L’alba degli dei

Breve romanzo di fantascienza di Giovanni Gaeta

(Part. 1)

«Niente da fare, non parte». Non era rassegnazione, solo una constatazione oggettiva. Andava alla deriva nello spazio ignoto. Entrambi i reattori erano fuori uso e l’autoriparazione tramite nanomacchine avrebbe impiegato circa un’ora per ripristinare le funzioni necessarie all’ipersalto. Il che non sarebbe stato un gran problema se solo la riserva di ossigeno non fosse stata compromessa nello scontro con l’abbordatore Soog.

«Quanto tempo mi rimane?» chiese Jag al computer di bordo. La risposta asettica della macchina non si fece attendere: «Tempo limite stimato in 52 minuti e 15secondi». «Per il rotto della cuffia», sospirò, attivando il trasmettitore di emergenza e ripassando mentalmente il messaggio di sos da inviare. La zona in cui si trovava era stata dichiarata off limits per tutte le astronavi civili o che non avevano l’approvazione dell’Impero Zardariano e lui, seeker indipendente, non ce l’aveva. Quindi era davvero il caso di fornire una versione credibile nella quale non sembrasse uno che aveva violato volontariamente uno spazio interdetto da un decreto imperiale, cosa che lui aveva già fatto in passato più di una volta. Gli era sempre andata bene, non era schedato, ma le pene per la violazione dei settori protetti potevano andare dalla confisca della licenza di volo fino alla detenzione per cinque anni nella colonia penale di Straal.

Proprio quando stava per inoltrare la richiesta alla Squadra Recupero, Jag si rese conto che nessuna storia, per quanto ben elaborata, poteva giustificare il fatto di trovarsi proprio in quel sistema solare, neanche un attacco da parte di un nemico dichiarato dell’Impero come i Soog. Che poi non sarebbe stata neanche una bugia, visto che il tentativo di abbordaggio c’era stato davvero. Ma se l’era andata a cercare: violare gli spazi interdetti è il modo migliore per imbattersi in tutti i peggiori bastardi della Galassia, dai Soog ai Dissidenti, fino ai blasfemi Gnorg. Anzi gli era andata bene, perché un singolo abbordatore Soog, tra l’altro un piccolo Rat, l’aveva messo in conto. Quello che non aveva calcolato era l’abilità del pilota: i Soog, come ci si dovrebbe aspettare da pirati dello spazio, mostravano doti eccezionali alla cloche e le loro navi, veloci e maneggevoli, li rendevano avversari temibili, dai quali era molto problematico sfuggire se ti attaccavano in gruppo. Gli ingegneri dell’Impero col tempo erano riusciti a far fronte alla superiorità nella manovra dei predatori, soprattutto grazie all’utilizzo nelle paratie esterne del mahol, un minerale dalla formidabile capacità di resistere ai colpi di laser. Le navi imperiali, che già erano meglio armate, divennero di gran lunga più resistenti e le vittime della pirateria diminuirono drasticamente. I Soog dopo l’introduzione del mahol subirono perdite considerevoli e vennero scacciati fino ai margini dell’Impero, oltre Antares, e negli spazi interdetti, in particolare quelli di recente assegnazione.

Ora che la situazione era tranquilla (a parte il piccolo particolare che stava lentamente soffocando), Jag analizzò nella sua mente le decisioni prese durante lo scontro con il Rat pirata, un’abitudine cheaveva preso quando era ancora un ufficiale decorato. Non serviva a niente, ma in qualche modo doveva passare il tempo.

Il Soog che aveva attaccato Jag non era stato bravo. Era stato un fenomeno. Prima di mandare alla malora tutto, negli gli ultimi dieci anni Jag aveva prestato servizio nelle Meteore, i piloti d’élite della Flotta Imperiale, che potevano vantare una kill average di 5 a 1. Quella di Jag arrivava addirittura a 7 a 1, un vero cecchino dello spazio. Le sue abilità gli erano valse un posto d’onore nell’ultimo atto della guerra civile, dove le Meteore avevano spianato la strada alla caduta di Gordell, l’ultimo baluardo dei ribelli della Nobile Dissidenza. I vent’anni di servizio nella Flotta, di cui la metà come Meteora, gli erano valsi un paio di medaglie al merito, nonché il grado di capitano. Dopo la caduta della Dissidenza, Jag aveva cercato un incarico più tranquillo e si era fatto assegnare al pattugliamento della Fascia di Kell, dove i predoni spaziali stavano iniziando a prendersi troppe libertà. Benché non esente da rischi, si trattava alla fine di un lavoro di routine: presidiare una zona in lungo e in largo e qualche volta fare da scorta. La sua carriera da Meteora era stata più che soddisfacente, ma ne aveva abbastanza di battaglie nello spazio. Quindi, senza neanche troppa malinconia per i tempi andati, aveva presentato le dimissioni e tanti saluti. L’idea era quella di fare ciò che il servizio nell’Aeronautica della Flotta Imperiale gli aveva sempre impedito, cioè esplorare lo spazio senza l’assillo di fare saltare in aria le cose. Ne aveva visti tanti di pianeti e sistemi stellari, ma quando hai un nemico in coda che intende trasformarti in concime spaziale non puoi certo goderti il panorama. La scelta di diventare un seeker, un ricercatore dello spazio, rappresentò una scelta appropriata e sempre per questa esigenza di libertà, Jag si rifiutò categoricamente di entrare in una delle corporazioni mercantili. Scelse di intraprendere la strada dell’esploratore solitario e si comprò una nave, che risistemò personalmente e battezzò Solitudine, tanto per rendere chiaro quale sarebbe stato il suo stile di vita. Nonostante le decine di battaglie sostenute, mai aveva temuto di morire come qualche minuto prima. Certo il suo Scouter da seeker non possedeva l’armamento di un Talon imperiale, ma non si poteva certo dire che si trattava di un bersaglio facile: i propulsori, ad esempio, offrivano prestazioni simili a quelli di un caccia intercettore. Il punto debole stava nella resistenza dello scafo: il mahol costava parecchio e non era facile metterci le mani sopra, soprattutto per chi, come Jag, non era affiliato a nessuna corporazione. Quindi, aveva dovuto ripiegare su materiali più a buon mercato, rivestendo di mahol solo la cabina di pilotaggio. Non molto utile, in verità. Per ovviare ad una capacità difensiva limitata, Jag aveva deciso di fare come i Soog: attrezzò la nave per essere veloce e maneggevole, confidando nelle sue riconosciute qualità di pilota e acquistando al mercato nero qualche tecnologia vietata ai civili, come l’occultatore. Il duello con il Soog, quindi, si era svolto quasi ad armi pari. Anzi, forse il predone poteva vantare qualche dispositivo in più e aveva messo fin da subito Jag in una posizione di svantaggio. Sebbene avesse l’occultatore attivato, infatti, l’abbordatore pirata era riuscito a sorprenderlo come un pivello, agganciandolo con La Morsa, la vera arma in più su cui i Rat dei Soog potevano contare. A quel punto la fuga, la prima opzione di Jag e di qualsiasi altro seeker con un po’ di sale in zucca, era di fatto impraticabile. La Morsa sarebbe stata un problema anche con un Talon costruito con i fondi della ricerca bellica, figuriamoci su una nave Scouter armata a spese proprie. Si trattava di una di quelle armi su cui l’Impero ancora non era riuscito a metterci le mani e quindi a studiare una controffensiva. L’esercito e le grandi corporazioni non si dannarono troppo l’anima, dato che potevano permettersi vascelli dalla potenza di fuoco troppo superiore per essere prese di mira e nella merda ci rimasero gli indipendenti. Anzi, questa lacuna difensiva, paradossalmente, finì per favorire i ricchi delle grandi corporazioni, quelli che i Soog volevano realmente depredare, mentre i seeker non affiliati divennero l’unico bersaglio alla portata della pirateria galattica e finirono per diventare una specie in via d’estinzione.

