“Vini da scoprire”: contro i gourmet della domenica

Alter-Geo _ Mangiare, bere, uomo, donna _ [Rubrica] > Terre e prodotti assolti dalla mercificazione... Resistenza civile alle società di consumo

Questa Rubrica parla di quel “consumo” incivile fatto da una società mercificata, la nostra; la stessa che qui prova a resistere con gesti locali di autodeterminazione culturale… ispirati dal ‘mangiar bene’ e imbevuti da un ‘bere bene’. Intanto quel carrello della spesa si è smarrito in un momento di disattenzione del suo aguzzino, mentre noi ci preoccupiamo di ritrovare alternative forme di antropologia sociale ed enogastronomia per una nuova e dissidente etnografia sostenibile

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.Vini da scoprire” è un libro presentato da poco alla stampa e scritto a sei mani da: Armando Castagno, Giampaolo Gravina e Fabio Rizzari della guida dell’Espresso per la Giunti Editore. Un elenco narrato di 120 etichette e altrettante cantine, per lo più sconosciute: rarità o particolari su 120 dsc_0004produttori inaspettatamente interessanti. I tre critici (che di solito trovate su l’Espresso – “2000 vini”, “Bibenda” e quant’altro..) hanno raccontato ognuno con una visione propria, queste particolari bottiglie. Racconti brevi con delle belle grafiche della Oliva Studio, con meno tecnicismi del solito e poche semplici indicazioni comprensibili; sembra di rileggere le vecchie guide “Unipol-Slowfood” per quanto lo si possa inquadrare in un inserto, una sorta di aggiunta alle guide prestigiose (di cui rammento i tre fanno parte). Si tratta di un libro che potremmo definire anarchico e leggermente fuori dagli schemi.

Durante la presentazione alla stampa (più o meno… visto che io non sono andato con l’accredito ma con solo l’invito diretto di uno degli autori) l’argomento rilevante che è uscito fuori è stata una certa consapevolezza sul fatto che la critica del vino sembra essere arrivata ad un punto morto. Come avevo già parzialmente raccontato nell’articolo sul FoodPorn e per il libro sulla resistenza della viticultura naturale di J. Nossitel, il vino ha una strana ambivalenza. Da un lato è un prodotto storico importante per la nostra cultura, dall’altro ha in questo una forte connotazione economica. Il vino in altri termini è una bevanda che ci lega alla nostra cultura, familiare, contadina… ma è anche un simbolo di potere, in quanto produce ricchezza (ne ho parlato qui). La doppia veste del Sommelier come ‘intenditore e cameriere-venditore‘, quanto la doppia veste di critico come ‘arbiter e promotore‘, fanno si che i vini promossi godano di fama e prezzi più alti e che il critico si avvicini sempre più al gourmet perdendo parte della libertà di giudizio. È noto ad alcuni lo scontro di Sandro Sangiorgi con un suo finanziatore, durante una presentazione ai venditori. Sangiorgi cassò come “porcheria imbevibile” i vini che gli erano stati proposti da promuovere. Direte non si fa? Beh, io sono dalla sua parte.

 

Sullo stesso piano, ma con motivazioni diverse, Giampaolo Gravina durante la conferenza ha posto un quesito: è possibile che dopo vent’anni e con la crescita esponenziale di riviste, sommelier, blogger e social media manager… le ‘parole’ del vino si siano impoverite? Che i vini siano tutti ‘superlativi‘ e straordinari, che le bottiglie assumano solo ‘perfezioni’ e che il must sia solo quello di piacere? Un edonismo autoreferenziale dei degustatori parvenu: una sola e unica meraviglia incredibile. E che fine hanno fatto i produttori, la natura, il lavoro, l’amore, la tavola, le persone?

In un mondo che fa ‘panini gourmet’, e che rimpiatta alla Gualtiero Marchesi pure la coratella coi carciofi neanche fossero tutti come Gordon Ramsey, credo che la cultura contadina e la passione del vino da osteria con campo di bocce, tanta cara a Mario Soldati, siano andate a farsi benedire. Dalla mancanza di fondamentali di scrittura nella maggioranza dei bloggers tipo Selvaggia Lucarelli, fino all’analfabetizzazione di ritorno di molti lettori… qualcosa non torna. Poi c’è – a naso – da riconoscere che nel tempo alcune mode prendono il sopravvento, oppure ci sarebbe la questione dell’Io sociale nel mondo di Internet… ma di questo parleremo nel prossimo articolo. Detto questo vado avanti.

