I Pugilatori – Round III

Racconto in 4 Round...

III Round

Lo speaker è bravo.
Sale sul ring e fomenta il pubblico in sala.
All’angolo blu, e all’angolo rosso…
Avrà cinquant’anni almeno, e lavora come cassiere in un centro commerciale di articoli sportivi.
«Venite da me, non vi faccio pagare».
Sale al centro del quadrato in camicia bianca, e sembrerebbe quasi un cameriere, se non fosse che è su un ring, ed ha un microfono stretto nella sinistra.
Poi fomenta.
Tutti si preparano, si esaltano.
Conosce le parole lui, quelle stregate, che aprono le porte.
E alla fine tocca a noi.
Quello è già sul ring quando salgo.
60 Kg.
Io trascino i miei 58 attraverso le corde, coperti da un accappatoio leggero di colore nero.
L’attrezzatura sotto, bé…quella è un dramma psicologico per l’avversario e una concessione al gentile pubblico.
Bianco.
Dalla testa ai piedi.
Caschetto, canottiera, guantoni, stivaletti e calzoncini. Perfino il paradenti.
Sono il Puro.
L’Immacolato.
58 Kg. di bianco castigo per i peccatori.
Lui 60, tondi tondi.
Mi preoccupo un po’, ma non se ne avvede, abbagliato com’è.
Alla fine degli incontri poi, sembro un macellaio.
E il sangue piace al pubblico.
Gli sale al cervello.
E’ la mia concessione.
Sono l’Agnello di Dio.
Dono a Voi la Pace.
Finito il match, finito ogni match, lo speaker se ne esce sempre con la stessa frase:
«Signori, termina qui. Ora si chiude».
E tutti a casa.
Il pezzo di fica mostra il cartello della prima ripresa, dopodiché striscia sinuosa tra le corde e si dilegua.
E poi è la campana.
Il I Round.
L’ultima cosa che vedo è un signore dritto in piedi, giù in platea.
Ah, già. Le sedie.
Poi sono tutta concentrazione.
Il Cubo ci vuole parlare, e tutto sa di misterioso e interessante.

.
Il Cubo è il capo giù al capanno.
È Il Mister.
Mr. Cubo.
Cosi ci raduniamo li, io e i miei compagni di allenamento: Pachino il nerboluto, un nippo-cagliaritano con tre anni di kick-boxe alle spalle, che lo hanno reso tonico ma coglione, ed un negro di almeno due metri.
Io lo chiamo Amistad.
Il Negro d’Acciaio.
L’Africano Molesto.
«Tra due mesi abbiamo gli incontri…».
«Come una palestra vera?» fa Pachino ridendo.
«Iniziate a fare qualche match. Se vincete passate ad altri, poi si vede…».
«E se perdiamo?» chiedo.
Mr. Cubo neanche mi guarda.
«Andate a rimediare nuova attrezzatura, da domani allenamenti preparatori».
Ah, e mi raccomando le sedie.
E’ un anno che siete qui.
Ne avete raccattate solo 97.

.
Parte di diretto sinistro, ma un diretto molto prevedibile.
Faccio una schivata circolare e gli sono dentro con un montante preciso.
Sono veloce, non mi perdo in pensieri.
Sono la Reazione in carne ed ossa.
Lui si para bene, ed è meglio, è molto meglio che abbia imparato ad incassare.
Perché non ho freni.
Perché gli piovo addosso una grandinata di diretti e ganci.
Avanzo.
Sinistro, passo-sinistro, destro.
Tutti diretti, tutti parati.
Inizia a girarmi intorno per prendere fiato, per prendere tempo.
Io invece lo voglio subito alle corde, lo voglio in trappola.
Diretto sinistro poi destro, montante sinistro e gancio destro.
Un paio di volte lo prendo.
E faccio male.
L’azione va a fuoco, alimentata dalle urla del pubblico.
Ci stringiamo in un abbraccio molesto, un valzer contundente.
Lo spingo indietro e a guardia alta aspetto.
Aspetto che si apra un poco.
Aspetto che mi mostri anche un solo centimetro della sua faccia da cazzo.
E come abbassa un po’ il sinistro gli sono dentro.
Un ottimo diretto destro.
Il sangue arrossa il mio guantone pallido.
Il pubblico urla di gioia.
Suona la campana e torno all’angolo.
Il Cubo annuisce soddisfatto.
«La ripresa è tua, ora fai così…» e parte con una sventagliata di consigli
mentre mi affonda il volto in una spugna zuppa d’acqua.
Strizza forte e il liquido mi inonda la faccia in rivoli come fresche dita esploratrici.
Accenno un occhiolino al pezzo di fica, che percorre il perimetro del ring su gambe fasciate da hot- pants blu elettrico.
Lei sorride.
Lo ha capito chi è il maschio dominante, qui.
Suona la campana e l’atleta di fronte a me sobbalza un attimo.
Perché la campana suona.
Suona per lui.