Una volta agganciato dal Rat nemico, Jag si preparò immediatamente allo scontro. Era l’unica cosa da fare: la Morsa impediva la creazione del Portale di Transito e il conseguente ipersalto. Il malcapitato di turno (di solito un indipendente) era costretto a combattere, dato che tentare di fuggire da un Soog determinato e reso ancora più famelico dal sempre minor numero di navi da depredare comportava quasi sempre l’abbordaggio. I Rat dei Soog erano più veloci della maggior parte della navi Zardariane, quindi voltare le terga ad un Soog e sperare di sfuggirgli solo con la propulsione subluminare finiva spesso con un colpo ai motori del fuggitivo. A questo punto, meglio concentrarsi sull’offensiva e vada come deve andare.

I Soog non fanno prigionieri, ma cercano il colpo di precisione, in modo da danneggiare solo i motori e non distruggere il carico. Per un pilota esperto come Jag questo poteva essere un vantaggio non indifferente, perché lui sì che sparava per uccidere. Invece, credendo che la nave fosse celata dall’occultatore, Jag reagì in ritardo di qualche secondo nel compiere la virata, venendo colpito di striscio a prua. Fortunatamente non lo centrò in pieno, così Jag riuscì ad effettuare la manovra evasiva che gli evitò la seconda raffica di laser. Pur con un passato militare, Jag all’inizio fu sconcertato: il Rat aveva mirato alla cabina di pilotaggio, non ai motori come generalmente accade. Colpire la plancia di una nave è un ottimo modo per fermare uno spacecraft senza distruggerlo e al contempo decimare o addirittura eliminare l’equipaggio. È anche più sicuro di un siluro ai motori, perché i reattori più antiquati avrebbero potuto anche esplodere, disintegrando tutto quanto. Colpire la plancia, però, è un impresa: se l’occultatore lo nasconde e riesce a cogliere le vittime di sorpresa, il pirata può anche provare un colpo diretto alla cabina di pilotaggio, ma durante un tallonamento o uno scontro aperto, è quasi impossibile riuscirci, anche per un pilota esperto. Meglio allora colpire i motori: sono più grandi e se si dispone di dardi ionici è possibile bruciare i circuiti dei reattori subluce senza farli saltare, come se ci fosse un sovraccarico. Invece, il Soog che lo attaccava aveva mirato direttamente alla plancia, quindi o era un pivello che sparava a caso o un veterano che sapeva il fatto suo.

Fu il successivo colpo al reattore 2 che fugò qualsiasi dubbio sulle abilità del pilota nemico: il dardo ionico lo centrò in pieno rendendolo immediatamente inutilizzabile. L’assalitore aveva capito dalla prontezza dei riflessi che aveva di fronte uno con cui non era il caso di rischiare colpi di fino e aveva modificato il suo attacco mirando ai motori. Con la capacità di movimento dimezzata, Jag si vide perduto. Ma lo smarrimento durò giusto qualche secondo. Poi la Meteora che era in lui decise di riprendere i comandi dopo un’ingiustificata assenza che era quasi costata la pellaccia. Si svolse tutto in un attimo: Jag, dirottando l’energia dal reattore fuori uso a quello ancora attivo, girò completamente su se stesso, in modo da trovarsi in due secondi faccia a faccia col suo assalitore. Una manovra del genere poteva essere eseguita solo con uno spacecraft dalla manovrabilità più che eccellente e Jag ringraziò se stesso per la scelta di puntare sull’agilità più che sulla potenza (anche se in realtà doveva ringraziare il suo gramo portafoglio). Il Soog non si aspettava né una manovra così disperata, né che la nave potesse girare di 180 gradi così repentinamente, forse perché abituato ad abbordare navi più corazzate. Quando Jag si trovò di fronte il Rat nemico gli scaricò addosso tutta la potenza del cannone a gamma, l’arma a impulsi più potente di cui disponeva la Solitudine (non c’era il tempo per armare i siluri fotonici). «O la va o la spacca». Andò. Il Soog si era avvicinato per finire il lavoro con l’altro motore, credeva di aver chiuso la partita. Jag non dovette neanche perdere secondi preziosi a mirare. Fece fuoco di istinto appena se lo ritrovò di fronte. Per essere stata una mossa disperata, poco ragionata e dettata dall’istinto, ne era uscita una raffica efficace di colpi fin troppo efficace.. Il proiettili gamma spazzarono via la plancia del Rat senza distruggerlo, si limitò a decapitarla. Un colpo eccellente se fosse stato un Soog. «Dovevi restare nel buco bavoso che chiamavi casa!» imprecò ed esultò allo stesso tempo Jag.

La sua felicità durò poco, però: il repentino testa coda e l’eccessiva quantità di energia convogliata avevano danneggiato i canali di flusso del reattore 1. Era vivo, ma alla deriva.

 

 

(Part. 2)

Non potendo fare altro che aspettare, reclinò la poltrona fino a distendersi e attivò la modalità “scenario” della plancia. Per lo meno si sarebbe goduto il panorama, in attesa del ripristino dei motori o della morte. Aprì una lattina di swaarm e volse lo sguardo verso il pianetino che avrebbe potuto fargli fare la svolta della vita, perché il materiale che aveva trovato su quell’asteroide troppo cresciuto sarebbe stato pagato a peso d’oro: più resistente ai laser del mahol, ma cinque volte più leggero, quello strano cristallo brillante e dalla forma singolarmente sfaccettata sarebbe stato il suo lasciapassare per una vita migliore. Il problema era come commercializzare la scoperta. Non poteva riferire la scoperta alla Sezione Ricerca e Sviluppo dell’Impero perché lo aveva trovato su un pianeta interdetto e probabilmente avrebbe avuto problemi anche a fare affari con le corporazioni, generalmente meno rispettose delle zone off limits quando si trattava di profitti. Tuttavia, anche la corporazione con meno scrupoli ci avrebbe pensato due volte, quando si sarebbe venuto a sapere che il materiale in questione proveniva da un pianeta di classe D, cioè un pianeta che ospitava forme di vita primitive in fase di sviluppo avanzato. L’idea era di presentare il cristallo sfaccettato, che Jag aveva battezzato “Luminor”, alle industrie belliche private, capaci di atomizzare una foresta vergine se questo poteva in qualche modo comportare un vantaggio competitivo sui propri rivali. Il rovescio della medaglia consisteva proprio nella loro mancanza di etica (eufemismo): magari si sarebbero fatte accompagnare da Jag fino al pianeta del Luminor e poi gli avrebbero risolto le divergenze economiche con un colpo di laser alla schiena. Così si eliminava anche il pericolo della una fuga di notizie o di una vendita ad un altro concorrente. Tra l’altro non era neanche così sicuro che il governo imperiale gli avrebbe riservato il carcere, visto le straordinarie proprietà del Luminor; magari poteva essere proprio l’Impero a gratificarlo con una montagna di soldi, come l’esploratore solitario che ha trovato il modo di rendere la flotta imperiale più potente che mai.

