Depeche Mode @Olimpico Roma (07/2013)

Nessuno può criticare un gruppo che ancora ha da dire e lo dice bene

Andare a vedere i Depeche Mode dal vivo è come il pranzo di Natale, che fai, non ci vai? Dovrebbero inserirli tra le feste comandate, Capodanno, Pasqua e almeno un loro concerto durante l’arco della vita.
Io che sono una fedelissima delle ricorrenze, ho comprato il biglietto mesi fa e sabato 20 luglio ero presente a quello che può essere considerato l’evento del 2013, se non altro per il numero di partecipanti, che ha duplicato quello raggiunto da un altro animale da palcoscenico che è Bruce Springsteen.

Sì perché i Depeche Mode hanno superato egregiamente le generazioni, tagliato trasversalmente le mode, sono sopravvissuti a loro stessi e all’Olimpico mettono su un live imponente, che non può essere ignorato o criticato. La band è una macchina da concerti, ammettiamolo.
Causa traffico, parcheggio più o meno all’altezza di Porta Pia, ricerca di un bar dove rifocillarsi preventivamente evitando di lasciare lo stipendio ai furgoncini fuori allo stadio, ho perso sia i Motel Connection che Matthew Dear, incaricati di aprire l’esibizione dei DM. Mea culpa, non succederà più, la prossima volta mi piazzo lì dal giorno prima.

 

Poco dopo le 21, sale sul palco il gruppo di Basildon, annunciato dalla scenografia a cura di Anton Corbjin, fotografo e regista olandese, già autore di videoclip di band come Echo & the Bunnymen, Joy Division e gli stessi Depeche Mode. Uno schermo gigante e due monitor laterali ci accompagnano per tutta la serata, proiettando immagini del live e stralci di video.
Dave Gahan è affascinante come solo uno bello e dannato sa essere, si muove sinuoso come il serpente nell’Eden, gesticola peccaminoso e ancheggia che andrebbe vietato ai minori di diciotto anni. Porta un gilet sbrilluccicante a pelle e i capelli tirati indietro (e non è ridicolo!!). Non basta, è maledettamente bravo, passa dalle note più basse (proprie della sua voce baritonale) a quelle più alte con la precisione di un cecchino e regala una performance pressoché perfetta.

 

Ma la macchina da concerti che si è appena messa in moto con “Welcome To My World“ (dall’ultimo album) è retta dal lavoro degli altri elementi del gruppo. Il paroliere Martin Gore, che indossa ugualmente un gilet assomigliando più a uno zio buono che altro, prende il microfono su “The Child Inside“ e “Shake The Disease“, rimanendo altrimenti defilato ma presente e solido. Come da sempre, e a questo punto per sempre.

 

Stessa cosa per Andy Fletcher, granitico durante tutto il concerto, ha rivelato un guizzo di umanità nell’esecuzione di “Just Can’t Get Enough“, dimostrando che nonostante la parvenza di essere inamovibile, è un tenerone.

 

A completare la formazione, infine, i turnisti Christian Eigner (batteria) e Peter Gordeno (tastiere).

 

La scaletta è stata, a mio avviso, pensata per raggiungere tutto il pubblico, dai fan dell’ultima ora (“Soothe My Soul“) agli irriducibili del “Black Out” (noto locale romano, per i non romani, con una bellissima quanto inaspettata “Black Celebration“ e dallo stesso album “A Question Of Time“).

Fosse stato per me, avrei ascoltato più volentieri canzoni vecchie (anche solo da “Exciter“ o dal penultimo “Sounds Of The Universe“, per cui avrei pagato un supplemento perché suonassero “Wrong“), ma le immancabili “Personal Jesus“ ed “Enjoy The Silence“ hanno riempito a sufficienza la mancanza.

 

I saluti finali sono arrivati con “Never Let Me Down Again”, una tra le mie preferite di tutto il repertorio targato DM, che ha chiuso degnamente un signor concerto, di quelli che vanno visti a prescindere, in cui c’erano bambini, signore con la bandana, darkettoni attempati e tutti – tutti – abbiamo cantato a squarciagola «..All I ever wanted, all I never needed, is here in my arms..» con le braccia tese verso Dave Gahan. Tutti abbiamo ondeggiato sulle note di “In Your Room“ e alzato cori su “Precious“.

 

Per una volta, forse la prima in questa estate ricca di nomi sul cartellone musicale, nessuno ha gridato al fonico che “non si sentono le voci” (anche perché a voglia a gridarlo, eravamo quasi 60.000), nessuno ha potuto criticare un gruppo che ancora ha da dire e lo dice bene.
Se ve li siete persi, rimediate per le date in previsione per la prossima stagione. Non ve ne pentirete.

Agnese Iannone 

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