La magia di Pulp Fiction

Analisi ed elogio di una gemma del cinema moderno

Il prossimo 9 agosto uscirà “Once Upon a Time in Hollywood“, l’ultima fatica griffata dal signor Quentin Tarantino da Knoxville, Tennessee. La trama racconta le vicende attorno a Charles Manson e alla famosa strage di Bel Air del 1969 e va a braccetto con un cast – Brad Pitt e Leonardo Di Caprio insieme come Messi e Cristiano Ronaldo – che promette scintille e che ne ingrassa l’hype. Tutto fa pensare all’ennesimo boom al botteghino per un regista il cui modus operandi ha lasciato un’impronta indelebile sull’evoluzione del cinema moderno. La sua capacità di forgiare situazioni e personaggi cult è di certo ampiamente riconosciuta da critica e pubblico, e il suo stile tarantiniano, appunto, fa ormai parte del vocabolario cinematografico di chiunque. La sua popolarità, al di là dei due Premi Oscar come Miglior Sceneggiatura, ribadisce che a prescindere dai gusti personali si tratti di un director di primissima caratura.

Alcuni dei suoi film, come la saga di “Kill Bill” o “Django“, sono stati assorbiti dalla cultura pop in maniera rapida e permanente, radicandosi con riferimenti e citazioni ormai divenuti immortali. Ma è con “Pulp Fiction” che il genio di Tarantino si esprime nella maniera più compiuta, pulita e coerente possibile. Nel film, che nel 1995 gli è valso uno dei due premi Oscar sopracitati, spianando la strada al suo successo, si può intercettare la ragione più profonda per cui ora gode di tutto questo riconoscimento. E non sono solo i monologhi biblici di Jules, né la colonna sonora con Uma Thurman che mette sul giradischi gli Urge Overkill, né Marsellus Wallace che promette una cura medievale per il culo dell’agonizzante Zed. La sceneggiatura, scritta insieme a Roger Avary per gran parte durante un soggiorno ad Amsterdam, è figlia di una sperimentazione artistica che si era solo assaporata ne “Le Iene” e che raggiunge il suo massimo compimento: la scena di chiusura dà una sensazione armonica di appagamento, di soddisfazione nell’assistere al perfetto collocamento di tutti gli ingranaggi. La gestione del tempo attraverso il rifiuto dell’ordine cronologico pone la pellicola su un piano circolare, autosufficiente e clamorosamente innovativo, in grado di saper invecchiare egregiamente. La creazione, l’intreccio e la ricongiunzione di diverse linee narrative e personaggi, pensati e costruiti in un universo di gangster che mischia la violenza con la comicità, rendono il film una pietra miliare del genere, un’opera da antologia.

Il talento di Tarantino ha saputo andare oltre il suo gioiello, evolvendosi, stabilizzandosi e ramificandosi con fortune più o meno alterne. Ma i 154 minuti di “Pulp Fiction” rimangono il suo Everest, la manifestazione più cristallina del suo modo di fare e di intendere il cinema. Saperne apprezzare l’essenza, intrisa di arte cinematografica, è il minimo che possiamo fare.

E poi il meme di John Travolta confuso è troppo bello.

 

Raffaele Scarpellini
> Blog: “C’era una volta un Re

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