Riflettere su come vendere la propria scoperta e fantasticare sulla sua futura vita da nababbo allontanò l’ansia sul proprio presente. Le nano macchine riparavano lentamente i danni ai reattori, in linea con i tempi previsti, ma tempi molto risicati che rendevano sempre più esile lo scarto tra ipersalto e soffocamento.

«Stavolta hai fatto proprio una bella cazzata», «Sta zitto, Harv!». «Davvero una gran pensata. Schiattare in una zona interdetta, uccisi da un pezzente rifiuto spaziale, per qualcosa che peraltro neanche eri sicuro di vendere. Complimentoni! Abbiamo lasciato l’esercito proprio per questo». Incalzò con sarcasmo l’eterea voce, all’interno della plancia occupata solo da Jag. «Lo sai anche tu, il minerale che abbiamo trovato ci avrebbe fatto diventare ricchi, Anzi MI avrebbe fatto diventare ricco, visto che tu non esisti» replicò Jag guardandosi attorno. Pur assolutamente certo di essere solo, non poteva fare a meno di girarsi per controllare la situazione. Ogni volta che parlava con Harv, anche se si trovava a milioni di anni luce dalla forma di vita più vicina, doveva sempre controllare che nessuno lo stesse ascoltando e lo prendesse per matto. Anche se in fondo un po’ lo era. «Piano con le offese! Anche se non posso prenderti a calci nel culo per le idiozie che dici, non significa che le suddette idiozie non mi facciano incazzare». Ad Harv non piaceva quando Jag metteva in dubbio la sua esistenza, però sapeva argomentare le sue idee molto bene per essere un amico immaginario: «Secondo te saresti riuscito a piazzare un oggetto dal valore quasi inestimabile, tutto da solo? E a chi, ai privati? All’Impero? Beh, tanti auguri! Quelli piuttosto che darti dei soldi preferiscono gettarti nel cratere di un asteroide e chi s’è visto, s’è visto». «Un rischio che sono disposto a correre per tutti quei soldi» tagliò corto Jag, il quale era ben conscio delle difficoltà, ma non voleva che gli venissero sbattute in faccia. In particolar modo da qualcosa che non esisteva, se non nella sua mente bacata. Tuttavia, Harv, la voce nasale e fastidiosamente acuta che rimbombava nella sua testa, era la presenza più costante nella sua vita, che lo accompagna sin da piccolo. Non che fosse schizofrenico, almeno questo si ripeteva fin da quando ebbe l’età per accorgersi che parlare da solo non era esattamente da persone sane. Harv nasceva dal senso di solitudine che da sempre aveva accompagnato Jag e dall’indole riflessiva dell’ex pilota imperiale: nonostante la grande destrezza alla cloche, la sua mente era sempre piena di dubbi ed esitazioni, sempre messi a tacere al momento dell’azione, ma che ritornavano più insistenti quando le armi venivano riposte e il silenzio si faceva assordante. Era allora che bussavano alla stretta porta della coscienza di Jag tutti i dubbi sul suo operato, presente e futuro. Anzi si poteva senza dubbio affermare che questo amico immaginario troppo cresciuto era stato più utile al capitano che al bambino. Un pilota è molto diverso da qualsiasi altro soldato: quest’ultimo fa parte di un plotone, di un gruppo di cui sente fisicamente la presenza, al quale sente di appartenere e di poter affidare la sua vita; il pilota, nel momento della battaglia, è solo. Non che l’aviazione imperiale mandasse a casaccio i propri piloti, né Jag era privo di amici (anzi). Ma quando sei in volo, che tu stia per agganciare un caccia nemico o tu sia finito sul sistema di puntamento di quest’ultimo, alla fine puoi solo contare su te stesso per cavartela. Era improbabile che un tuo compagno riuscisse a raggiungerti in tempo per salvarti le chiappe e anche se lo avesse voluto probabilmente non lo avrebbe potuto fare, perché in quel caso sarebbe stato lui a diventare un bersaglio. Certo, questo vale nelle battaglie campali, quando lo spazio non sembra neanche più nero a causa dei continui bagliori di laser, plasma e astronavi distrutte. Ma sono proprio questi i momenti che segnano per sempre la vita di un pilota, non le ricognizioni o i voli alle manifestazioni acrobatiche (a cui, peraltro, Jag aveva partecipato per racimolare qualche soldo in più).

Chiuso nella sua cabina di pilotaggio, prima di quello che poteva essere l’ultimo scontro della sua vita, Jag ripassava mentalmente con Harv tutte le procedure e le manovre del piano di battaglia, studiava con lui la linea d’attacco, prima di rimandare a dormire il suo co-pilota immaginario. Tornato da ogni scontro, al momento di distendersi sul letto del suo spoglio alloggio, Harv ritornava a farsi sentire, approvando o criticando, e a Jag, non poteva negarlo, questo confronto tra le mura del suo cranio in qualche modo lo faceva sentire meglio. Lui aveva mille pensieri per la testa, ma non aveva mai avuto il cuore per condividerli con qualcuno di tangibile. E non ci si sente mai così soli come quando si è soli in mezzo a tanta gente. Dopo che Jag lasciò l’esercito per diventare un seeker indipendente, la compagnia di Harv divenne essenziale. Passando di pianeta in pianeta, di quadrante in quadrante, a quel punto sì davvero solo, il briciolo di schizofrenia offerto dal sarcasmo di Harv aveva evitato che Jag cadesse nell’abisso di follia tipico di chi viaggia per lo spazio da solo per troppo tempo. L’unico inconveniente consisteva nella sopravvenuta incapacità di mettergli il bavaglio, cosa che portava Harv ad agitare un po’ troppo spesso (e quasi sempre a sproposito) il proprio ditino di biasimo, se mai la voce mentale di un amico immaginario potesse avesse una mano. A tal proposito, Jag si chiedeva quando sarebbe venuto il momento in cui Harv non si sarebbe limitato a parlargli, ma gli avrebbe fatto un saluto mostrandosi in tutta la sua inesistente presenza. Oramai aveva sempre meno controllo su di lui e già era stata una sorpresa che nello scontro con il Soog non se ne fosse uscito fuori a dar consigli.

«Questa attesa ci sta uccidendo, letteralmente. Se non altro il panorama non è male. Hai visto che bel pianeta? In caso di morte, se non altro, l’ultimo sguardo sarà su una cosa bella. Una cosa bella che ci ha fatto uccidere» riprese Harv, più per farsi notare che per dire effettivamente qualcosa. «Non è colpa del pianeta, è colpa mia. Anzi, non è colpa di nessuno, perché siamo ancora vivi e le nanomacchine ripareranno i motori. Tranquillo non è ancora arrivato il momento della nostra morte». «Morte, hai detto?» rispose la voce nella sua testa. Jag sputò l’ultimo sorso verdognolo della bibita che aveva quasi finito, insieme a quel poco di ottimismo che si era sforzato di mettere nell’ultima frase. La voce che gli aveva parlato era quella di Harv, ma, crepasse in quel momento, chi parlava non era affatto Harv.