 

Vini da scoprire” analizza alcune cantine minuscole che non rientrano nelle più note “4 o 5 grappoli”, “due o tre bicchieri”… Dei vini anarchici, abbiamo detto, nel loro essere così imprevisti… che non godono di fama e mantenendo prezzi abbastanza contenuti, come a dire il prezzo non è indice di bontà ne’ di curiosità.
Torniamo dunque alle ‘parole del vino‘ e dei critici in genere e di come riconoscere i buoni maestri. Quando Gravina ha posto il quesito del modo di raccontare il vino, il cibo e quant’altro, ha citato Luigi Veronelli, Mario SoldatiAldo Buzzi, e io ci avrei messo pure Gianni Brera… cioè tutta quella serie di intellettuali-registi-giornalisti che prima dell’avvento della massificazione dello scrivere, non solo ponderavano le parole, ma avevano focalizzato nel racconto l’esattezza, la concretezza. Oggi nei Blog e nelle riviste di massa leggiamo una ricchezza di luoghi comuni imbarazzanti. Di stratosferiche affermazioni di compiacimento, di copia incolla dai testi di qualche inventore di neologismi o lettore assiduo di Wikipedia e di Robert Parker (il critico più potente del mondo del vino), sempre parlando del vino con sentori di ‘frutta esotica’ e banana, frutti di bosco, sella di cavallo… che tolgono al vino la sua natura, il suo luogo, il campo e la compagnia, il suo obiettivo, “la tavola”, la sua necessità… Nei racconti di Mario Soldati non era il vino il grande protagonista ma il campo, la vigna, il desco, ciò vale anche per Luigi Veronelli che non si fidava del simile uguale, del perfetto, andava cercando il difetto, la particolarità, e raccontava chi lo faceva non chi lo beveva. Il problema è questo presentarsi in prima persona, porsi come giudice e venditore, non come “curioso di settore” che ne snatura la piacevolezza nel lettore. Quel modo di fare trasforma il prodotto curioso da consumare a prodotto per raccontare l’Io. Mi rifaccio per esempio allo spagnolo Manuel Vazquez Montalban, che è stato scrittore, saggista, giornalista, poeta e gastronomo. Da socialista – e quelli dei Cinque Stelle non si inventino niente, socialista è un pregio – venne incarcerato durante la dittatura di Franco in Spagna. Il suo amico Camilleri racconta che si sia ispirato alla figura di Pepe Carvalho (“Il centravanti è stato ucciso verso sera” e altri…) per la creazione del Commissario che porta il suo nome appunto “Montalbano”. Nel 1985 (molto prima di quando io abbia cominciato a leggere di cibo) scrisse un libro a dir poco interessante e per me formativo: “Contro i Gourmet”. Inoltre, da quando mi è capitato tra le mani anche il suo libro “Ricette immorali”, in cui si leggeva: «Non si sa di nessuno che sia riuscito a sedurre con ciò che aveva offerto da mangiare; ma esiste un lungo elenco di coloro che hanno sedotto spiegando quello che si stava per mangiare…» mi si è aperto un mondo, e ho iniziato a prenderlo ad esempio più di Lao Tse, Rosmini o del Macchiavelli. Strategia dei sensi: se di conquiste o di strategie si parla, quelle di cui tratta Montalban nel suo “ricettario immorale” mi sembravano perlomeno interessanti: si tratta di sedurre attraverso il cibo. In fondo nutrirsi si deve, tanto vale farlo bene, e se questo aiuta al secondo scopo, cioè nella seduzione, hai fatto Bingo!

Ve lo dico per esperienza personale non è dato certo il risultato, questo non è proporzionale alla qualità del cibo, in ogni caso spesso e volentieri si è premiati dei propri sforzi. Con Il senno del poi vi garantisco che altri metodi sono altrettanto efficaci per il fine ludico, e poi credo che se una dama accetta un invito a cena.. il più è fatto. Dopo alcuni anni di letture su “storia della cucina” e ricettari veri e propri, oltre che tutta la saga di Pepe Carvalho scopro che Montalban aveva già scritto questo interessante libretto.
In sostanza, la scoperta, per quanto tardiva, è stata illuminante. In “Contro i Gourmet” è riportata una bibliografia chiara e organizzata in sequenze di periodi storici suddivise per argomenti, con riferimenti dei principali testi di cucina e di culinaria, attraverso una chiave di lettura approfondita dei meccanismi e delle motivazioni, con una spiegazione esaustiva, della differenza tra scienza e arte in cucina, passando pure dalla “magia del fuoco”, con riferimenti a testi di antropologia, filosofia, filologia e storia. Nel definire i compiti e le ragioni sociali che giustificano la sua professione, Vásquez Montalbán ricorre all’autorità dei maggiori principi della gastronomia, come Brillat-Savarin, Grimod de La Reynière, e di esperti spagnoli quali Carlos Delgado, citando fonti antiche e moderne. Insomma una specie di “Bignami” massimo della filosofia di Manuel Vazquez Montalban. Il testo offre il punto di vista dell’autore su ciò che riguarda il “porn food maniacs”, per così dire, e per me è stata una rivelazione. Siamo, o per meglio dire, sono “L’utile idiota del Marketing”… il Lenin dei degustatori epicurei. Quando vent’anni fa ho conosciuto Giampaolo Gravina non ero così, avevamo solo la voglia di sperimentare e di conoscere, non si esprimevano giudizi si davano solo entusiastici pareri soddisfatti. Poi col tempo le cose cambiavano e noi ci si adeguava, ma lo spirito era diventato man mano diverso.