.
«Si, ma perché bianchi?».
«Sul bianco risalta il rosso. Il rosso del sangue, quello dei miei avversari».
«Tu sei scemo, amico».
«Va bene, che dici, me li passi o no ‘sti cazzo di guantoni?» faccio.
Ed è incredibile.
Lo scaffale sarà di almeno due metri e mezzo, ma ad Amistad basta allungare poco il braccio per arrivare in cima e prendere i guantoni.
Guantoni bianchi.
Arraffo il pacco e lo aggiungo agli altri due che ho in mano.
Guantoni, paradenti e caschetto.
L’Attrezzatura.
È tutto.
Ci avviamo alla cassa, io e questo negro di due metri e dieci per 90 Kg.
almeno.
Fendiamo i reparti tra gli sguardi dei clienti e dei commessi.
Gli sguardi non sono per me, nonostante indossi il solito giacchetto non vecchio. Sono per lo splendido esemplare di essere umano che mi viene dietro. Sono tutti per lui.
Gli uomini lo fissano intensamente, per via credo di una sorta di allarme inconscio dettato dall’istinto di sopravvivenza.
Come i cani.
Le femmine poi…
Il cassiere ci vede e ci fa l’occhiolino.
Ci ha riconosciuti.
Poso i pacchi sul nastro trasportatore, lui li prende e li fa passare senza strofinarli sulla penna ottica.
Niente battuta.
Niente credito o debito.
Gli ricambio l’occhiolino e sono fuori, con il mio africano di compagnia.
Il Negro d’Acciaio.
Lo Spaccaossa Gagliardo.
Amistad.

.
La seconda ripresa vede il mio avversario molto più agguerrito che la precedente.
Me lo aspettavo.
Fa valere tutti i suoi 60 Kg. la faccia da cazzo.
Una faccia pestata, rotta ovunque.
Avanza tosto, cerca il tafferuglio.
Ma io conto il respiro, sono calmo.
Mi invento un incastro di gesti di offesa e difesa, un puzzle scostumato che mi porta sempre più vicino a lui, tassello su tassello, pugno dopo pugno, sempre più vicino.
Ho voglia di esplodergli in volto.
E poi luccico, non c’è un cazzo da fare.
Lui erompe in tre colpi violenti.
Li sento tutti, è vero…però adesso è sbilanciato.
Adesso entro.
Due diretti sinistri di luce bianca.
“Vai verso la luce”.
Un gancio destro e vola sulle corde, intontito.
Il pubblico salta in piedi, idrofobo.
L’arbitro si frappone, parlotta.
1… inizia all’improvviso.
Trasfiguro come fossi un santo.
Il Santo Me.
2, 3…
«È andata» penso mentre alzo le braccia in estasi.
E quella è la cazzata.

.
La rampa di uscita dell’autostrada cinge in una spirale il centro commerciale di articoli sportivi, come il serpente intorno alla mela.
Il resto del paesaggio è pura desolazione.
«Hai visto come ti guardavano tutte? Dev’essere arrivata la stagione in cui vanno in calore» faccio ad Amistad.
Lui annuisce appena.
«Sarà il fascino della Vecchia Africa» continuo.
«Non sono africano, amico».
Intorno a noi il nulla, solo un chiosco di fioraio aperto in quella distesa di prati e sterrato.
Pachino ci aspetta in macchina sulla strada di fronte.
Ha il motore acceso e lampeggia con i fari.
È il segnale.
«Facciamolo ora» dico.
«Vado io?» chiede Amistad.
«E chi cazzo ti rincorrerebbe a te?».
«Ok, vai».
Parto.
Spingo sui muscoli delle cosce finché non li sento bruciare.
Raggiungo la massima velocità proprio di fronte al fioraio stupito, e agguanto al volo un vaso pieno zeppo di rose. Devono essere diversi € di rose, a giudicare da come il fioraio scatta subito.
Divento supersonico.
Sfreccio verso l’imbocco dell’autostrada, e il fioraio mi tiene dietro incazzato nero.
Non mi prenderà, ma ha una buona corsa.
La macchina di Pachino è già in marcia quando Amistad si avvicina al chiosco dei fiori e arraffa due sedie: una in plastica ed una in legno, di quelle che si chiudono a libretto.
98 & 99.
Il fioraio è così furioso da non accorgersi di essere in trappola.
Amistad carica al volo le sedie nel portabagagli, poi entra nella vettura che Pachino a questo punto lancia verso la rampa autostradale, verso di me.
Ora ci tocca di essere perfetti.
Giro su me stesso e lancio in aria il vaso, abbastanza in alto, per dare al fioraio almeno una chance. Una pioggia di rose a gambo lungo gli diluvia addosso. Quando la macchina transita di lato mi fiondo nel finestrino posteriore appositamente lasciato aperto. Colpisco con le ginocchia la parte inferiore della mia via di fuga, sbucciandomele entrambe. Con il volto batto duro sul rialzo tra i poggiapiedi.
Batto sul séparé per piedi.
Mi faccio malissimo, ma sono dentro.
Pachino stavolta correva troppo.
Il coglione.
Il fioraio raccoglie le rose ad una ad una, mentre punta con gli occhi il retro dell’automobile lanciata ormai al massimo.
E vede l’apposita sciarpa blu e rossa a guardia della targa:
FORZA CAGLIARI.
«Ne ho prese due» fa Amistad.
«Ah ah neanche una a testa, ah ah, ora chi lo sente il mister…».
«Pachino vaffanculo, che cazzo ridi…ma vuoi rallentare quando mi fiondo dentro?» ruggisco in sangue.
«Ah ah ah, non posso, ho il piede caldo, hihi…».
«Ma compriamole un paio di sedie, no?».
E cosi ce ne andiamo rombando, con il nostro carico di arredamento di contrabbando.
98, 99…