 

 

(Part. 3)

Per alcuni secondi, che durarono più di un’intera vita, Jag rimase in silenzio. Immobile e improvvisamente madido di sudore, nella penombra della piccola plancia della Solitudine, il seeker alla deriva riusciva ad ascoltare solo il rimbombante battito del suo cuore terrorizzato. Forse si era immaginato tutto. Anzi probabilmente era così. Lo stress per la precedente battaglia, la carenza di ossigeno e la paura di vagare per sempre nello spazio avevano fatto breccia nella sua psiche, facendogli sentire voci che non esistono, questa volta contro la sua volontà. Ipotesi abbastanza improbabile: era da tanto che non affrontava un combattimento, ma, per la miseria, aveva servito l’Aviazione Imperiale, aveva viaggiato in lungo e in largo e mai una volta era stato preda di un crollo nervoso. La situazione era grave, ma ne aveva viste di peggiori, come nell’Assalto alla Fortezza di Magon, quando si era trovato isolato dalla sua squadriglia, con un reattore fuori uso ed inseguito da due Sterminatori.

«Ok, Harv. Me l’hai fatta. Stavolta mi hai fatto davvero cagare addosso». «Che cosa ti ho fatto?». Questa volta non l’aveva immaginato. Qualcosa gli aveva parlato. Qualcosa che non aveva niente a che vedere con lui. Sicuramente non era il trasmettitore, così come non poteva essere un parto della sua mente. Va bene essere schizofrenici (e lui non lo era), ma immaginarsi le cose che non esistono e non saperle distinguere da ciò che è vero non era affatto il suo caso. Il Delirio del Vuoto non aveva abbattuto la sua sanità mentale: il suo orgoglio, o almeno quello che ne rimaneva dopo gli ultimi tempi segnati da scelte non proprio oculate, gli impediva di prendere in considerazione tale eventualità. Tra l’altro i pazzi non sanno di esserlo e non c’è caso di pazzia più inconsapevole del Delirio del Vuoto, dove la solitudine e il buio dello spazio possono ridisegnare completamente il concetto di realtà. Ma per Jag rimanere se stesso non era importante, era tutto. Più della ricchezza, più della fama, più della sua stessa vita, per lui al primo posto tra le sue priorità si collocava la salvezza del proprio io e della propria personalità. Il timore di non riuscire a distinguere il falso dal vero consisteva in un’eventualità peggiore della morte stessa o di un eterno oblio nello vuoto infinito. Forse anche per questo non si era sposato, né aveva stretto rapporti troppo vincolanti e, alla fine, aveva abbandonato l’Aviazione: tutte queste cose rappresentavano, consciamente o no, una limitazione alle sue possibilità. Con Harv era diverso: non la considerava una vera e propria demenza mentale, quanto piuttosto un modo “particolare” per fare i conti con se stesso, che non inficiava la sua possibilità di compiere inferenze sul mondo e giudicare adeguatamente la realtà. Quindi, più per orgoglio che per pragmatismo, Jag accettò l’idea di stare parlando con una forma di vita sconosciuta, mai incontrata finora, piuttosto che ammettere di essere diventato pazzo.

«Chi sei, tu?» domandò il seeker, cercando di non avere una voce troppo spaventata, troppo aggressiva o troppo stupida. «Io sono qui» fu la laconica risposta dell’Harv che non era Harv. «Partiamo bene» pensò Jag. «Forse nemmeno mi capisce»… «Vuoi andartene?» incalzò la voce. «Rimani». Una richiesta mascherata da ordine perentorio. Questa replica fece trasalire il seeker: sia per la constatazione che l’alieno sapeva leggere la mente e questo, in effetti, se lo poteva anche aspettare. Quello che non si aspettava era l’interesse che il suddetto alieno nutriva nei suoi confronti. Perché voleva che restasse? In un’esistenza segnata dal prendere a cannonate tutto ciò che sembrava sospetto, l’invito a rimanere da parte di una forma di vita “diversa” lo metteva in agitazione. Quali erano le sue intenzioni? Come impedirgli di entrare nella sua mente? Il secondo quesito ebbe presto la sua risposta: non poteva. «Tu hai paura, ma non devi. È da molto che volevo parlare con qualcuno» continuò l’essere invisibile. La voce di Harv aveva assunto un tono rassicurante, una stranezza per il seeker alla deriva, perché il suo co-pilota immaginario era stato puntiglioso, polemico, sarcastico, a volte persino immotivatamente entusiasta, ma mai nella vita la voce di Harv gli aveva parlato in maniera così garbata.

Nel caso servisse un’altra prova che il colloquio non era un parto della sua mente, Jag decise che quella bastava. «Ho viaggiato nel vuoto, da solo e in silenzio. Ho visto saettare migliaia di voi, chiusi in involucri sordi al mio richiamo. Troppo sfuggenti per qualsiasi contatto, troppo ciechi per accorgersi della mia solitudine. Da quando mi sono accorto che ci sono altri oltre a me, avevo visto la fine del mio abisso di disperazione, ma è stata un’illusione. Potevo vedervi, voi no, e non riuscivo a raggiungervi. Avevo saputo che esistevano altre entità oltre a me, incapace di far sentire il mio pianto. Eravate vicini, ma inafferrabili. O forse disinteressati. Mi sono spinto fino alla vista di questo pianeta, dove la vita ha preso il sopravvento sul nulla. Ho chiamato, invocato, urlato per una risposta. Ma non è arrivata. Le bestie che popolano questo mondo non mi capiscono, non so il perché. Poi sei arrivato tu e l’altro simile a te. Dai bagliori della notte cosmica sei rimasto solo tu, disperso e solo quanto me. E tu sei riuscito ad ascoltare il mio lamento». Ascoltando la tristezza dell’entità invisibile, il cuore di Jag smise di battere come un tamburo impazzito: se non altro l’alieno non aveva cattive intenzioni e, dall’accorata confessione di quell’anima sola, sembrava essere disposto a fare di tutto per continuare la conversazione. Cribbio, si trattava di una potenza cosmica capace di viaggiare nel cosmo e di parlare nella mente, magari era pure in grado di aiutarlo nel rimettere in sesto l’astronave. Su questa riflessione, però, gli entusiasmi si spensero subito. Se l’entità era così felice di avere qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere, sarebbe stato improbabile che gli avrebbe fornito prontamente i mezzi per scappare via a gambe levate. Perché Jag, appena le nanomacchine avrebbero rimesso in sesto il sistema di propulsione, avrebbe compiuto l‘ipersalto prima di subito. Questo era certo.

Uno scienziato o un filosofo, forse addirittura un teologo, sarebbero stati entusiasti di avere a che fare con un essere intangibile, anche perché da tanto tempo se ne teorizzava l’esistenza; ma Jag era uno segnato dal pragmatismo militare: trattare con una forza così superiore alle proprie possibilità di difesa era pericoloso, soprattutto quando la forza in questione era miscuglio di trascendenza divina, preoccupazione infantile e solitudine eonica. Un’essenza complessa, dalle paure mortali, ma dalla potenza cosmica: un dio bambino, che potrebbe disintegrarti con i suoi capricci. Mentre rifletteva su come rispondere a quello che poteva essere davvero un dio, Jag si ricordò che l’essere era telepate. Come avrebbe reagito ai pensieri del seeker riguardo alla sua natura? Li avrebbe presi come un insulto? O peggio come un rifiuto? E soprattutto: aveva già capito che il suo interlocutore era privo di difesa? In ogni caso, non poteva rimanere in silenzio. Se l’entità voleva una conversazione, l’avrebbe avuta, iniziando dalle presentazioni.

