L’attualità de “L’Odio”

Nel 1995 Kassovitz portava a Cannes un film profetico, che sarebbe diventato un cult. Ma dopo 25 anni, cosa lo rende ancora così iconico?

L’anno domini 2020 – o almeno la sua prima metà – verrà certamente ricordato per la brutalità con la quale ci ha aggredito. La crisi ambientale, l’emergenza Covid e i riots di protesta in USA non sono altro che catalizzatori di un processo che sembrava già in corso, ma che ora pare aver subito un’accelerazione inarrestabile. Il clima di tensione si sta inasprendo, le incongruenze della società non possono essere più ignorate, la percezione dell’ipocrisia del sistema neoliberista è arrivata a livelli che non si vedevano da tempo. Tuttavia, la narrazione dominante non è uscita dai binari dello status quo, continua a tranquillizzarci sminuendo la portata degli eventi, pretende che nulla debba cambiare. Stiamo precipitando da un palazzo di cinquanta piani, e dopo ogni piano continuiamo a dirci “fino a qui tutto bene”, come nel film francese “L’Odio” (La Haine) di Mathieu Kassovitz, che proprio in quest’anno funesto compie 25 anni. Rivederlo è stata l’occasione per riscoprirne la straordinaria attualità.

La pellicola è ispirata a una storia vera, ed è valsa al regista transalpino- all’epoca appena ventottenne – il Premio alla Miglior Regia a Cannes. Con gli anni si è convertita in una pietra miliare della cultura hip hop, invecchiando come i migliori vini. La fotografia in bianco e nero dipinge il mondo delle banlieue parigine, in cui tre amici, il nero Hubert, il maghrebino Said e l’ebreo Vinz hanno a che fare con la quotidiana frustrazione di chi è rimasto fuori dal giro di giostra della società che conta.

Il “malessere della periferia”, come viene descritto nel film stesso, è rappresentato con franchezza, lasciando trasparire la rabbia, cruda e sanguinante, di chi fa parte di questa realtà. La realtà degli oppressi, dei segregati di tutti i tipi. Nella Francia di venticinque anni fa, in pieno conflitto post-colonialista, ma anche negli Stati Uniti di oggi, in cui come nel film la polizia diventa il simbolo delle istituzioni a cui fare la guerra. Le minoranze sono succubi della società dell’ordine, che discrimina e rigetta chi non ritiene degno di entrare nei propri salotti. Questo scontro tra chi “sta fuori” e chi “sta dentro” viene enfatizzato dal linguaggio verlan utilizzato dai protagonisti, dal loro abbigliamento iconico – che ispirerà marchi come Supreme – e dalla velata ironia di alcune scene divenute ormai parte del linguaggio cinematografico comune. In particolare Vinz – interpretato da un esaltante Vincent Cassel – è il personaggio che più di tutti rappresenta questa insofferenza dell’emarginato, che confluisce nella volontà di uccidere un poliziotto, «per pareggiare i conti». Il finale riserverà alcune sorprese, senza però deviare da questa visione dicotomica della società, in cui «l’odio genera odio», come dice Hubert più volte nel film.

Uno dei concetti venuto a galla in questi mesi del 2020 fa sicuramente riferimento al legame indissolubile che unisce razzismo, classismo e sessismo. La discriminazione non va mai in una direzione sola, anzi è una forza centrifuga, che allontana la periferia dal centro fino a un punto tale da renderla alienata, antropologicamente separata, da osservare distaccatamente come quando si va allo zoo (epica la scena della giornalista in cerca di testimonianze di violenza che viene liquidata con un «non siamo mica a Thoiry»). “L’Odio” riesce a ricordarci che questo processo non solo è ancora in corso, ma sta precipitando. Anche se non ce ne accorgiamo direttamente. Perché, lo sappiamo, “il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.

Raffaele Scarpellini

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