Paolo Benvegnù @Auditorium Parco della Musica (Roma) – 10/2014

Vertigini dal basso: esalazioni dalla verticale ascesa nell'hotel della terra

.Questo hotel è un grattacielo.
Le tue vertigini hanno un nome che risuona giù per le grondaie. Piano su piano, eco su eco. Quello che non hai capito ancora è che questa è una vertigine al contrario. Non c’è il rischio di schiantarti con le scarpe perse dentro al fango. Puoi vederlo, ora: questo hotel è un grattacielo e tu dovrai arrivare in cima.

Orda di piani, accatastati uno sull’altro, come gli anni che hai sopra la schiena e quelli che ti attendono davanti. Dove siamo stati e dove andremo. Cerchi di contarli ma ti nascondono la fine. Puoi solo scrostarti dalla melma e camminare senza chiederti perché.

Non esiste l’ascensore, solo le giunture delle ossa. Mettere un passo dopo l’altro, forse per capire, ostinarsi a scavalcare ogni gradino, per sangue e per fede. Ma la milza ti cede. Ti accarezzi un istante, ti respiri che il segreto è non guardare in alto, sottrarsi alla paura di non arrivare mai. Non dare voce alla vertigine.

Ma la gravità della sua voce ti schiaccia verso il pavimento, ora è un manto caldo e oleoso che ti impasta con il mondo e ti sussurra di salire. La fatica, ora lo sai, porta alla superficie di questo abisso mare verticale. Ma è una scalata vorticosa nell’apnea.

Passo dopo passo, gradino dopo gradino, vertebra dopo vertebra. Sono tracce da ascoltare, da ingoiare. E ogni traccia è una finestra spalancata verso una vita che ti aspetta, possibilità mai navigata di tutti i te che non sei mai stato. Sono sirene che ti portano via dalla tua ascesa, ma meritano un istante almeno per essere considerate. Capirai che se le vuoi afferrare dovrai scendere di nuovo e risalire ancora e all’infinito. Perché sono scatole che non hanno fondo e ti scrivono alla gola che lo sei anche tu. Ti specchi nell’abisso scoperchiato dentro al ventre del tuo petto, un alveare di finestre e piani e gradini e grondaie aggrovigliati addosso al tuo intestino, filigrana del destino. La senti la vertigine? Il rischio, ora, è precipitare.

La gravità della sua voce ti rischiaccia a terra, ti fa franare addosso a chi pensavi di esser stato in questa vita. Non sai qual è la cima, ma cadi all’indietro su tutti i gradini già creduti alle tue spalle. Scivoli giù, in fondo all’alveare e ti ritrovi a terra, con la faccia in mezzo al fango. Nella terra.

Alzi gli occhi, è lì davanti. Installazione permanente di cemento e ferro, terra e cemento sollevata verso gli abissi siderali. Questo hotel è un grattacielo. E tu dovrai arrivare in cima.

I tuoi capelli sono glicini e latte, l’oro e l’argento. Ora sai che non basterà camminare. È una tela da fare e disfare, è imparare e dimenticare. È avere il fegato di riprovare. È sapere che per sollevarsi dal terreno e respirare oltre le nuvole, per esserci, dovrai imparare a scorticare il cielo con le mani.

Io sono fango e tu mi rendi un fiore.

 

Matteo Mammucari

Foto: Sofia Bucci

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