Il primo ricordo di William

di Trap e altre Alzheimer

«Mi chiamo William Miller Hickman, mio padre è militare dell’esercito americano. Sono nato a Vicenza». Ricordava perfettamente come si era presentato alla classe quel giorno. William era un ragazzo timido e composto. Suo padre si era trasferito nella base statunitense su suolo italiano durante il 2002, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle dell’anno prima che portò al conflitto con l’Afghanistan per rovesciare il governo dei Talebani. William era cresciuto spezzato fra l’America e l’Italia dove era arrivato a soli otto anni. Vicenza gli era sembrata non tanto diversa da Laredo dove durante l’infanzia aveva conosciuto il Texas peggiore. Nella testa aveva ricordi confusi, un forte disturbo della memoria arrivava a cancellargli ogni cosa percepisse: uno schiaffo di suo padre, una carezza di sua madre, un disco di Tupac che tanto amava. A tredici anni non aveva ricordi, la sua mente era un casolare abbandonato in aperta campagna. I medici dicevano che le sinapsi non riuscivano a collegarsi fra di loro, lasciavano una varietà di pensiero sempre aperta. Il dottor Cartiér gli aveva detto che la sua era una forma di Alzheimer giovanile che lo costringeva a un vuoto perenne. Era come se fosse all’ultimo piano di un enorme grattacielo e potesse guardare solo verso l’infinito perdendosi tutto il resto. Ecco, aveva usato proprio questa immagine. Quel vuoto di ricordi gli conferiva una visione d’insieme momentanea che svaniva nella realtà del quotidiano. E fu così che abbandonò la scuola in terza media. Con un problema del genere lo studio era veramente un’attività fuoriluogo per lui. Si chiuse in un silenzio eroico, consapevole della sua inadeguatezza alla vita. William, il ragazzo italo-americano di Vicenza, passava le sue giornate senza passarle. Tutto accadeva per la prima volta nella sua testa bacata. Era costretto a una forma di reiterazione ossessiva del presente che lo emozionava sempre in egual maniera. Se alcuni cadono in depressione per noia, lui sarebbe forse potuto cadere in depressione per nausea del nuovo. E fu con grande eccitazione che passò ben due anni della sua precaria esistenza. Ogni gesto, ogni parola, ogni emozione rappresentava una nuova nascita e continua rinascita.

Nel 2009, quando l’attentato alle Torri Gemelle era ormai lontano e Obama era pronto ad avviare un ciclo nuovo per gli Stati Uniti, l’instabilità memoriale di William si fece produttiva al massimo. Era l’anno dell’esplosione della virtualità Social in ogni sua forma, il vero anno primo di Facebook, che veniva utilizzato dagli utenti di mezzo mondo per defecare su Internet banalità e pensieri sconnessi. Per la prima volta William, il ragazzo italo americano senza memoria, trovò un senso alla sua vita. Si lanciò con furore nell’agone immateriale costruito da Mark Zuckerberg e aprì una Pagina dandogli il primo nome che gli passò per la testa: SUGO. La descrizione diceva: “Io sono metà americano, mio padre è un soldato, mia madre è pugliese, di Brindisi” poi proseguiva: “Poi mio padre è stato trasferito a Vicenza e sono nato”. Se i testi pubblicati sulla piattaforma non avevano coerenza, le frasi di William erano ancora più assurde e negli anni finirono per ispirare tanta di quella ironia odierna che tanto amano citare e declamare gli utenti più esperti e cinici del web. Ogni giorno pubblicava frasi surreali come: “Non hai capito il messaggio”, “Ogni giorno faccio festa come fosse il primo maggio”, “Fare sta roba non ha prezzo”, “Hai riconosciuto il sugo e lo apprezzo”, “Sugo, sugo lo senti che gocciolo sugo”. Nessuno riusciva a stare al suo passo e quella Pagina, con una grafica monca ed esteticamente non curata, divenne virale facendo migliaia di condivisioni. I suoi pensieri glabri erano una ventata d’aria fresca per il Social italiano. Vittorio Sgarbi, noto intellettuale da salotto televisivo, in un’intervista a Dagospia, commentò così le attività del nostro William su Internet: «I grandi artisti sono grandi invalidi». Nell’epoca dell’eterno presente, della memoria a breve termine, la Pagina SUGO era un’eccellenza tutta italiana. E fu così che nel 2016, con l’avvento di Trump e dei populismi, quando la parola cominciava a perdere ogni radice col significato diventando puro suono e significante, William decise di mettere in musica i suoi versi dettati da quella che i medici chiamavano Alzheimer giovanile.

