Dalla sussistenza alla catastrofe

C'è necessità di un sistema dove ogni Stato rinunci al miraggio di una crescita infinita per perseguire, invece, una situazione di benessere stazionario

L’ egoismo umano non è più come quello, “naturalmente a-morale”, degli animali ma è oramai inquinato da sovrastrutture mentali. Il suo modo di essere messo in atto spinge ad un agire che implica scelte spesso tutt’altro che oneste, oltreché costruite su presupposti ideologici di pura apparenza, che non prendono in alcuna considerazione quali, alla lunga, possano esserne le conseguenze. Nel mondo della globalizzazione le singole economie non possono più essere intese come entità separate ed indipendenti e se non si vuole andare in contro ad una inevitabile catastrofe occorre elaborare, sin da oggi, un sistema dove ogni Stato rinunci al miraggio di una propria crescita infinita per perseguire, invece, una situazione di benessere stazionario diffuso.

 

Le prime strutture comunitarie degli ominidi erano molto elementari e non dovevano differire troppo da quelle degli altri esseri animati: la sussistenza era fondata unicamente su ciò che riuscivano a procacciarsi di volta in volta con la caccia o la rapina e i rapporti di scambio erano basati sul valore d’uso.

È stato solo in seguito che, dopo essere transitati attraverso strutture più organizzate e di fronte al mistero della vita e al dramma della morte, che gli esseri umani hanno iniziato a cercare una ragione al loro esistere ed ad ipotizzare una vita dopo la morte.

Quando per motivi puramente utilitaristici è stata “scoperta” l’agricoltura, di fronte a loro si è dischiusa una percezione del “tempo” che andava oltre la constatazione dell’alternasi del giorno e della notte e poneva problematiche che investivano la questione di come assicurarsi la sopravvivenza anche nei periodi di difficoltà. Tuttavia, nonostante questo “progresso cognitivo”, per lungo tempo le strutture sociali sono restate comunque chiuse e al limite della autosufficienza e le eventuali crisi di sostentamento venivano risolte con guerre o “sperando” in una pestilenza che riequilibrasse l’eventuale scompenso tra produzione di beni e quantità di popolazione.  Facendo un brevissimo riassunto del lungo processo di evoluzione delle strutture comunitarie, potremmo dire che con il perfezionamento dei mezzi di produzione e la parallela instaurazione della divisione in classi, che con terminologia attuale potremmo definire più propriamente sociali, i problemi inerenti la stretta sussistenza hanno iniziato ad essere risolti, sebbene in modo parziale e squilibrato.  La produzione agricola e i pochi manufatti venivano impiegati per soddisfare i bisogni personali o per assolvere ad “obblighi” parentali e sociali e per quanto riguarda la risibile parte eccedente, veniva accantonata solo in minima parte come scorta, la maggior parte di essa era “bruciata” dalle classi dominanti per ottenere prestigio e mettere in risalto il proprio potere.  Era un modello di società non dinamico che in seguito sarà duramente criticato dai teorici del liberismo i quali, individuando le cause del mancato benessere diffuso nell’assenza della concorrenza e del reinvestimento delle eccedenze, ne denunciarono i limiti.

 

Si potrebbe obiettare che sia improprio affermare che lo spreco del sovrappiù non rappresentasse a suo modo una sorta di investimento produttivo in quanto non solo contribuiva a dare fama e stabilità al sistema politico, ma che fu proprio a seguito di quel dispendio di capitali in futilità se poterono formarsi quelle attività commerciali e produttive che, di li a poco, daranno origine ad una nuova classe sociale, la borghesia che, in seguito, conscia del proprio ruolo nel processo di crescita economica reclamerà un maggiore coinvolgimento nella gestione del potere, tanto che, per contenerla, i detentori effettivi del potere politico (regnanti, nobiltà e clero) cercarono, inutilmente, di contrastarla appellandosi a presupposte condanne di carattere etico desunte dal credo religioso (“il denaro è sterco di Satana” e “solo la rendita derivante dalla proprietà terriera e immobiliare è santa“), per poi essere costretti ad accettare e soddisfare quella richiesta con concessioni di vario genere.

