«Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla
di crearmi uomo, ti chiesi io,
dall’oscurità di promuovermi..?»
Dal “Paradiso Perduto” di Milton.
Mary Shelley scrisse uno di quei romanzi che restano nella storia della letteratura, uno di quei romanzi che creano il mito e guidano l’immaginazione di generazioni.
Parlo di “Frankenstein, or The Modern Prometheus“ (“Frankenstein, ovvero il moderno prometeo” – 1818).
Il “Dottor Frankenstein” è realmente esistito nella figura leggendaria del medico e alchimista Konrad Dippel. Nacque nel 1673 a Darmsdatd nel castello dell’antica famiglia dei Von Fraankenstein e dedicò la sua vita alla ricerca dell’elisir di lunga vita, e raccoglieva ossa e corpi nei cimiteri e nel suo laboratorio cercava di creare un essere vivo. Morì nel 1734, in circostanze misteriose, forse per aver ingerito del veleno.
La Shelley era a conoscenza di questo personaggio grazie ai fratelli Grimm, intimi amici della sua matrigna, Mary Jane Clairmont. In una lettera a lei inviata, i fratelli fanno cenno della storia, forse conosciuta attraverso le informazioni da loro raccolte su antiche storie e leggende, che hanno dato vita poi alle loro celebri fiabe.
Chi conosce Frankenstein solo attraverso le sue trasposizioni cinematografiche, che svariano dal genere horror alla parodia, non può comprendere a pieno la nascita del “mito”. Nei film ci viene mostrato un terribile essere, brutale e che semina distruzione e terrore solo per appagare una brutale sete di sangue. Ma la Shelley ci trasporta in una realtà ben più profonda e sottile: un difficile e inquietante caso di paternità disconosciuta e rifiutata che scatena nel figlio odio e vendetta.
Siamo di fronte a quello che possiamo definire come un fratello “gotico” di Edipo.
Tutto il romanzo è permeato dalla filosofia di Rousseau secondo la quale l’individuo nasce naturalmente in una condizione d’innocenza che viene corrotta nel suo confrontarsi con e nella società. Non è un caso che l’educazione della “creatura” segua esattamente le fasi dell’ “Emilio“, il trattato del filosofo francese sull’educazione, che Mary Shelley conosceva a fondo.
Come l’ideale Emilio, la creatura inizia il suo percorso di crescita in solitudine, nella foresta, lontano dalla vita sociale. Le sensazioni di piacere e dolore lo guidano con stupore ad acquisire le fondamentali conoscenze naturali e a migliorare le sue abilità tecniche. Un suo primo contatto con gli uomini si risolve in fallimento, il suo aspetto è fonte di terrore e viene attaccato. Costretto alla fuga trova riparo in un capanno di cui una parete è in comune con un casolare abitato. Attraverso una fessura osserva e inizia a percepire la quotidianità di una famiglia umana:
«Le sorrise con un affetto e una gentilezza tali da suscitare in me sensazioni nuove e sconvolgenti: erano un misto di dolore e di gioia, sentimenti che mai prima avevo sperimentato nè a causa della fame, nè del freddo, nè quando ero riuscito a scaldarmi o a saziarmi di cibo. Mi ritrassi dalla fessura, incapace di sopportare quella emozione».
Nascosto dietro la parete impara il linguaggio degli uomini e a leggere e scrivere. Entra casualmente in possesso di un volume delle “Vite“ di Plutarco, de “I Dolori del Giovane Werther“, e del “Paradiso Perduto“ di Milton che gli fanno assaporare tutto lo spettro delle passioni umane.
«Ma tutto era un sogno; nessuna Eva placava i miei dolori o divideva i miei pensieri; io ero solo. Ricordavo la supplica di Adamo al suo Creatore. Ma dov’era il mio? Lui mi aveva abbandonato e nell’amarezza del mio cuore lo maledicevo».
Ed ecco che il processo pedagogico rousseaniano si imbatte in un ostacolo insormontabile proprio nella sua fase conclusiva.
Per comprendere a fondo il rapporto creatura-creatore presente in questo romanzo, bisogna fare una premessa. La “creatura” non è un essere meccanico, come gli automi a cui è stato a volte paragonato, ma è comunque qualcosa di “altro” dalla natura umana. Il suo creatore non è un abile meccanico, come gli artefici settecenteschi di automi; Frankenstein ha fatto di peggio: dopo averlo assemblato, come se fosse un meccanismo, ma non usando rotelle e ingranaggi, ma organi umani strappati alla morte, gli ha inniettato un “terribile virus” che il corpo di quell’essere non riuscirà a sopportare, l’umanità.
Il “mostro” è in realtà un’anima nobile, alta, educata, la sua indole si guasta nell’atto stesso con cui comincia a desiderare il bene, l’amore, la bellezza, la civiltà, a voler cioè, sfuggire al proprio destino di esperimento scientifico.
In letteratura non mancano esempi di esseri artificiali che si ribellano agli uomini cercando di ucciderli. Ma all’uomo è data una semplice soluzione per far salva la vita: basta “rompere” il meccanismo che muove il “fantoccio”. La “cosa”, come la definisce Frankenstein, non può essere rotta, per cessare d’essere, deve morire, come gli esseri umani. È in questo particolare che risiede l’incessante caccia tra il mostro e il suo creatore. In questa caccia è chiamato a partecipare anche il lettore: ma per chi parteggiare? Il folle scienziato è un nostro simile, eppure la sua condotta ci fa tentennare per un nostro appoggio, perché anche l’altro (il mostro) ci appartiene in qualche oscuro modo; è un diverso, ma come lo Shylock shakespeariano, se lo si punge sanguina.
Questa apparente contraddizione si risolve nel concetto di sublime: timore, magnificenza, terrore, grandezza ed emozioni incontrollabili nello stesso momento, incompatibili, ma sempre inscindibili.
In fondo anche l’uomo è un doppio, non è interamente buono, né solo malvagio, ma kantianamente parlando è un legno storto, ha una parte positiva e l’altra negativa non sempre bilanciate, ma spesso contrastanti, eros e thanatos che lottano tra di loro.
La “creatura” nel tentativo di dimostrare la sua umanità alla razza umana va incontro alla catastrofe. Ma chi è responsabile della catastrofe? Frankenstein che ha oltrepassato i confini segnati? La società che non accetta la diversità? Il mostro che non accetta i suoi limiti oggettivi?
Francamente non so che risposta dare.
Vedo in Frankenstein un romanzo di passioni umane e di solitudine. La solitudine è la condizione esistenziale di maggiore inquietudine che il “mostro” possa percepire e la morte sarà un sollievo e la fine di ogni rimorso. Nella morte tra i ghiacci avviene il ricongiungimento tra la creatura e il suo creatore. Il compianto finale che la creatura pronuncia sul cadavere del creatore è un rovesciamento della scena che ha dato inizio al dramma, quando lo scienziato, chino sulla propria opera che ha appena iniziato a vivere, se ne allontana con orrore maledicendola.
Katia Valentini
grazie 🙂
ho molto apprezzato 🙂
.Wayne