«Non vado da nessuna parte, anzi sono felice di parlare con… uno come te. Mi chiamo Jag Sodernain. Qual è il tuo nome?», «Nome?», «Sì. Come richiamano gli altri. Quelli della tua specie?», «Io non ho specie, non ce ne sono altri come me. Molte stelle si sono spente da quando ho cominciato il mio viaggio, abbandonando il pozzo oscuro che mi ha generato, per conoscere e comprendere lo scopo della mia esistenza. Da solo. Il silenzio e la solitudine erano i miei compagni, l’unico suono che sentivo era quello dei miei pensieri. La riflessione senza fine che non porta a nulla. Ho assistito alla manifestazione della potenza del cosmo e l’ho fatta mia: dal fulgore dei blazar ai segreti celati oltre i buchi neri. Sospinto dai venti stellari, ho esplorato le regioni più recondite delle nebulose esterne, macchie indefinite ai confini frastagliati dell’universo, danzanti pericolosamente sul baratro infinito. Vivevo per soddisfare la mia curiosità, finché non mi imbattei in un piccolo pianeta, una roccia dispersa nello spazio, diversa da qualsiasi cosa avessi mai visto. Avevo incontrato la vita e da allora tutto cambiò. I minuscoli esserini che si muovevano affannosamente sulla superficie non rappresentavano la potenza della creazione cosmica, ma incarnavano qualcosa di più sconvolgente per me, perché esprimevano volontà. Una supernova può squarciare il buio dello spazio, ma non può decidere quando farlo, né una stella è in grado di scegliere cosa fare della sua scintillante esistenza. Loro, invece, potevano. Avevano poco, però potevano disporre di quel poco come meglio credevano. Per la prima volta mi trovavo di fronte a qualcosa che possedeva come me raziocinio e autocoscienza. Iniziai ad osservare la mia nuova scoperta: non potevano vedermi e questo facilitava la mia osservazione. Non feci nient’altro che guardare, non osai mai parlare con loro. Avevo vinto l’attrazione dei vortici di materia oscuri dalla fame insaziabile, tuttavia, di fronte a loro provai un sentimento nuovo, che ancora non so definire. Soggezione credo, forse paura». Soggezione e paura? Lui? Una forma di vita cosmica al pari di un dio che dimostra timidezza di fronte a chissà quali sfigati del pianeta vattelapesca, nel sistema vattelapesca?

Soggezione e Paura ce l’aveva Jag, nella sua navetta alla deriva. Ancora non aveva capito che razza di creatura fosse, né in effetti si sentiva in grado di farlo. Cioè, non è che intendesse scoprire la base chimica che caratterizzava i vincoli molecolari del suo interlocutore (anche se per ora aveva parlato solo la creatura, ma Jag si era ben guardato solo dal pensarlo). Quello che confondeva il pilota dall’aspettativa di vita inferiore ai 30 minuti consisteva nella personalità dell’altro: stando alle sue parole, doveva essere in grado di poter davvero cambiare il destino di un pianeta o di una stella se ne avesse avuta l’intenzione, senza contare il fatto che, sempre se si dava credito alla sua “biografia”, poteva muoversi dentro e fuori un buco nero come se stesse su un’altalena. Vincere una tale forza d’attrazione era un obiettivo che stava tenendo occupati le teste d’uovo della Divisione Scientifica Imperiale da più di un secolo, senza risultati apprezzabili. Questo se ne usciva affermando che per lui era come andar fuori la sera a farsi una bevuta. Poi, però, appena vedeva per la prima volta qualche creaturina sperduta si faceva prendere dall’emozione.

«Sei un Dio o un disadattato» pensò Jag, forse a voce troppo alta. L’essere sembrò non farci caso e proseguì nel suo racconto, incentrato ovviamente su se stesso. Se voleva fare quattro chiacchiere con qualcuno, era libero di farlo, ma dovrebbe lasciar parlare anche l’altro. Avrebbe dovuto imparare il galateo, ma di certo non sarebbe stato Jag a correggerlo.

«Rimasi in silenzio, ad osservare. Anche quando la meteora distrusse la loro dimora mi limitai ad osservare. Della vita che avevo tanto osservato non era rimasta che polvere, solo allora mi resiconto di essere rimasto nuovamente solo. Non avevo fatto nulla per evitare la distruzione, benché fosse in mio potere. Lo giudicai un altro evento del cosmo e feci come in ogni altro evento a cui avevo assistito: rimasi a guardare e non interferii. In realtà, come mi accorsi dopo aver ripreso il mio vagabondare tra le galassie, era cambiato il mio interesse per l’esistenza. Potenza, armonia, bellezza: i miei interessi di un tempo sembravano così vuoti adesso. Avevo capito il mio grande errore: un’esistenza dedicata alla conoscenza è un’esistenza incompleta, perché sapere non vuol dire provare. La vita di quelle creature mi aveva messo di fronte ciò che io ero realmente: ero un viaggiatore alla scoperta della Conoscenza Suprema, capace di trasformare energia in materia e assoggettare quest’ultima al proprio volere, ma anche un essere solo, che da quando aveva memoria non aveva fatto altro che guardare. Se non li avessi incontrati non avrei mai conosciuto la solitudine. Ma ormai non potevo più tornare indietro».

Un po’ per curiosità, un po’ perché non voleva passare quella che poteva essere la sua ultima conversazione in silenzio, il seeker decise di interrompere la storia dell’entità e parlare direttamente con lui, anche per capire se magari questo essere semi-onnipotente poteva dimostrarsi utile in qualche modo per salvare la pellaccia. «Quindi tu non hai parlato mai con nessuno» esordì mantenendosi a metà tra l’ovvio e il cordiale… «immagino la noia». Forse era stato troppo sarcastico, tentò di aggiustare il tiro: «Voglio dire: da solo per non so quanto tempo e mai nessuno con cui scambiare quattro chiacchiere o anche solo confrontarsi sulle proprie idee. Deve essere stato durissimo. Anch’io sono un solitario, posso capirti». Bene, stabilire un terreno di intesa è una buona mossa, direbbe un mediatore dei conflitti. «Tra l’altro sei anche l’unico della tua specie, è ancora più difficile». Un momento, voleva fare amicizia o farlo suicidare? Ecco cosa succede a restare sempre per lo spazio in compagnia delle voci nella tua testa: che poi non riesci più ad avere a che fare con le persone vere. Benché in questo caso non si trattasse affatto di una persona. «Però devi essere potentissimo. Insomma, nessuno che conosco è in grado di fare quello che puoi fare tu. Anzi, da noi potresti quasi essere considerato un dio». Ora aveva esagerato. Però riuscì a trasformare il soliloquio in un dialogo, benché un dialogo piuttosto rischioso.