A partire da quel momento il produrre beni, attività che per lungo tempo aveva mirato solo al soddisfacimento dei bisogni “reali”, per alcuni si trasformò in una ricerca spasmodica di un surplus crescente, un modo di operare che non tollerava, e non tollera tutt’ora, interruzioni o limiti di sorta perché, se ciò dovesse accadere, significherebbe mettere in dubbio il sistema stesso. A partire da quel momento l’homo oeconomicus di un tempo si è tramutato in un “funzionario” di una legge quasi trascendentale che non si pone la domanda se quanto venga prodotto sia realmente necessario, ma che, partendo dal presupposto che l’offerta creerà di certo la domanda, opera inseguendo solamente il proprio utile.

Alla base di questo “credo”, che non ha nulla di etico o naturale, troviamo un concetto di libertà individuale irrinunciabile che non conosce limiti e restrizioni e che, per assolversi dal punto di vista morale, sostiene che, grazie alla concorrenza e al libero mercato, tutto prima o poi finirà per autoregolarsi e che grazie all’incontro domanda offerta i prezzi, seppure con oscillazioni continue e qualche piccola imperfezione, troveranno punti di equilibrio soddisfacenti per tutti.. in pratica una ipotetica normalizzazione dei rapporti economici tra le persone.

 

Poco alla volta, la moneta, da strumento nato inizialmente per facilitare gli scambi e gli investimenti produttivi, si è tramutata a sua volta in una merce avente il compito di produrre se stessa. La figura dell’imprenditore delle origini, colui che, stando alla definizione che ne ha dato a suo tempo J. A. Schumpeter, era uno “spinto creativo”, dotato di una inclinazione particolare che per fini puramente egoistici e personali coniugava l’incontro tra ricchezza personale, materia prima e forza lavoro, e dava origine alla produzione delle merci, è stata sostituita dalla istituzione di enti impersonali (le società per azioni) che contemplano l’utilizzo di capitali diffusi, innestando così, di fatto, una separazione tra proprietà e gestione dell’azienda e perseguono fini puramente monetari. Da questa mutazione è sorta l’attuale fumosa figura del manager d’impresa, un personaggio che spesso sa ben poco o nulla della storia dell’impresa che conduce, che non ha alcun vero interesse per il settore in cui opera né persegue “un sogno”, ma  è un esperto finanziario che deve rendere conto del proprio operato non al consumatore, ma agli azionisti dell’impresa cui interessa solamente la quotazione del titolo, una politica che spesso si traduce in pianificazioni di attività a breve respiro che, come riscontro, hanno un mercato in cui non si scambiano più prodotti, ma titoli e, spesso, in base a previsioni non di rado indotte e fittizie.

La vita economica dei paesi non avviene più sul mercato dei beni, ma nelle Borse.

J. M. Keynes in un passato non troppo lontano ha sostenuto che la Borsa dovrebbe essere considerata un luogo altamente immorale non solo perché ha introdotto nella vita reale le ambizioni economiche di pochi singoli che sono pronti, per il proprio tornaconto, a passare sopra ogni remora e a mettere in atto ogni forma di manomissione ed imbroglio, ma, anche, per aver immesso nell’economia le logiche del gioco d’azzardo che, il più delle volte, penalizza il piccolo risparmiatore e il sistema produttivo stesso, una condanna che oggi andrebbe presa in maggior considerazione, visto che con le nuove tecnologie informatiche è possibile spostare con facilità ingenti quantità di denaro ad una velocità inimmaginabile e, spesso, eludendo ogni sorta di tracciabilità.

 

È in base alla convinzione che lo sviluppo esponenziale e la concorrenza senza limiti siano la situazione ottimale per giungere alla istituzione di una società globale opulenta e felice se, ancora oggi, in alcuni settori viene sostenuto che il divario esistente tra i paesi industrializzati e quelli del Terzo mondo sarà superato solamente quando quest’ultimi si saranno allineati al modello di vita e produttivo dei paesi più avanzati.  Se da un certo punto di vista questa tesi può essere condivisa, tuttavia, va attuato con cognizione di causa poiché se sarà applicata senza un limite porterà alla catastrofe.

