Buon Anno bastardi

Capodanno non si sa mai dove si va a parare, lei dorme fragile, l’auto rolla liscia, la frontiera alle spalle, i polsi tremano, ma va tutto molto bene [Racconto breve]

Avevo litigato a lungo con Rosie quella notte, aveva litigato lei da sola in realtà, nella cucina la luce al neon bassa lasciava in penombra il suo volto isterico agitato, strillava e mi indicava con quel cazzo di dito come se stesse sgridando uno dei bambinetti a cui ogni mattina badava.

Che si fottesse, anche se fosse stato l’ultimo giorno del mondo, ficcai le mie poche robe nella borsa e la lasciai sola a smaltire l’ebbrezza della battaglia.

Fuori la notte era un cristallo siberiano, lasciai in fretta la via di casa mi incamminai lungo l’argine deserto del fiume salmastro.

Mi accorsi della sua sagoma ritagliata sotto il lampione, solo quando le fui vicinissimo, la sua silhouette nero sul nero sfoltiva il margine del buio, quasi l’avrei travolta camminando con passo spedito.

La notte precedente avevo sognato di stare seduto ad un tavolo rotondo con tipi dalle barbe ispide e gli occhi sgranati, tutti si erano sollevati la manica sinistra della camicia e stavano per farsi una pera, l’atmosfera era angosciante, nel silenzio potevo sentire i sussulti delle fiamme degli accendini, dei lacci, dei gomiti striscianti sul legno, era il 1994, da un televisore intravidi il quarto goal di Desailly, di pallonetto contro il Barcelona, il Milan aveva appena vinto la Champions e il fermo immagine del faccione nero e pasquale del calciatore si stoppò in un sorriso agghiacciante e squilibrato, allora capì che era il momento esatto in cui tirare via l’ago dal braccio e buttarmi sotto il tavolo; in quell’attimo la porta fu aperta da una spallata ,piombarono tre albanesi coi sigari fumanti e riempirono di piombo tutta la comitiva di eroinomani. Nascosto sotto il tavolo, scovai una botola e mi ci infilai, il passaggio era buio e non avevo idea di dove potesse finire, solo strisciavo mentre la terra mi entrava in bocca, probabilmente qualcuno mi stava raggiungendo, poi precipitai dentro un cunicolo da cui filtrava la luce della strada, forse da una grata su un tombino, ma io cadevo sempre più in giù fino a quando sentii lo splash e l’acqua putrida che mi entrava dal naso, da sotto qualcosa mi raccolse, tastai curioso di capire cosa mi trattenesse in superficie e scoprì che si trattava di una balena con il dorso zeppo di conchiglie e alghe e stelle marine, il cetaceo emerse prese una boccata d’aria poi si inabissò e io con lei fino a che divenne tutto nero.
Questo solo per dire che la giornata era iniziata in modo abbastanza teso, perciò tastai la tasca sul petto e sentii che non avevo dimenticato il pacchetto di sigarette, ne presi una e chiesi alla donna se avesse da accendere.

Lei, neanche mi guardò, frugò nella borsa poi estrasse una scatola di fiammiferi, mi avvicinai per accendere, l’odore forte di zolfo misto al suo mi salì fino al cervello, poi serio le chiesi – Che ci fa una ragazza come te in un posto come questo? –

Lei era reale, nonostante il freddo rendesse indefiniti i suoi contorni, indossava inspiegabilmente un abito leggero – Bello il fiume che scorre nella notte, fa bene alla salute –
– Ascolta se vuoi un passaggio ho la macchina a cento metri, la tua salute rischia grosso ragazza, la notte sta precipitando gelata – Poi mi seguì , aveva un portamento fiero che pareva un tenente in visita alle sue truppe in trincea, mentre batteva i tacchi con be-bop rapido e regolare.

In auto, lei accese un’altra sigaretta – era splendida mio dio – il freddo l’aveva resa eterea, limpidissima – l’auto arrancava sull’asfalto lucido come gli occhi di un malato- lei muoveva la sigaretta come una matita indicando la direzione giusta, i capelli le coprivano ordinatamente le spalle come il sipario di un teatro, non potevo fare a meno di sentire la sua gamba flettersi contro la mia mano mentre cambiavo marcia, non parlammo molto.
– Grazie – mi fece dopo una decina di minuti, poi s’immerse nel manto gelido della notte.

Io non avevo posto dove sbattere la testa e fuori faceva dannatamente freddo, decisi così su due piedi il da farsi.

***

Snam abitava poco lontano, sapevo di poterlo disturbare ogni volta che volevo, era un anima inquieta, mangiava e dormiva a comando, così bussai sicuro che avrebbe aperto da lì a poco.
Da quando eravamo ragazzini, lui era stato sempre Snam – società nazionale metanodotti – per via delle mise targate con cui il padre, rifornitore di bombole a gas del quartiere, era solito rifornirlo.

