Ofelia, 1945

L'ultima intervista di Sterling Morrison [Racconto breve]

Il ragazzo con gli occhiali bussò timidamente alla porta. Chiese balbettando di entrare. Lo feci accomodare sul divano e misi sul fuoco una caffettiera.
«Gradisci una fetta di torta?», gli chiesi.
«No, sono a posto così, grazie signor Morrison», rispose. Mi sedetti al tavolo in salotto, di fronte a lui.
«Possiamo cominciare subito?», domandò.
Acconsentii e accese il registratore.

«Quindi che cosa ha fatto in tutti questi anni, signor Morrison?».
«Sono andato a letto presto».
«Questa è una battuta di un vecchio film. Seriamente, che cosa ha fatto in questi anni?».
«Dicevo davvero. Sono andato a letto presto. Ero capitano di un rimorchiatore».
«E ha visitato tanti posti, signor Morrison?».
«Più o meno tutti e sette i mari».
«Deve aver avuto una vita parecchio avventurosa. Dal palcoscenico agli oceani».
«Oh, di mezzo c’è stata anche una noia mortale».
«Lei è stato il chitarrista dei Velvet Underground, uno dei gruppi più importanti della storia del rock. Non proprio ciò che uno si immagina essere una noia mortale».
«Il secondo chitarrista. E spesso mi facevano suonare il basso. Non mi è mai piaciuto suonare il basso».
«Certo, ma ha suonato con Lou Reed, lavorato con Warhol, una delle menti più brillanti del Novecento, con John Cale, con la bellissima Nico…».
«Oh, sì. Certamente. Anche con Moe. Moe Tucker, sai. La batterista. Te ne stavi dimenticando».
«Ciò che intendevo dire, signor Morrison, è che lei, pur non essendo un musicista di particolare rilevanza, ha vissuto fianco a fianco con alcuni degli artisti più geniali del nostro tempo, delle figure iconiche. È un privilegio non di molti, signor Morrison».
«Lo riconosco. Ma io e Lou, per dirti, ci saremo visti una quindicina di volte in dieci anni. Abbiamo fatto pochissimi concerti. E nel frattempo ho studiato Milton e Coleridge».
«È per questo che dopo lo scioglimento dei Velvet Underground ha deciso di abbandonare il mondo della musica?».
«Ho sempre trovato maggiore conforto nelle parole e nei loro nascondigli, nelle poesie, nell’odore di muffa dei vecchi libri ingialliti. Ho preferito dedicarmi all’insegnamento. Ma ogni cosa volge al termine, prima o poi. E così, quando la vecchiaia me l’ha consentito, ho abbandonato la cattedra. Sono stato il capitano di un rimorchiatore».
«Lei non ha esattamente abbandonato la cattedra, signor Morrison».
«Certamente».
«Fu espulso dall’università con disonore. Lei sa per cosa la sto intervistando, signor Morrison».
«Una volta suonavo in un gruppo famoso. Probabilmente per questo».
«Non esattamente».
«Ehm, si ricorda di Ofelia De Siro, signor Morrison?».
«Sì. Ofelia è morta nel 1945. È annegata nel Tanaro, dalle parti di Clavesana. Dissero che non sopportava più il pianto del figlio. C’era la guerra, la gente aveva fame. Dissero che si lanciò nel fiume».
«No, signor Morrison. Ofelia era una sua alunna, quando insegnava letteratura inglese all’università di Torino».
«Oh».
«Voi due avevate una relazione».

 

Mi ricordavo di Ofelia. Aveva lunghi capelli biondi, che divenivano candidi se bagnati dal sole. Si sedeva in prima fila con le gambe accavallate e passava le lezioni a fissarmi. Non vi era malizia in lei, contrariamente a me. Dapprima cercavo di evitare il suo sguardo, poi non riuscì più a distoglierle gli occhi di dosso. Ma si sa, i mormorii circolano in fretta, e in modo particolare in parrocchia e a scuola. Il rettore lo venne a sapere in fretta. Persi il posto di lavoro. Quando la guardavo in quegli occhi celesti, da cui traboccava tutta la passione del mondo, ogni sentimento, ogni pensiero, era vano. Amavo la sua frivolezza, la sua ingenuità sincera, lo schiocco che faceva con la lingua quando era sovrappensiero. Persi la testa.
«Non potrò più essere il tuo professore», le dicevo.
«Partiremo per i sette mari allora», diceva lei.

 

«Signor Morrison? Signor Morrison, mi sta ascoltando?».
«Sì, mi scusi».
«Lei è il principale indiziato della sua morte».
«Nel 1945 avevo tre anni. Non dica sciocchezze».
«Non so di cosa lei stia parlando, signor Morrison. Mi riferisco alla fu Ofelia De Siro, sua alunna e amante, trovata annegata nella Dora, nel centro di Torino, nel 1985. Della cui morte lei fu il principale indiziato, per quanto le autorità alla fine decretarono che si trattava di un suicidio. Che si era uccisa per il suo amore. E chiusero il caso».
«Non so perché io stia parlando con lei».
«Perché ha accettato di rilasciare un’intervista».
«Pensavo che lei fosse interessato alla mia carriera nei Velvet Underground».
«Signor Morrison, sappiamo entrambi che non si é trattato di un suicidio. E per quanto lei sia stato riconosciuto innocente, rimane l’unico indiziato della sua morte, e quindi il principale, dico bene?».
Non era più timido e gentile come quando era entrato.

 

La rividi nelle foto sui giornali. Con tutti quei giornalisti dappertutto, e i poliziotti che cercavano prove e indizi e le sfioravano i capelli, i capelli della mia piccola Ofelia, i fili d’oro che mi toglievo dalle spalle del cappotto la sera, quando tornavo a casa. L’avevano trovata senza le scarpe, e nelle foto si vedevano i piccoli piedini nudi galleggiare nell’acqua, circondata dalle ninfee.
«Non ti amo», le avevo detto.
«Ami di più tua moglie, vero Sterling?», aveva pianto lei.
«Non c’è cosa illuminata dal sole che io ami più di te. Ma non può funzionare», le dissi.
«Non mentire», rispose tra le lacrime.
«Allora non lo farò».
Ai bordi della Dora il vento le soffiò i biondi capelli per aria.
«Addio amore mio», disse lei, e si alzò dalla panchina.

 

Quando venne Anna, qualche ora più tardi, mi trovò ancora sul divano, mentre fissavo il televisore spento. Il ragazzo se n’era andato.

«Ti hanno di nuovo chiesto di Ofelia, vero?».
«Lo fanno sempre».
«Gli hai raccontato la verità, Sterling?».
«Sì. Gli ho detto che non so nulla della morte di Ofelia. Avevo tre anni. La trovarono affogata nel Tanaro, nel ’45. Aveva ventidue anni. La polizia fascista scrisse che si trattava di suicidio, che non sopportava più i miei pianti di fame. Non ho ucciso io la mia mamma, vero?».
«Non ci pensare, Sterling».

 

di Carlo Massimino

 

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