 

 

(Part. 4)

«Un dio? Che cos’è un dio?». Ecco, bella domanda, difficile risposta. Fortunatamente, pensò Jag, non aveva a che fare con un sacerdote del culto di Tran, solo con un essere intergalattico che, per quanto semidivino, di religione ne non sapeva nulla. Sebbene non fosse un credente, Jag optò per la linea morbida, ovvero spiegare come una persona normale cosa significa essere un dio, anche perché il suo interlocutore poteva davvero essere Dio, quello vero. In fondo, i testi sacri sono pieni di pellegrini che smarriscono la strada e trovano l’onnipotente. («Ave a te, o Dio! Non è che oltre al cibo, puoi moltiplicarmi anche l’ossigeno già che ci sei?» esulterebbe Harv, se solo fosse presente a quella improbabile conversazione).

«Beh… dunque… un dio è un essere superiore. Può fare tutto quello che desidera: può creare, ad esempio, la luce dalle tenebre… in effetti, Dio avrebbe creato tutto l’universo, pure la vita sui pianeti… cioè le creature che tu stesso hai ammirato». Sembrava un bambino a catechismo e ciò lo faceva sentire uno stupido, ma non è che gli fosse capitato molto spesso di spiegare il concetto di Dio. «Capisco» sussurrò l’entità. Poteva essere pure un dio, ma traspariva troppa tristezza da quella voce, una tristezza fin troppo terrena. «Se un dio è ciò che dici, allora io non lo sono. Non è nelle mie possibilità creare un’altra esistenza. Però sono in grado di fare questo». «Fare questo cos…?».. Neanche il tempo di finire la frase che l’astronave inizio a vibrare tutta. Non fu difficile capire il motivo: dal niente, a centinaia di migliaia di chilometri da Jag, iniziarono ad addensarsi rocce alla deriva e frammenti dispersi di meteorite. Non c’era nulla prima, di questo Jag ne era sicuro e la strumentazione lo confermava. Non aveva detto che era in grado di creare la materia a partire dall’energia? Si stava davvero servendo delle radiazioni cosmiche per “costruire” un asteroide? E non si riteneva un dio?

Intanto la massa rocciosa continuava a crescere e a diventare sempre meno informe, raggiungendo dimensioni ampiamente superiori a quelle di un asteroide. Era molto più simile ai satelliti del pianeta Thereaum, di una sfericità perfetta e di un candore quasi immacolato. L’entità non aveva lasciato nulla al caso, visto che aveva calcolato anche la distanza necessaria affinché l’attrazione gravitazionale del nuovo oggetto celeste non danneggiasse il pianeta vicino, né (cosa ben più importante) sconvolgesse il già precario stato della Solitudine del seeker. Erano passati solo sei minuti e il piccolo pianeta verde-azzurro che doveva fare la fortuna di Jag poteva adesso godere della compagnia di una piccola luna argentea. «Che te ne pare? Era la prima volta che facevo una cosa del genere. Ti piace?» chiese, con un certo orgoglio poco divino l’artefice di quel miracolo stellare. «Altroché!» rispose Jag ancora attaccato alla cloche del suo spacecraft, e sotto shock per quel saggio di divina creazione a cui aveva appena assistito. «Ne sono lieto. E tu sei un dio?». Questa domanda, stranamente, rassicurò il seeker, perché alla prova di potenza faceva seguito una dimostrazione di ingenuità, forse innocenza, sicuramente ignoranza. («Sì, sono un dio nelle freccette» avrebbe ribattuto con una grassa risata Harv. Cavolo come gli mancava adesso).«Io? Ma no! Sono soltanto un…». («Aspetta. È saggio rivelare la tua natura? E se volesse sapere da quale pianeta provieni? Se riuscisse a leggerti la mente e capisse che sei stato un soldato e hai ucciso delle persone? Ma se te lo ha chiesto probabilmente non lo sa davvero. Forse davvero non può leggere completamente i tuoi pensieri»). Interrotto da questo dubbio, oscillante tra la lucidità del pensiero consapevole e la spontaneità ingestibile dell’inconscio, Jag decise di mantenersi sul vago: «Sono un seeker, un esploratore dello spazio, un po’ come te. Io, però, non cerco la conoscenza, almeno non come la intendi tu. Io cerco materiali di valore o fenomeni interessanti. E devo dire che tu sei un fenomeno oltremodo interessante». («Bene, hai dato sufficienti informazioni su di te, pur rimanendo abbastanza evasivo sulle questioni importanti. Il complimento finale, poi, un tocco di classe!» si sarebbe congratulato la sua controparte immaginaria addormentata).

Più di ogni altra cosa doveva sforzarsi di allontanare la mente dai ricordi di quando era un pilota militare: era abbastanza probabile che l’entità non avrebbe gradito parlare con uno che ha distrutto in passato molte vite, vista la tanto affannosa ricerca di qualcuno con cui parlare da parte di essa. E poi gli assassini, anche se in divisa, non riscuotono molto successo. Peccato che pensare a non pensare equivale a pensare. «Tu hai ucciso? Che significa uccidere?». Ecco, fatta la frittata. («E ora come ne esci?». «Nell’unico modo possibile» rispose il Jag “al comando” alla sua parte inconscia che stava tornando a farsi sentire, non senza un pizzico di sollievo da parte del seeker. «Svincolando»). La creatura non sapeva niente sul togliere la vita ad un altro essere vivente (almeno così sembrava) e, a quanto emergeva dalle ultime battute, la sua telepatia non era così invasiva da pervenire ai ricordi, ma riusciva solo a captare i pensieri più in superficie, oltre che agli stati d’animo. Quindi era meglio darsi un certo contegno. Lo aveva fatto centinaia di volte nelle simulazioni degli interrogatori: dunque, controllare il respiro, rallentare il battito, e rendere il tono vocale più calmo possibile. Facile a dirsi, più complesso quando si ha davanti il timer dell’ossigeno sceso a 10 minuti scarsi. Senza contare l’interrogatore spaziale. Quello non era previsto dalle simulazioni.

«Uccidere significa («Non dire “togliere la vita!”») eliminare. Succede a volte quando due creature si incontrano. È una cosa spiacevole, ma necessaria. Si tratta di me o loro. Spesso si tratta di vita o di morte». Aspettò qualche secondo, in attesa della reazione dell’entità, che fosse un’altra domanda, una risposta inorridita o un laser della morte in pieno viso. Poi aggiunse quella che sembrava una frase ad effetto, del tipo che i personaggi dei romanzi, saggi e carismatici, ripetono per dare un senso alle stragi sanguinose che scatenano, nelle quali spesso e volentieri sono i massimi carnefici: «In certi casi bisogna uccidere per non morire». Detta questa perla di saggezza militare, Jag sperò che l’entità non ritenesse questa situazione una di quelle “spara o crepa” di cui aveva appena accennato e non lo folgorasse lì sul posto. La creatura spaziale, invece, fece una domanda piuttosto strana per un essere che si definiva una specie di esploratore dei segreti del cosmo e che aveva creato una luna in pochi minuti solo per impressionarlo: «Che cos’è la morte?». Non si trattava certo di una domanda stupida: tutti, che siano atei o credenti, si interrogano su cosa sia la morte e cosa avverrà dopo il trapasso, ma che la creatura spaziale esprimesse tali dubbi, dopo aver visto nascere e morire una miriade di stelle ed avesse assistito all’estinzione di un’intera civiltà, beh questo sì che era piuttosto singolare. («Non è così strano» sussurrò Jag Inconscio. «Pensaci: sei solo, non conosci nessun altro all’infuori di te stesso e sei immortale. Come faresti a comprendere o anche solo a conoscere il significato della morte»).