.
…4, 5…
Anzi, l’arbitro cinque neanche lo dice.
“Boxe”.
Il faccia da cazzo lo vedo subito molto meglio.
Sta benone.
E’ tutt’uno con la sua voglia di colpirmi.
Mi colpirà, glielo leggo negli occhi.
Lo so, mi colpirà.
La corda è una scia fresca che poggia sulla mia schiena.
Inizio a coprirmi, ci siamo.
Chiudete le porte, stasera fa assedio.
Tanto sono gli sgoccioli, ora suona.
«Esci dalle corde, tienilo lontano col sinistro!» grida Mr. Cubo.
Che grida a fare.
Ora suona.
La guardia comincia ad aprirsi, fatico a tenerla su, a tenerla salda.
Fortuna che ora suona.
Suonano tutte prima o poi.
Gancio, gancio, montante e ancora.
Sembra di no, ma poi suonano.
Perdo controllo. I montanti scavano tra i gomiti. Arriva da sotto, vuole il mento.
S.O.S.
Penso a campane in festa. Grappoli di campane sguinzagliate, rotolanti per le valli, mucche, campanacci e Papi morti, clacson, campanelli e biciclette.
Suonate, suonate maledette!
E difatti alla fine suona.
Driiiiin.

.
«Amistad, il tuo incontro si fa il giorno dopo del mio».
Fa scorrere il dito sul calendario.
«Già».
«Posso farti da secondo, africano?».
«D’accordo, amico, ma non sono africano».
«Lo faresti tu a me?».
«Da secondo?».
«Si».
«No».

.
«L’incontro di Amistad è diverso» dice Mr. Cubo.
Il capanno è pronto, come se già tutto stesse accadendo, gli incontri, il pubblico…
E’ tutto li, in attesa.
Le 99 sedie sono disposte tutt’intorno al quadrato, come per prenderlo in agguato. Sono già pronte a fornire la visuale migliore, la miglior angolazione per ogni attacco, pugno o fiotto di sangue.
99.
Tutte diverse.
Alcune in legno, altre in paglia o in metallo o plastica.
2 sgabelli da bar, un trono con soffici cuscini rossi e bordature color oro.
Lì siede Mr. Cubo, alla Vigilia di tutto.
Io sono di lato, su un paglione sfilettato.
La penombra ci avvolge come un alba cupa.
«Che vuol dire diverso?».
«Lui è il numero uno qui. Anche Pachino era bravo. La kick boxe l’aveva intostato, ma anche rincoglionito. Ora che ha deciso di non combattere, Amistad è di certo il numero uno. Anche la palestra avversaria porta il suo numero uno».
Ah, già. I #1.
Il loro è l’incontro clou.
«Hanno osservato i pugili. Gli sembrano in gamba. Ci ho parlato al telefono con gli organizzatori. Ma quelli della palestra avversaria non li ho mai visti. Non li conosco».