goumet-intA cosa serve sapere di vini e parlarne in maniera entusiasta se non devi venderli? Spinti dalla curiosità si andavano conoscendo nuove cantine, nuove tipologie, nuovi approcci. Fortuna vuole che molti dei produttori li ho conosciuti davvero perché sono uno di quelli che passa le vacanze per giri enogastronomici, altre volte per lavoro, unendo così l’utile al dilettevole. Ma insisto a cosa serve “saperne tanto” se non a vendere? E se ad esempio io vi dia le mie preferenze vi interesserebbe qualcosa? Vi interessa cosa faccio io? No, mi auguro..

 

Il gourmet è figlio della cultura borghese, intermediario tra la necessità e piacere, affermatosi come istituzione fra il Sette e l’Ottocento: diventa un guru che si collocaal di sopra del palato comune“. Il gourmet come figlio della “borghesia industriale” si dedica alla ricerca della raffinatezza assoluta del particolare o di quella spezia rara… che i mercanti borghesi, loro solo, comprano nelle lontane Indie. Più è rara, più è lontana, più è impossibile da combinare… più il gourmet impazzisce e la vuole: la esalta… e allora il suo padrone la fa pagare cara sul mercato. È il trend setter del cibo, è il piazzista di rarità. E in questo la spinta va sempre più avanti nel tempo.

Da Lucullo e Apicio, sino alle birre artigianali mongole, passando per i Shiraz illegali iraniani o il caviale Beluga e la foglia d’oro… la carne plastica e le fantasie futuriste di Tommaso Marinetti e Fillia in confronto sono baggianate. Non c’è animale o pianta che il “nostro” non ritenga eccezionale, insuperabile, ma solo se è economicamente inaccessibile alla massa. Quando poi i consumi diventano di massa, il gourmet va oltre, verso qualcosa di unico, di nuovo raro e caro… mentre il prodotto perde la sua origine e diviene industriale, tant’è che per mantenerlo tale si usa il surrogato chimico.

Scrive Montalban: «Il gusto ci aiuta a sopravvivere combinando la nutrizione con il piacere e finisce con l’essere la chiave di una filosofia totale sulla vita e sul mondo degli altri. Goudot Perrot ci dice che il gusto si basa sulla ricettività e selezione chimica delle sostanze dissolte, divise in sapide e insipide. A interessarci sono quelle sapide: acide, salate, dolci, amare. Ogni piatto per quanto eccellente si può spiegare con il gergo che segue: olossidi, eterossidi, alogeni, solforosi, alcaloidi, in una combinazione di Ph2, 63 com Mg+2 e Ag+2 tale da farci leccare i baffi … La conoscenza antropologica chiarisce l’origine dell’alimentazione e degli usi alimentari legati all’evoluzione. Il gourmet è ben altro. È un sacerdote assorto, uno schiavo drogato dal sapore singolare e avvilito al momento che si socializza, a partire dalla dimensione del gruppo di iniziati fino a quello della sapienza convenzionale, di una divulgazione del palato. La gastronomia ha una logica storica e una struttura sociologica che riflette la società che la determina. L’alimentazione è un fatto socioculturale che implica organizzazione sociale e competenze specifiche, ma che storicamente si è basata sui prodotti vicini all’ambiente umano in accordo con le possibilità dello spazio naturale. Poi i mercanti hanno complicato e modificato le richieste derivanti dalla necessità del vivere con quelle dell’apparire».

Chiudo tornando al superamento di queste innumerevoli propagande pubblicitarie e finte critiche del gusto, del vino e della cucina, consigliandovi ancora “Vini da scoprire“, un libro per sua natura esente da ridondanti conferme e straordinarie parole; ricordando ai Blogger che: «Il vino inumidisce l’anima e calma le nostre pene assopendole» (da Platone nei Dialoghi), e ricordandovi infine che “symposion” sta per: “bere assieme”.

 

Daniele De Sanctis

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