Com’è o come non è , si da il caso che con Snam avevamo legato fin da subito e anche ora, che non lo beccavo da tre o quattro anni, ero sicuro che mi avrebbe dato rifugio.
Scesi nel seminterrato in cui dimorava, Snam era avvolto nell’ombra, solo una lampadina illuminava l’ambiente, seduto sul materasso sfatto poggiato sul pavimento , girava l’indice dentro una tazza di caffe – Weilà ! Neanche tu te la passi un gran bene – mi apostrofò vedendomi disorientato.
– Cazzo, Snam, è l’ultimo dell’anno e non ci siamo ancora arresi –
– Entra chiudi la porta e non dire stronzate –
Posai il borsone, girai una sedia e mi accomodai al contrario con i gomiti poggiati sulla spalliera e la testa tra le mani.

– Io non so cosa cazzo ci fai qua a quest’ora dovresti spassartela in qualche fottuto veglione a menù fisso, ma comunque sei qua. Ora avevo una roba in ballo per stasera, ma il coglione che si doveva fare vivo si è tirato indietro all’ultimo, sai Baloo, quello è proprio il numero uno delle teste di cazzo… perciò potresti anche restare qua a mangiare due o tre scatolette di tonno e fagioli, ruttare e aspettare il countdown di fine anno in tv con le tettone che esplodono sotto i coriandoli a Cortina, oppure potresti seguirmi per stanotte e festeggiare domani o dopodomani… che poi tu che cazzo devi festeggiare in fin dei conti con quella faccia, dovrebbe essere una tragedia per te che pure quest’anno è andato a puttane, perciò sentiti libero di fare come vuoi, ma non stressare… –  disse passandosi l’indice in bocca e sorseggiando il caffè.
Ripiombammo così di nuovo sulla mia auto, una vecchia panda dal radiatore malandato, arranca come una lattina di aranciata accartocciata scalciata dai ragazzini, mentre risaliamo la sponda del fiume, la città si diluisce lasciando spazio alla zona anarchica residenziale industriale del nuovo piano urbanistico paesaggistico appaltato dalla mafia.

In buona sostanza, Snam aveva contatti con un tale mercante d’opere d’arte clandestine che abitava in una villetta fuori città. Quella sera avrebbe dovuto prendere in consegna un vaso o qualcosa del genere, robaccia vecchia cinese, da recapitare a qualcuno dall’altro lato della città; gli avrebbero dato anche un anticipo di cinque mila euro e, a consegna avvenuta, altri cinque mila euro.

– Tutto è dannatamente lineare, senza pericoli, un lavoretto di tre quarti d’ora – aveva detto gettandosi addosso un maglione di lana grezza e infeltrita.

All’epoca avevo spento ricettori e inutili moralismi, era tutto ok e che si fottessero i guai, volevo solo scivolare con la notte e farmi al più presto una dormita e, di certo, avrei riposato meglio con cinque mila euro in saccoccia.

Allora andiamo io e Snam, la notte cresce gelida uscendo dalla città, il fiume diventa un canale di nebbia e puzzo di letame.

– Qua, la prossima entra a sinistra –

La luce dell’ingresso era ovattata dalla nebbia, ma distinsi l’entrata, il viale ghiaioso, parcheggiai tra le altre innumerevoli auto, due Chevy Bel Air nere incappucciate.

Sul posto due gorilla vestiti da pinguino ci condussero dentro, Snam mi consigliò di bighellonare in giro per la villa, mentre lui concludeva il passaggio nello studio del capo, di farmi vivo tra venti minuti.

Il posto era immenso, un enorme salone di cui non vedevo la fine si estendeva e al centro un trio swingava di corsa milioni di note a ritmo forsennato, la gente nascosta dall’oscurità ancheggiava, borbottava, fumava, sorseggiando champagne e vodka.

Non mi ero mai sentito a mio agio come ora, con la giacca comoda da due lire e le scarpe di cuoio marrone consumato, mentre in giro gli invitati si sbizzarrivano sciorinando gli abiti più ingessati e comici.

La band accennò qualcosa di estremamente sudamericano e fu allora che sul palco vidi la ragazza del fiume.

Stupito su come cazzo avesse fatto ad essere anche lei qui, mi lasciai ipnotizzare dai movimenti sinuosi mentre scuoteva le maracas a tempo.

Quando il pezzo finì mi avvicinai, lei posò le maracas – Che ci fa una ragazza come te in un posto come questo? – le apostrofai.

–Smettila di dire cazzate e beviamo qualcosa – poi mi prese dal braccio, andammo verso il bar ci versammo da bere tre, quattro, cinque volte: tutto accadde rapidissimamente, lei mi vomitò la sua storia, o almeno, quello che poteva mostrare, io l’ascoltai, aveva gli stessi abiti di quando l’avevo incontrata lungo il fiume, solo sembrava più fresca, nonostante l’alcol che aveva trangugiato.