.
Non riesco più a fare l’occhiolino al pezzo di fica, che porta in mano un cartello con su stampato 3, ed in volto la stampa di un sorriso.
Ho la faccia gonfia e calda, ma al driin mi alzo e vado.
Il mio avversario rinnova quello che ormai è il nostro appuntamento fisso, e ci incontriamo di nuovo alle corde.
Con me alle corde.
«Esci di li, tienilo lontano col sinistro!!» fa Mr. Cubo.
Colpo di reni e lo faccio retrocedere.
Due diretti sinistri, uno per riguadagnare e l’altro per mantenere la distanza di sicurezza.
Poi comincio.
È solo questione di tornare a brillare.
Serie di ganci per stordirlo e torno subito in posizione.
Paro un colpo al fianco destro ed entro.
Permesso.
Un diretto sinistro ed uno destro.
Rapidi, precisi.
I miei poteri sembrano tornare d’incanto.
Il pubblico ringhia, vuole me, vuole che distrugga questo tipo o che mi distrugga nel tentativo di farlo.
Non ammette altro.
Mi sbilancio e lui mi è sotto, ma non fa niente, non è nulla, ho braccia retrattili che tornano in linea come soldati.
Saltello, gli giro intorno, non gli do punti di riferimento.
È che sono più veloce, è che lascio scie di luce bianca.
Lui lo sa, lui le vede.
E si spaventa.
Già mi ci vedo, farmi strada nella vita a furia di cazzotti. Nella mia villa, a bordo piscina, col pezzo di fica che mi ronza intorno amorevole e un nugolo di giornalisti ai quali ho deciso di concedere un’intervista.
«Prego, prego signori. Vedete? Non sono poi cosi rozzo, vi ospito in casa mia, sono magnanimo». E loro eccitati si accomodano, bevono e mi chiedono «..ma come fa? ma come diavolo fa?».
«È che ho la sventola, amici, non c’è un cazzo da fare. Questo è il mio segreto, il destro. È un dono della natura. Scrivetelo, scrivetelo pure.
E poi eccomi ancora, a bordo della mia nuova decapottabile con il pezzo di fica che si regge forte, mentre sfrecciamo giù per la strada. Bella vero?
Si guida che è una meraviglia, mi è costata tutto l’incasso per la vittoria dell’ultimo incontro.
Quel russo era un macigno, ma alla fine è andato giù.
Così ho preso la macchina.
Mi è costata tutto l’incasso.
Al russo è costata un trauma cranico.
Ah, quel reparto di traumatologia!
L’ho riempito io, con tutti i miei avversari. Li vado anche a trovare di tanto in tanto, mi fanno tenerezza quei ragazzi. Loro non ce l’hanno fatta.
Dono discrete somme a quel reparto dell’ospedale.
Colpisco di destro, lui allunga il sinistro verso il mio mento, ma lo smanaccio col guantone, mandandolo a vuoto.
Sono la lancia e lo scudo.
Ho braccia di cinta armate fino ai denti.
La potenza al servizio della tecnica.
E che furbo sono, amico.
Sentimi arrivare, sono io.
Dopo di me il Diluvio».
Mi scaglia un gancio sinistro che accompagno con tutto il corpo, poi di rimando gli appioppo uno sganassone col dorso del guantone destro.
«Oh» fa «così mica vale, arbitro!».
«Stai zitta puttanella» provocò con voce ferma.
Il montante allo stomaco lo sento subito, con tutto il suo carico di rancore.
Tre passi indietro e cazzo, di nuovo alle corde, ma che si rimpicciolisce ‘sta merda di ring?
Gancio sinistro.
Piroetto in stile classico.
Io e la Morte del Cigno.
Incrocio lo sguardo pieno di delusione del pezzo di fica.
Lo ha capito subito che sono nei guai.
Mi agito.
Guardami, ti prego, dovevi sposarmi, ti amo…
Inutile, l’ho persa.
Ho perso tutto.
Gancio destro, montante allo stomaco ed altro, altro ancora. Non riesco più a contarli.
L’ultimo è un diretto destro.
Lo vedo appena partire dalla sua guardia, poi crescere e crescere e alla fine coprire tutto.
L’Enorme Guantone Rosso.
Il colore delle cose atroci, delle città in fiamme, delle mie ginocchia che si sbucciano battendo forte sul tappeto.
E’ il colore del mio naso che va in pezzi.
Nessuna chance, troppo rapido.
«E chi cazzo lo aveva visto?».
1, 2, 3, 4…
Nel mio cadere, tutto cade e si confonde. La luce si mischia alle urla, e all’odore del sudore e al sapore del sangue che mi cola dal naso fin sulle labbra.
Tutto il mondo sembra fiondarsi nella voragine in cui cado.
È come cadere ininterrottamente.
…5, 6…
È finita, niente giornalisti.
Niente villa con piscina, e addio pure alla macchina.
…7, 8…
E nove, e dieci e Signori, termina qui.
Ora si chiude.
E tutti a casa.

di Danilo Pette

 (Copertina: Bato)

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