Li conobbe una sera di novembre i cattivi ragazzi romani della Dark Polo Gang. Fuori c’era un sole spettrale. Quello più alto, Wayne, aveva una bizzarra dentiera d’argento. Farneticava che il modo di scrivere di William era la Wave, era la poesia contemporanea da dare in pasto al nuovo pubblico, disinteressato al messaggio e indagatore solo dell’estetica. Il Trap aveva monopolizzato la musica di tutto il mondo, ovunque le canzoni appartenenti a tale genere erano prime in classifica di ascolti. L’irriverenza dei testi trappisti ben si sposava con le sconnessioni di William. Lui era in estasi, le sue sinapsi cominciavano ad agitarsi flebilmente nella sua testa e gli procuravano un dolore sano che non sapeva spiegare. Per la prima volta sentì di star facendo qualcosa di importante. Questa tenera emozione si impresse nella sua memoria per circa due giorni. In studio mise a posto i suoi testi, raccogliendoli dalla Pagina SUGO. Era tutt’uno con lo schermo, costretto dalla natura a non poter ricordare nulla, aveva delegato tutto alla macchina.

La sera dell’11 settembre 2018 salì sul palco per la prima volta. L’hype conferitogli in quegli anni dalla Pagina Facebook era forte. Il parterre era pieno di gente. Il suo manager aveva cercato, di fronte alle telecamere, una giustificazione possibile a quella parola, Sugo, ovunque ricorrente nei suoi testi: «Può essere presa come vuoi. C’ho il sugo in tasca vuol dire che puoi avere l’erba così come i soldi. Può essere quello che vuoi. Il sugo è lo swag. Il sugo siamo noi». Appena si presentò sul palco la gente cominciò a intonare i suoi brani messi su in poco meno di un mese. William aveva già tre dischi pronti. Tutti identici, aveva solo cambiato posto alle parole nelle canzoni. Per lui fu un’emozione fortissima vedere tutta quella gente conoscere a memoria tutte le frasi scritte sul momento, frasi spezzate che a stento riusciva a ricordare. Lasciava il dj e la base correre da soli, urlava “TUTTI” e poi ci infilava un sugo nel di dentro per ovviare al suo problema di Alzhaimer. L’adrenalina era così forte che sudava come un toro, si scaldava, reiterava lo stesso gesto cinque o sei volte. A un certo punto ripropose lo stesso brano tre volte, non ricordando di averlo già messo su altre tre volte. Sentiva di non reggere il palco quando i riflettori lo accecarono. Cadde a terra ma per ovviare la tensione si gettò sul pubblico in stagediving. Sentiva tutte quelle mani sorreggerlo, tutte quelle voci ripetere i suoi ricordi estemporanei sempre freschi e nuovi. Una fan provò a baciarlo sulle labbra. Un altro ancora cominciò a piangere alla sua vista da vicino. L’emozione fu fortissima. William sentiva il calore, o meglio il sugo dei suoi fan, fargli da sottofondo. Non era mai stato così felice, tutte quelle mani ridevano dei suoi problemi di un tempo. Lo stagediving durò così a lungo che quasi perse i sensi durante il tragitto. Tornato sul palco, una sfera faceva perno sulla sua testa. Cominciò a cantare tutti i suoi pezzi a memoria. Per dirla in breve, fece il panico. Finita la serata si recò presso il primo tatuatore della zona. Su una guancia si fece incidere SUGO, dall’altra 11 settembre.

Il giorno dopo ricadde nell’Alzheimer e cominciò di nuovo a non ricordare più nulla. Una cosa però la ricordava. La sera prima aveva fatto qualcosa di grosso, le due parole sul suo volto gli riportavano alla flebile memoria che quel concerto c’era stato. Il dottor Cartiér a questo punto coniò un altro termine che sarebbe poi diventato famoso per definire i disturbi della generazione Z: “Starsystem Alzheimer”. William ricordava solo i momenti di grande visibilità e popolarità. Da lì in avanti, con il dominio dei Social sempre più perversi e pervasivi, in molti avrebbero accusato quel disturbo.

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Domenico Porfido

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