Fotografie dal Bangladesh

CRONACHE DAL MEDIO ORIENTE: Reportage esistenziale, vita quotidiana e racconti da un viaggio tra le conseguenze della guerra e la quotidianità di un giornalista freelance

Questa RUBRICA è un provarci con ‘sentimento’. Forse un po’ romantico, e quindi sconfitto, forse un po’ personale. Non mi chiederò altro che un po’ di sincerità, come giornalista e come essere umano. Un percorso attraverso deserti e umanità, calore e sudore..

 

Lentamente l’aereo rulla sulla pista di Cox’s Bazar. Tra i passeggeri facce occidentali e bengalesi. Il segnale delle cinture di sicurezza. L’accelerazione e le ruote che si staccano dall’asfalto. Siamo in aria. Laggiù, in basso, le storie di un milione di profughi Rohingya. A 9mila metri d’altezza Cox’s Bazar è un puntino. I clacson dei tuc tuc sono un ricordo. Nell’arco di pochi secondi non rimane che immaginare ciò che sta avvenendo nella quotidianità di un luogo assaggiato solo per una decina di giorni. Ai lati delle strade, uomini e donne vendono frutta, le fogne a cielo aperto delimitano il campo, i bambini si lavano in pozze d’acqua putrida. A 9mila metri il cielo è sereno. E mentre dai finestrini si intravede la costa di Chittagong, le storie di Miriam, Arafa, Su Faira, Rehana, Fatima e Assima rimangono sospese tra una lettura svogliata alla rivista di bordo e l’ossessione per il pezzo da consegnare. Poco più ad est il Nef river divide Bangladesh e Myanmar. Tra la fitta vegetazione e le montagne che si gettano nel fiume, i villaggi protagonisti del genocidio in corso. I racconti di Miriam e delle altre donne Rohingya abitano in quei luoghi. Stupri e omicidi, parenti desaparecidos e figli gettati in fosse comuni. Negli occhi neri delle rifugiate c’è la profondità del dolore. La prospettiva della sofferenza. Entri nella tenda, ti siedi e senti viva la forza dello sguardo. Il Niqab nero elimina qualsiasi particolare a cui aggrapparsi per fuggire. E lentamente, colto in flagrante, vieni colpito dalle responsabilità di ascoltatore. Ti viene affidato il racconto di una vita, di una fuga, di una guerra.

Tannat Ara ci segue silenziosamente. È un’orfana, ma non lo sa. Non ha ancora realizzato che quella mattina di agosto in cui è fuggita dal Myanmar, i suoi genitori sono morti. Un Rpg è stato sparato dentro la sua abitazione. Tannat Ara ci osserva da dietro un albero, animali estranei da studiare. Ha dei lunghi capelli neri corvino raccolti con una pinzetta e una sciarpa arancione. I fantasmi del campo di Kutupalong infestano la cabina dell’aereo, mentre le hostess servono spremute d’arancia e fette di torta. Una piccola turbolenza ricorda il moto dei tuc tuc sulle strade dissestate del Bangladesh.

In un bicchiere d’acqua ci si tuffa nel Naf river, il fiume protagonista della fuga dei Rohingya. Le zattere per la traversata sono ricavate con galloni per la benzina arancioni. Come isole nella sabbia, vengono lasciate al loro destino. Il sole riflette i colori dei campi profughi costruiti sulla sponda birmana. Un soldato annoiato trascina il fucile sulla riva, osservando una barca dedita alla pesca. Piccoli granchi rossi invadono le dune della spiaggia, nascondendosi al passaggio degli ospiti indesiderati. Il primo villaggio bengalese che incontro lascia una sensazione vivida di precarietà. L’esistenza ruota intorno ad una moschea con un minareto color verde islam. Il mercato del bestiame si svolge stranamente silenzioso sulla spiaggia, mentre alcuni ragazzini riparano la prua di una imbarcazione. C’è la povertà tipica del Bangladesh, ma c’è anche la quotidianità di un’esistenza tranquilla. L’estuario del fiume è un appiglio, fuori l’Oceano Indiano con le sue mille incertezze, dentro un lento e sicuro incedere.

Mancano meno di 20 minuti all’atterraggio a Dacca. Il volo della Biman Airlines continua placido il suo tragitto. Il flusso di pensieri si interrompe quando un ragazzo canadese cerca, fallendo, un contatto verbale con i passeggeri vicini. L’aereo inclina la traiettoria. Sotto le isole del Meghna sono tasselli verdi nell’estuario del fiume. Navi merci solcano l’Oceano. Esseri umani solcano campi di riso e foreste. Jocommia ha 91 anni, una lunga barba bianca e rughe che segnano in profondità il viso. È appena arrivato in Bangladesh, cerca il figlio fuggito dal Myanmar alcuni mesi prima.

Le famiglie si spaccano all’ombra della solita, antica e brutta storia dell’identità nazionale, dei confini immutabili e delle rivendicazioni strategiche. E allora vale stuprare, uccidere e rapire, ma sempre sotto la bandiera della giustizia e dell’interesse comunitario. Il Myanmar, come la Bosnia e il Ruanda. Norada tiene stretto il sacco bianco donato dall’Unhcr, quasi fosse una boa in mezzo al mare. È seduta sulla terra battuta, al suo fianco le tre figlie. Per fuggire ai massacri si sono nascoste per 15 giorni nella foresta.

Il segnale delle cinture. L’aereo comincia la discesa. Dacca è coperta da una nuvola di smog grigia. Domani un altro volo, Beirut dista 24 ore.

 

Davide Lemmi

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6 Comments

  • provo solo a immaginare il peso di quello sguardo, degli sguardi di quelle donne e bambini. nessuno merita quel che ha, compresi quello che hanno di più perché altri hanno di meno

  • Grazie anche da parte mia Davide Lemmi,in questa puntata sei stato particolarmente toccante,per le storie di questi ragazzi per le immagini che ci hai raccontato,per quelle condizioni che non dovremmo mai smettere di aver presenti quando si parla di politica

  • e ricordiamoci delle condizioni di questi profughi a causa delle NOSTRE guerre capitalistiche in giornate come quelle di oggi in cui è stato sventato un attentato di uomo del Bangladesh …. considerando, senza giustificare, le loro sofferenti motivazioni

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