Infatti, partendo dal presupposto che nel Terzo mondo abbiano avuto fine i vari sistemi politici dittatoriali, spesso di carattere teocratico, e ammesso che i mezzi di produzione abbiano raggiunto ovunque lo stesso livello tecnologico, potremmo affermare in tutta tranquillità che sia stata raggiunta la stabilità e che la fame sul pianeta sia stata per sempre debellata? Non credo. A parte il fatto che ci si potrebbe domandare se sia veramente un indicatore di progresso e sviluppo l’eventualità che vengano immessi su tutti i mercati i beni non necessari che oggi intasano gli scaffali dei nostri negozi e che si accumulano nelle discariche, significherà solamente che, a causa delle stessa tecnologia diffusa, da un lato sarà aumentata la disoccupazione e, dall’altro, che si produrrà una quantità di prodotti di molto superiore a quanto possa essere realmente consumato, il che vorrà dire che, in breve tempo, si andrà incontro ad un fenomeno di sovrapproduzione generalizzata per risolvere il quale, tuttavia, non è auspicabile neppure un aumento della popolazione della terra, visto che allo stato attuale è già stato raggiunto un livello di esseri umani al limite della sopportabilità.

 

Per secoli si è sostenuto che la ricchezza e il benessere di uno stato o di una persona dipendesse dalla scarsità o abbondanza dei prodotti e delle risorse.  Se questo poteva essere vero nei periodi storici in cui la capacità produttiva era ridotta e la possibilità di rintracciare risorse ed energia era pressoché nulla, oggi non è più così. È vero che rispetto ai nostri antenati le condizioni di vita sono decisamente migliorate e che la fame non è più un problema, almeno per il mondo occidentale, tuttavia è sempre più diffusa la sensazione che il sistema economico vigente sia giunto ad un livello di criticità e che si viva in una logica che mira solo a riprodurre se stessa, che produciamo beni e servizi solo per percepire un reddito che poi spenderemo nell’acquisto di altri prodotti tecnologicamente più avanzati, senza avere poi tempo di goderne o la possibilità di dedicare maggiore attenzione alla cura di noi stessi.  Già negli anni 30 l’economista statunitense-romeno Georgescu-Roegen affermava: «..dovremmo guarire da quella che chiamo la sindrome circolare del rasoio elettrico, che consiste nel radersi il più velocemente possibile per avere poi più tempo per inventare un rasoio che permetta di radersi ancora più rapidamente».

Oggi per mantenere il livello di comodità raggiunto non solo consumiamo beni ed energia, ma produciamo anche scorie che, per essere riutilizzate o rese innocue, richiedono l’utilizzo sia di capitali aggiuntivi (che sarebbe il danno minore) che di altra energia e materie prime, due elementi che, poiché la Terra è un sistema chiuso e limitato, per le leggi della termodinamica, sono destinate, se non all’esaurimento, a diventare inutilizzabili.  Gli ottimisti sostengono che il sottosuolo nasconda ancora riserve di energia grandissime, forse è vero, ma estrarla sarà sempre più costoso e, comunque, non è illimitata e un giorno si esaurirà.  Neppure la scoperta di nuove fonti di energia (solare, eolica o altre) potrà risolvere completamente il problema visto che, a meno che non si sia optato per un regime prevalentemente agricolo-biologico non intensivo, i materiali utilizzati per costruire gli oggetti e gli strumenti necessari e l’energia tenderanno ad esaurirsi.

Allo stato attuale, grazie alla razionalizzazione dei processi produttivi e alla individuazione di sistemi energetici alternativi, ci sono risorse sufficienti per tutti, tuttavia, se non si passerà ad una gestione più accorta della energia, dei beni e del sistema di produzione, rischiamo ugualmente di scivolare lentamente ed inesorabilmente verso il degrado sociale ed ambientale. Perché sulla terra si possa sopravvivere anche in un futuro non immediato occorre già da ora diminuire in modo sensibile la produzione e il consumo di beni materiali e questo non significa che il degrado sarà arrestato in assoluto, ma che, almeno, sarà rallentato, dando modo così a chi di dovere, di individuare nuovi mondi su cui migrare e ricominciare l’iter.