Capì da un solo sguardo che mi lasciai sfuggire che mi ero abbastanza rotto le palle delle sue storie da donna – dai, vieni –
Appartati in un angolo buio del guardaroba, schiacciati tra i soprabiti e il bancone, lei mi prese il collo tra le braccia, sentivo il suo respiro, il suo cuore schiacciava contro il mio petto, le sollevai il vestito leggero, successe tutto in fretta velocemente, lei trattenne il fiato quando venne strinse le cosce forte mentre la spintonavo tra le pellicce e i paltò.

– Forse è tardi, sai dove staziona il proprietario di tutto quest’ambaradan quando deve far affari? – lei indicò col dito – primo piano a sinistra in fondo…vado a farmi un drink. Stammi bene – così si congedò riassestandosi il vestito e i capelli.

Veloce mangiai la scalinata, bussai alla porta, entrai rapido – tu chi cazzo sei? – grugnì un energumeno dall’interno – tutto ok, lui è il mio autista, sta con me – assicurò Snam.

Eravamo tutti in attesa, tre bestioni rasati, denti dorati e anelli, usciti da un video hip-hop dei ’90, Snam non so cosa pensasse, ma era concentrato, ossesso muoveva le dita della mani destra accendendosi una sigaretta dopo l’altra.
Alla fine entrò quello che doveva essere il mercante d’arte, il titolare – avrà avuto settant’anni – magro e pallido come la fame, estrasse l’oggetto da una cassaforte e poi attaccò col solito pippotto da circostanza sul valore del vaso e robaccia simile che io mi ci stavo quasi addormentando non avessi avuto ancora sulle labbra il profumo della pantera del piano di sotto.

Snam era una faina dagli occhi sanguigni, in un attimo vidi la sua esile costituzione rovistare sicuro e dalla borsa afferrare qualcosa, vidi le scintille, sparò a raffica mirando ai tre gorilla che si sgonfiarono contorcendosi con le membra devastate, mentre fresca giungeva la morte.

Il vecchio gettò il vaso per terrà che si schiantò fracassandosi in mille pezzi, dalla giacca estrasse una piccolissima pistola e la scaricò contro Snam che al terzo colpo, preso dritto in testa, cadde come un’arancia, tutta la polpa delle cervella sul tappeto – nel mentre, mi ero già schiantato sul vecchio che crollò per terra sotto il mio peso, le sue carni erano incredibilmente malleabili e fredde, gli afferrai la mano poi con la sua pistola giocattolo gli sparai sotto il collo, il colpo entrò dritto dal mento salendo per la mandibola, era bello che stecchito.

Ora che dalle mia mano sinistra colava il sangue caldo del corpo che giaceva fermo e accartocciato ai miei piedi e dal lato si spandeva una macchia rosso scuro fluida e silenziosa – maledizione sembra una lattina di aranciata ancora piena schiacciata – pensai – ma che cazzo mi passa per la testa – sentivo le vene del polso pulsare assordantemente serrando il pugno della mano.

Non ebbi tempo per pensare niente, Snam era ridotto in poltiglia, come tutti gli altri, il vaso in mille pezzi, la cassaforte ancora aperta, così asciugai veloce la macchia di sangue fresco, mentre riempivo di roba il borsone, mazzette di soldi, orologi, bracciali.
Nella fretta urtai per caso col la mano un telecomando che si trovava sperduto sulla scrivania, dallo schermo della Tv apparve il faccione nero di Carlo Conti con un sorriso inspiegabilmente esagitato in risalto nel nevischio di Cortina: era il countdown di fine anno e Carletto se la rideva beatamente mentre una ventina di stangone se la sculettavano regalando sorrisi in mutande, a me tornò in mente il sogno della sera precedente, così mi lasciai sfuggire un ghigno.

Staccai la spina, riempii tutto e richiusi la porta.

Facendo attenzione a non dar nell’occhio, mi precipitai al piano di sotto attraversai il salone, erano tutti dannatamente ubriachi e pietosamente felici.

Lei ciondolava ubriaca per le vie della sala, con le maracas abbandonate e distrutte, la dama delle situazioni adesso era solo Napoleone a Waterloo in attesa del gran final, quindi l’afferrai per un braccio, lei notò la borsa con la macchia di sangue – vieni con me ti spiegherò – le dissi mentre lasciavamo quel postaccio.

– Buon anno bastardi – pensai sputando allontanandomi nel viale.

La Panda di latta ora fila ruggendo lungo l’autostrada sgombra, lei ha il mio giubbino comodo da due soldi sulla spalle e sonnecchia serena mentre l’alba le scalda i capelli, io fumo il fresco del mattino, getto continue occhiate dal retrovisore, Gorizia non è ancora così lontana, che si fotta la provincia, nessuno ci troverà.
Scivoleremo verso sud, l’anno nuovo è appena iniziato, lei a breve aprirà gli occhi e io non ho nessuna voglia di dirle addio.

 

Giancarlo Pitaro

 

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