Discesa

Una corsa lucida e disperata verso il mare, per affrontare la morte e sfidarla - [Racconto breve]

La mattina era serena, sembrava un giorno come tanti. Meglio comportarsi come sempre. L’uomo si alzò presto e mise i panni ad asciugare sui fili tesi in alto nel giardino. Prese il caffè e si distese sulla sua sdraio preferita. Da lì vedeva il mare: l’enorme massa blu era immobile, sospesa in un tempo e in uno spazio che l’uomo non poteva comprendere. Il vuoto. Si vestì con calma, simile a tutti i turisti in visita di quella piccola isola greca: pantaloni e camicia di un tessuto bianco, leggero. Cintura color legno, mocassini chiari senza calze. Lui però non era un turista, da anni spendeva l’estate tra le rocce del suo rifugio mediterraneo. Si guardò nello specchio: le occhiaie stavano sparendo, da qualche tempo riusciva a dormire. Da una settimana, per l’esattezza, perché non essere precisi? Se lo ricordava benissimo. Una settimana prima aveva preso la sua decisione, aveva fissato la sua scadenza. Le scelte aiutano il sonno, a uscire dal limbo della speranza, della paura, della possibilità. Il vuoto, ancora dietro di lui; il mare, quella mattina, davanti a lui. Il caffè era caldo e scorreva con facilità tra le pieghe della gola provata dal fumo, come un conforto di cui lui, oggi, non aveva bisogno. Tutto era chiaro.

La casa era piccola ma carina, l’aveva comperata molti anni prima. Era bianca come tutte le case greche. Le finestre avevano sbarre sottili e nere che ritagliavano il cielo sempre azzurro, sempre soleggiato. La porta di mogano scuro, qualche ragnatela qua e là, dove lo sguardo non si posava. Fuori, il piccolo patio: una fontana nel centro e un tavolino, qualche sedia per gli amici, quando venivano. A dire la verità, da molti anni era spesso solo, uno stato che da scelta si era trasformato in condizione permanente e opprimente. Una stanza senza via di fuga, tutte le porte chiuse. Una cella frigorifera in mezzo al deserto.

Le 10 e il solito uccello che cinguettava, il rumore sembrava riflettersi nei raggi solari che si incrociavano nell’aria tersa, colpendo l’uomo sulle tempie. Un sottile ed umido velo di sudore sulla fronte bianca. Era tranquillo. Si alzò e andò in cucina, strofinò le mani nell’acqua fredda e accese la vecchia radio. Immediatamente una voce meccanica invase l’ambiente e le pareti pitturate di giallo. Il velo sulla sua fronte si spostò da una tempia all’altro, con uno scatto nervoso del collo si decise ad abbandonare la cucina. Uscì fuori e a braccia incrociate si mise al limite del cortile, da lì il mare appariva ancora più insondabile, ancora più Dio. A Dio prima o poi bisogna consegnarsi, specie in un’isola, dove il mare plasma le rocce e le persone, si intromette nelle case, ne esce lasciando il silenzio. I ricordi cominciarono a prenderlo, era ancora fermo, immerso nella luce solare. Ricordi di città, di vento gelido, di nord. Inverni in cui la solitudine ancora non riusciva ad entrare nella sua piccola stanza, pur spoglia, pur povera e scalza. Bussava timidamente per poi rinunciare, come un ospite sgradito. In seguito aveva abbandonato questa veste e aveva smesso di bussare, aveva sfondato brutalmente quella porta i cui catenacci si erano fatti arrugginiti.

Stranamente quella mattina si sentiva meno solo, per alcune ore riusciva a sfuggire a sè stesso, a essere finalmente solo in quel cortile. Il re del patio, ecco cos’era. Sorrise di sfuggita, un angolo della bocca sollevato. Un cane magro spelacchiato passò al trotto, una vecchia gli veniva dietro affrettando il passo. Era magra, alta e incurvata. La vestiva un sottile mantello nero, ricostruendola come vecchia strega. Le labbra erano rosse e sottili, come il naso che allungandosi conferiva un’aria di durezza a un viso altrimenti dolce. Le rughe numerose, spesse e profonde aumentavano quell’effetto, interrompendosi subito prima dell’attaccatura dei capelli grigi che lisci, sottili e fluenti si raccoglievano in un preciso chignon. Camminava lenta ma risoluta per la salita, i passi un po’ strascicati per via delle leggere babbucce nere, a punta, che ricalcavano le mani antichissime, sottili, le unghie sporgenti. Le raccoglieva in grembo mentre camminava. Stette a guardarla per un pezzo, finché la vide scomparire dietro la cima della stretta via, dove iniziava la discesa. Quella vecchia l’aveva messo in agitazione. Decise di mangiare qualcosa, era ormai ora di pranzo. Mise l’acqua sul fornelletto elettrico e aspettò, seduto sul piccolo tavolo della cucina, le braccia incrociate. Non riusciva a stare fermo, così si alzò e si versò un bicchiere d’acqua, bevendolo con avidità. Ripeté l’operazione più volte, fin quando non sentì il gorgoglìo dell’acqua che bolliva. Aggiunse il sale e versò gli spaghetti, che si disposero in un semicerchio perfetto nella pentola. Si risedette e ascoltò il rumore delle lancette dell’orologio che pesantemente scandivano i secondi. Non aveva fissato un’ora al suo compito, e quello poteva essere un problema. Per anni era stato impreciso riguardo alle scelte, agli obiettivi. Mangiò meccanicamente, senza appetito. Lasciava vagare la mente tra più pensieri insignificanti, assecondando un movimento che avanzava, si dissolveva per poi ritirarsi. Le onde nel mare seguivano un altro ritmo rispetto a quello dell’orologio sul muro. Descrivevano un altro tempo. Un flusso impreciso e costante decisamente più adatto per descrivere la vita, la concezione confusa che ha l’uomo del tempo e dello spazio, l’insicurezza e l’illusione che quel giorno non gli appartenevano. Un’inquietudine che non si staccava da lui, come una colla, una patina fredda da cui non traspiravano emozioni.