La soluzione è di mutare globalmente il concetto stesso di esistenza, di non inseguire più un benessere fittizio ed apparente, anche se questo significherà rinunciare a qualche comodità di secondaria importanza cui, ormai, si è fatta l’abitudine.

 

Nel mondo della globalizzazione le singole economie non possono più essere intese come entità separate ed indipendenti e se non si vuole andare in contro ad una inevitabile catastrofe occorre elaborare sin da oggi un sistema dove ogni stato rinunci al miraggio di una propria crescita infinita e si persegua, invece, una situazione di benessere stazionario diffuso. Quello che occorre fare è di sostituire all’ideale della crescita infinita, che un tempo è servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, con una visione più oculata del modus vivendi in cui la produzione e il consumo di beni siano subordinati ad una visione di vita di poco superiore a quello della sopravvivenza, inteso non in senso pauperistico ma epicureo correttamente interpretato.

Va elaborato un sistema economico globalizzato che consenta un’equa distribuzione delle ricchezze della Terra, il cui scopo sia una gestione programmata delle risorse e il controllo razionale del progresso.  Si dovrebbe perseguire una società globale che non corra sempre di più verso l’autodistruzione ma dove le economie industriali più avanzate dovrebbero collaborare con le economie in via di sviluppo per correggere gli squilibri, rinunciando ad una concorrenza che mira solamente al predominio nazionale. È chiaro che anche qualora l’umanità avesse raggiunto questo stato idilliaco di convivenza, nulla potrà essere dato per scontato, che non ci si potrà comportare come se tutto sia stato risolto, la situazione stazionaria tenderà, sempre per effetto delle ineliminabili leggi della termodinamica, a collassare e sarà necessario innovare continuamente e mutare gli stili di vita, senza, tuttavia, dover rinunciare al piacere.. se la nostra comparsa sulla terra è stato un puro accidente, ciò non significa che non si debba cercare di renderlo il più gradevole possibile, anche perché la nostra presenza su questo pianeta è cosa certa e l’esistenza di una “vita” ultraterrena è tutta da dimostrare.

 

Con buona pace per gli ottimismi di un Mandeville o di un Adam Smith, la Storia ha dimostrato che, se è ipotizzabile che in una struttura sociale ristretta e sorretta da un profondo senso dell’etica, l’egoismo personale potrebbe tramutarsi in un vantaggio per tutti ed essere, quindi, a suo modo, altruistico, in un mondo di mercati allargati e non calmierati, il liberismo-capitalismo non può portare alla felicità e al benessere diffusi ma alla catastrofe.

L’egoismo umano non è più come quello degli animali ma inquinato da sovrastrutture mentali e il suo modo di essere messo in atto spinge ad un agire che implica scelte spesso tutt’altro che oneste e costruite su presupposti ideologici di pura apparenza che non prendono in alcuna considerazione quali, alla lunga, possano esserne le conseguenze.

Il lavoro è preso in considerazione solamente se rientra in una attività capace di produrre beni materiali o immateriali che abbiano una veloce ricaduta economica.. perché non prevedere di tramutarlo in una serie di servizi e beni che possano contribuire ad innalzare la qualità della vita?  Oltre a farci star meglio, alcuni di essi sicuramente potrebbero avere anche un riscontro economico e, quindi, rientrare nella logica del libero mercato che tanto piace al pensiero liberista.

Melog

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6 Comments

  • anche una siffatta analisi superficiale dell'economia attuale (senza cioè considerare il signoraggio, ecc..) chiarisce quanto di marcio c'è nel sistema che oggi ci governa!

  • “..dovremmo guarire da quella che chiamo la sindrome circolare del rasoio elettrico, che consiste nel radersi il più velocemente possibile per avere poi più tempo per inventare un rasoio che permetta di radersi ancora più rapidamente”.
    ma vi rendete conto per cosa si muore di fame!!!

  • una razionalizzazione dei processi produttivi con nuove tendenze verso le risorse ecologiche e sostenibili non sono possibili se di pari passo non cambia la consapevolezza e una visione d'insieme dell'intero sistema che ci manovra…

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