Quello che premeva al seeker, oltre alla riserva d’aria giunta ad un’autonomia di soli 7 minuti, era capire se l’entità poteva usare i suoi miracolosi poteri per, ad esempio, convertire l’anidride carbonica in ossigeno o addirittura autogenerarlo. O, perché no, teletrasportarlo nei pressi della stazione di Gore in orbita nei pressi di Betelgeuse. Non era ancora riuscito a chiedere alla creatura se, nella sua infinita potenza, era in grado di fare una di queste cose. Invece, si trovava a spiegare la morte ad un essere che probabilmente non poteva neanche morire, rendendo il tutto ancora più frustrante. In più, l’atmosfera si stava facendo inquietante, quasi opprimente. Se ne era già accorto prima, ma non aveva dato troppo peso alle sue sensazioni, perché pensava fossero normali in una situazione così anormale. Adesso, però, si stava sempre più convincendo che non era soltanto un’impressione, faceva davvero sempre più fatica a pensare. Certo, si trattava quasi sicuramente della mancanza di ossigeno al cervello, ma c’era qualcosa che andava al di là della lenta asfissia a cui il seeker si stava inesorabilmente avvicinando. Se si fosse trattato di una creatura materiale avrebbe detto che a pelle c’era qualcosa che non andava, in questo caso come avrebbe dovuto definire il suo malessere, a neuroni? Sicuramente qualcosa era cambiato dall’inizio dell’incontro con l’essere spaziale, ma non riusciva focalizzare cosa e il fatto che l’essere si servisse della voce di Harv per comunicare telepaticamente con lui rendeva la situazione ancora più estraniante. A Jag venne in mente la sovrapposizione delle onde radio su uno stesso canale, che provarono un’interferenza reciproca e la difficoltà di trasmissione e comprensione del messaggio. Se doveva descrivere lo stato della sua mente, avrebbe detto che qualcuno laggiù stava inviando troppi pensieri e che si rischiava un sovraccarico che avrebbe portato alla perdita di lucidità. Ma non era questo il peggio: ad ogni secondo che passava Jag diventava sempre più convinto che un numero crescente di quegli impulsi elettrici che permettono al suo cervello di pensare non erano voluti dal suo suddetto cervello. Se i pensieri che pensava non erano i suoi, chi pensava i suoi pensieri? La telepatia dell’essere si stava addentrando sempre più nella sua psiche e lo stava hackerando?

«Rispondimi, che cosa vuol dire morire?» La rinnovata domanda dell’entità lo tolse dalle correnti sempre più burrascose del suo inconscio restituendolo alla superficie increspata del pensiero cosciente. Ma doveva rispondere alla domanda. «Morire… significa abbandonare la vita» annaspò il pilota alla deriva e quasi senza ossigeno (solo quattro minuti!). «Cioè… non so come spiegartelo» i pensieri si facevano sempre più confusi «è come lasciare questo piano di esistenza… si tratta…», «Lasciare tutto? Intendi sparire senza lasciare traccia?» domandò l’entità sensibilmente scossa. «Magari qualche traccia la lascia… ma non cambia… non cambia la sostanza… tu non ci sei più… almeno nel mondo che conosci. Come dire… cessi di esistere. Gli abitanti del pianeta distrutto dall’asteroide… boom… tutti morti. Si è spenta la luce». «Io non voglio spegnermi» gridò la voce nella testa di Jag, al quale sembrò che la membrana cerebrale vibrasse come un timpano violentato dall’esplosione di un missile. «Non c’è modo di salvarsi, non c’è un luogo nell’universo nel quale possa trovare scampo. Se esiste lo troverò». La voce si era fatta stridula, come quella di un bambino costretto con la forza ad andare a letto. Jag poteva immaginarselo, lì nel cosmo a battere i piedi invisibili sulla luna che aveva creato: «Non voglio!».

Due minuti a mezzanotte. Non gli piaceva che la sua ultima azione fosse l’aver traumatizzato un altro essere vivente lasciandolo nella disperazione e poi, se voleva chiedere aiuto all’entità (adesso o mai più) come minimo doveva aiutarla a superare l’amara scoperta di una possibile fine. L’esploratore a corto di tempo decise dunque di rassicurare l’entità spaziale, che per la prima volta stava sperimentando la paura dell’oblio. Una paura che Jag, da pilota militare, aveva superato sin da cadetto. «Ascoltami, molti pensano che dopo la morte ci sia un’altra vita… un Aldilà… dove si può vivere per sempre. Però, c’è un altro modo di sopravvivere alla morte, un modo molto più significativo: compiere azioni che non saranno dimenticate e rimanere nel cuore e nella memoria delle persone. Io non so se esiste una vita dopo la morte… ma anche nel caso non ci fosse… lasciare dietro di sé una testimonianza di ciò che siamo stati è qualcosa che prolunga la nostra esistenza anche dopo il suo termine». («Accidenti che sermone, sta a vedere alla fine ho sprecato la tua vita a girovagare nello spazio, quando sarei stato un predicatore eccezionale»). «Quindi, devo lasciare qualcosa di me, in che modo?» chiese l’entità. Jag rispose col cuore e col cervello (quel poco che ancora funzionava): «Trova qualcuno che ti possa voler bene. qualcuno per cui hai significato molto e che non si dimenticherà di te finché vivrà e racconterà la tua storia ad altri che poi la racconteranno al loro volta, finché la tua esistenza verrà tramandata attraverso il tempo. Un tale molto saggio mi disse che questo è il solo modo sicuro per sfuggire all’oblio». Una risposta da soldato, ma anche da romantico. Una risposta profonda, in fin dei conti, per uno come lui. Quasi convincente. Era il momento, ora o mai più. «Ad esempio, se adesso con i tuoi poteri riuscissi a trasportami…» … «Riparazione reattori quantici ultimata. Stand by per ipersalto d’emergenza verso il sistema di Betelgeuse. Destinazione: Presidio di Gore. Procedere?». La voce del computer di bordo, la salvezza insperata. («Posso partire?») «Stand by per ipersalto! Procedere?» … «SÌ, VAI CON L’IPERSALTO! ADESSO!». «Aspetta» supplicò l’essere spaziale, «cosa posso fare per…» … Ma non c’era più nessuno ad ascoltarlo.

 

 

(Part. 5)

Jag non ricordava nulla sul suo recupero. Risvegliatosi in una camera di rianimazione sull’ospedale di Gore, non ci mise molto a recuperare lucidità. I dottori gli riferirono che era stato raccolto da un’unità di Soccorso Taumaturgico, privo di sensi a causa dell’assenza di ossigeno e prossimo all’ictus cerebrale. I taumaturghi inviati di stanza a Gore erano intervenuti tempestivamente, un minuto in più e avrebbe riportato danni neuronali permanenti, quando invece se l’era cavata con un paio di giorni in osservazione. Disteso nel letto della camera 151 C dell’infermeria, Jag rifletteva su quello che adesso lo aspettava. L’intervento dei taumaturghi prevedeva, secondo il protocollo, anche una perquisizione della nave soccorsa e questo avrebbe provocato grossi guai: gli Inquirenti Imperiali si sarebbero sicuramente appropriati del diario di bordo, che Jag non era stato in grado di cancellare perché svenuto. In più avrebbero quasi sicuramente messo le mani sul minerale brillante che aveva rinvenuto sul pianeta azzurro in una Zona Interdetta e, se ciò fosse accaduto, niente lo avrebbe salvato da un lungo interrogatorio e quasi sicuramente dal carcere.