Ascoltava le onde affondato nella sdraio. Gli occhi rimanevano chiusi, a immaginare quella corrispondenza tra mare e cielo che chiudeva l’uomo in una bolla illusoriamente materiale e razionale. Un principio di libertà e sopra e sotto il vuoto, il supporre una base dove non c’è. La scelta di sollevarsi o di precipitare, a seconda. Per lui, la seconda. Le 2 come apice del sogno. Alzandosi si sentì improvvisamente svuotato, era ora in un luogo remoto e inaccessibile. Dalla radio usciva un urlo di tromba, un vecchio jazz crepitante nella vita. Affrettò i suoi movimenti e improvvisamente risoluto abbandonò il cortile dirigendosi verso il suo luogo remoto. La strada era assolata, desolata e devastante. I suoi passi rimbombavano nell’ora del grande sonno. Doveva proseguire dritto. Costeggiava file di pini marittimi e arbusti che si stagliavano nel sole, staccandosi dalla luce indefinita che comunque li inondava, rendendo i loro contorni netti e definiti e riportando l’uomo alla realtà, ai passi sgocciolanti nel cemento. Ancora continuava. In fondo alla strada che conosceva bene, la scogliera fiancheggiata da larghi e sottili scalini di pietra chiara. La raggiunse a testa alta, il mento proteso in alto e le spalle dritte, a sottolineare la sua inaffossabile sicurezza. La speranza non poteva descrivere il suo prossimo atto, quello finale, che toglie l’uomo alla speranza per riconsegnarlo a Dio.

I suoi passi erano affilati e decisi. La scogliera appariva ancora più alta e frastagliata in quel giorno di assurdo infinito. Come l’elemento stridente in un insieme altrimenti perfetto, veniva vista come un rifugio da chi aveva vissuto troppo alle luce del mondo. Ci salì: da lì vedeva il mare in tutta la sua grandezza. Vedeva il mare e l’odiava. A lato della scogliera, protetti da una balaustra logora, gli scalini scendevano ripidi e sfacciati. Li osservò e tornò a guardare il mare. Un brivido freddo gli invase il corpo, attraversò tutti i suoi muscoli, scandagliando le sue arterie fragili e gelate. Le gambe cominciarono a tremare, costringendolo a un passo indietro disperato, un frammento di roccia rotolò disgregandosi sul primo scalino. I riflessi caldi descrivevano le pieghe del mare in movimento. Ora ondeggiava pericolosamente, la testa da un’altra parte, forse sulla terra, forse sul primo gradino. Ripensò alla vecchia strega. Un urlo vuoto rimbombò nel nulla. La sua bocca era contratta in una smorfia orrenda, un ovale di terrore bloccato dalla massa di pensieri che affollavano le corde vocali, fissandole in una tensione innaturale. L’urlò cessò e l’uomo cadde violentemente sul primo gradino.

Rimase rannicchiato per diversi minuti, come un uomo nell’ultima preghiera. La camicia sottile si era attaccata alla pelle fredda e appiccicosa, nel viso il sudore si mischiava con le lacrime che il sole non asciugava. La realtà era tutt’altra cosa, era uscita da lui e aveva abitato il mare che lo giudicava dal basso. Il cielo insignificante, sempre uguale, sorvegliava. Con un improvviso movimento si alzò in piedi, quasi violentemente. Le vene pulsanti e ingrossate agitavano il corpo in una convulsione controllata, pronta all’azione. Un rivolo di vento attraversò gli arbusti alle sue spalle, sulla strada, disperdendo nell’aria un odore secco di estate. Risalì sulla scogliera e ne scese. I gradini erano tanti, guardò verso il fondo, verso la spiaggia dove sarebbe sceso inerme tra pochi secondi; deserta aveva la morte in ogni singolo granello di sabbia dura. La sua immobilità gli fece perdere l’equilibrio e involontariamente la gamba destra precipitò sul secondo gradino, seguita dalla sinistra che scivolò a ristabilire un ordine. La scogliera era più lontana, pochi metri che ormai erano compiuti. Il terzo gradino, spaventoso, di nuovo un urlo più breve, più definito e vicino a lui. La realtà si avvicinava. L’uomo raggiunse il quarto gradino: la sua sconfitta. Il quinto: un incubo reale. Il sesto, il settimo, l’ottavo e si mise a correre.

Boccheggiando, arrivò sulla spiaggia. Il mondo era tutto lì. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Il mare era a pochi passi.

 

di Pietro Anzani

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