da solo in una delle tante villette chissà per quale ragione (probabilmente s’era trovato ad ereditarla).

Egli era cattivo e rognoso; non conosceva e non voleva conoscere nessuno. Non salutava; sputava per terra se qualcuno gli rivolgeva la parola e tirava dritto per la sua strada. Perenne oggetto delle beffarde sarabande dei monelli, passava le giornate a incupirsi nel chiuso delle sue stanze, e a spiare il mondo esterno dal lembo scostato del tendame.

Non c’era pomeriggio che il suo citofono non suonasse ripetutamente a vuoto, innescato dalla celiante mano d’un pargolo; non c’era chiacchierata grossolana che non facesse cenno alla sua bizzarra esistenza; non c’era mamma che non lo evocasse alla sera, per terrorizzare il figliolo scapricciato.

Ora, mentre tutti i giardini del comprensorio erano naturalmente curatissimi e adornati dalla presenza di piantine e fiori colorati, in quello del gobbo proliferava un piccasorci (Ruscus aculeatus L.) di dimensioni impressionanti.

Una vera e propria giungla lussureggiante di fogliette rigide e appuntite, alta un paio di metri e fitta come l’inferno. Pareva quasi un incendio verde, là davanti la facciata della villetta, e in ampiezza riempiva tutto il giardino. Era un labirinto di cristalli taglienti, un gomitolo di denti vegetali, di piccole lamette fogliforme pronte a piccare i sorci con la foia d’un vorace predatore.

Ma non solo i sorci ovviamente; nella frattaglia verdecupo campeggiavano come impiccati, ad esempio, nugoli di poveri uccelli. Dovevano essersi infilati là per qualche ghiribizzo mangereccio, ed erano rimasti impigliati in modo irreversibile.

La foresta di pungitopo, a dirla tutta, era diventata negli anni un vero e proprio cimitero: gattini, cani di piccola taglia, e una varietà considerevole di bestiole; si inerpicavano là in mezzo forti della burbanza della specie, e vi rimanevano poi impastoiati fino a morirne. Il bello è che spesso ci mettevano non poco a crepare; e capitava dunque di udire, per tutta la zona, un concerto di guaiti, miagolii, versi agonizzanti da far venire la pelle di cappone. Il gobbo ne rideva.

Un giorno la palla di un bimbetto intento in una partita a calcio finì nel giardino fatale.

Senza dar conto ai richiami e alle preghiere degli amici, il piccolo eroe si slanciò nel fittissimo bosco, con il coraggio di un pompiere che va a togliere dalle grinfie della Solitaria una vita umana.

Il poverino non sapeva quanto potessero essere dure e affilate quelle piccole foglioline, e incedeva davvero a fatica tra i rovi, mentre ghirigori rossicci iniziavano ad arabescargli la pelle.

E proprio quando, scorticato come un fico d’India, si trovava impigliato in modo quasi irreversibile in quella prigione verde, il gobbo uscì prepotente dalla porta di casa, come un’allegoria.

Un’esclamazione generale di paura e stupore ne accompagnò la grottesca entrata in scena; e lui, dunque, come fosse stato un attore tragico, o un personaggio di certa cinematografia espressionista tutta volta alla esasperazione teatrale del gesto, allungò un braccio, indice teso, verso il povero bimbo che già era allo stremo delle forze.

Lo additò, invero, con una lentezza e una teatralità del movimento che avevano del surreale… e così conciato, chino sulla gobba e coll’indice di scherno (o accusa) puntato, si abbandonò ad una terrificante risata che ancora oggi non vede la fine.

di Dario Marcucci

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