O forse no, magari davvero lo avrebbero promosso seeker imperiale, in virtù dei vecchi tempi, quando aveva l’uniforme dei buoni e sparava ai cattivi. Non si faceva illusioni, ma visto che i dottori non gli dicevano nulla e nessun funzionario imperiale si era fatto vivo, non gli restava che sperare. Si domandava anche se nel diario di bordo avrebbero trovato anche la testimonianza dell’incontro con l’entità cosmica, ma sinceramente non gli interessava molto. In realtà, proprio lo straordinario incontro poteva costituire un elemento che poteva allontanare lo spettro della gattabuia. Forse… chissà… si vedrà. Ora voleva solo dormire.

Prese lo specchio che qualche infermiere aveva lasciato sul mobiletto bianco accanto al giaciglio in cui avrebbe passato le poche ore della sua convalescenza. Lo afferrò solamente con quattro delle sue sette dita, dal momento che le altre tre erano ancora intorpidite. Un effetto della mancata ossigenazione, reversibile avevano detto i medici. Sarà, ma anche la coda non si muoveva a dovere e il verde della sua pelle si era oltremodo impallidito. La sua faccia, poi, faceva davvero schifo: sulla fronte, proprio sopra l’occhio destro, dall’iride più nera del solito, si stagliava un grosso bernoccolo bluastro, segno che quando aveva perso i sensi era caduto di faccia sulla consolle. Fortunatamente non si era scheggiato una delle sue due corna. Posò lo specchio, non ce la faceva a vedersi così stravolto. Prima di scivolare nel silenzio del sonno, comprese perché gli ultimi momenti della conversazione con l’entità lo avevano messo così a disagio. La creatura aveva parlato nella sua testa servendosi della voce di Harv, ma col passare del tempo la stessa voce era mutata: era diventata quella di Jag. Lui che parlava a se stesso. Forse si stava lentamente insinuando oltre il muro del pensiero cosciente e si stava per impadronire dei profondi recessi del suo inconscio, così come si era impadronita di molti oscuri segreti dell’universo. O semplicemente era semplicemente impazzito e si era immaginato tutto, incontro, conversazione e tutto il resto. Comunque stiano le cose, pensare alla strategia difensiva sarà una rogna per il Jag di domani, perché quello di adesso se ne va a nanna. Buona notte a tutti. «Buona notte, ganzo» lo salutò Harv.

Lontano secoli luce da Betelgeuse, un altro sperduto esploratore del cosmo si ritrovava nuovamente solo, in preda ai dubbi e alla paura. Se prima era la solitudine a tormentarlo, adesso era il terrore della fine, una fine che poteva arrivare, a quanto ne sapeva, in qualunque momento. Cosa aveva detto la Creatura-Jag? Doveva fare qualcosa che lasciasse il segno, qualcosa che venisse ricordato? Doveva farsi amare? E come? Lo sguardo gli cadde sul piccolo pianeta davanti a lui. Aveva già provato a comunicare con le creature che lo abitavano, non ricevendo alcuna risposta. Scrutando nella mente della Creatura-Jag si era reso conto dell’abisso che separava quest’ultima dalle creature del pianeta azzurro. La loro mente non era sviluppata e questo rendeva impossibile la connessione psichica, frustrando qualsiasi tentativo di contatto. Tuttavia… Tuttavia esisteva una possibilità. Una remota possibilità. Una cosa che non aveva mai neanche pensato di poter fare. Ma aveva avuto un modello e forse poteva ricrearlo. La Creatura-Jag gli aveva mostrato come era fatta una mente evoluta, una mente paragonabile alla sua, pur molto diversa. Non poteva creare la vita, ma forse poteva svilupparla. No, ci sarebbe riuscito, ne andava della sua sopravvivenza. L’incontro con quel piccolo essere disperso nel cosmo e poi sparito in un improvviso bagliore gli aveva cambiato la prospettiva e gli aveva insegnato nuovi concetti sull’esistenza.

Guardò la luna argentea che aveva creato e il pianeta azzurro a cui essa sarebbe rimasta vincolata per sempre. Continuò a osservare, finché, dopo alcuni secoli, decise che era il momento di agire. Adesso sapeva cosa fare e urlò i suoi propositi a quella che sarebbe diventata la sua dimora: «Scenderò su questo pianeta e ci rimarrò fino a quando le creature che vi si trovano non mi conosceranno. Mi manifesterò a loro come ho fatto con la Creatura-Jag e mostrerò la mia potenza. Diventerò il loro Dio e farò cose grandi davanti a loro, cose memorabili, che mai nessuno potrà uguagliare, né dimenticare. Li trascinerò fuori dall’ignoranza e regalerò loro la conoscenza. Li amerò e loro mi ameranno. Vivrò nei loro cuori e non morirò. Io sopravviverò».

Felice per aver trovato contemporaneamente una nuova sfida e tanti nuovi compagni con cui parlare, scese verso quel mondo ignoto, ancora troppo ottuso per comprenderlo. Ma non per molto.Su uno dei tanti alberi della foresta, in quella zona che nel giro di un paio milioni di anni sarebbestata chiamata Sudafrica, una scimmia era aggrappata ad uno dei rami più alti, presa dai morsi dellafame, ma bloccata dalla paura di imbattersi in qualche predatore. Non pensava a nulla, se non a placare il suo appetito e a non farsi mangiare. La notte era quasi terminata e con la luce del giorno sarebbe potuta finalmente andare alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Questo pensava la scimmia e nient’altro. Aveva notato che qualcosa era cambiato, lassù, nel fiume irraggiungibile dove galleggiano quei piccoli insetti, tanto luminosi ed irraggiungibili. Si era aperto uno squarcio di luce, in quel mare di tenebra: un enorme disco luminoso aveva reso l’oscurità meno buia del solito. Certo, non pensò tutto questo, dopo tutto era solo una scimmia, ma colse il senso del cambiamento. Un nuovo disco bianco nel buio, che rispondeva al disco giallo della luce. Che adesso, dal suo albero, riusciva quasi a scorgere al di là delle montagne.

Era l’alba, le prime luci dell’alba. Finalmente arriva la luce per cercare cibo. Il sole era una presenza costante nella vita di quella piccola creatura pelosa e non aveva mai significato più dell’inizio di un nuovo giorno e delle attività quotidiane: nutrirsi, defecare, accoppiarsi, sfuggire alle bestie carnivore. Le solite cose da scimmia. Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso. Benché avesse una fame enorme, alla vista del il disco rossastro che si innalzava dalla terra verso il cielo ed illuminava tutto ciò che i suoi occhi di scimmia riuscivano a vedere, dimenticò le pressanti richieste del suo stomaco. Davanti al bagliore accecante e al tepore del mattino, la scimmia, invece di scendere si arrampicò ancora più in alto. Arrivata sulla sommità, cercò di fare una cosa totalmente nuova: guardò il cielo che diventava sempre più chiaro, conteso tra la notte che svanisce e il giorno che incalza. Per la prima volta cercò di guardare in faccia l’oggetto di luce. Non ci riuscì e distolse lo sguardo. Fu allora che pensò. «Quella luce non può essere altro che Dio».

di Giovanni Gaeta

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