In vino veritas

Racconto breve...

Ero in una delle peggiori baracche sputa alcool della zona. Entrando sentii come un odore di marcio, un odore di sangue e sudore, ma non mi scoraggiai e tirai dritto fino al bancone.
Alla mia destra un vecchio canuto mi scrutava quasi fossi un alieno. Continuava a fissarmi e alternava occhiatacce a sputi a ripetizione centrando il più delle volte una sputacchiera sotto il bancone.
«Esistono ancora?» chiesi all’uomo.
«……..».
«Pensavo esistessero solo nei vecchi film. In quei western in cui la vita è tutta sputi e pallottole».
«……….».
Troncai la conversazione. Mi sembrava di essere stupido insistendo in quel tête-à-tête surreale. Ordinai un bicchiere di vino.
«Rosso o bianco?».
«Rosso» risposi frettolosamente.
«Che tipo di rosso preferisce?» chiese il barista.
«Qualsiasi… purché nobiliti il mio animo».
«Allora ho quello che ci vuole» rispose con un sorrisetto che sembrò sfumare nel diabolico.
In verità ero un grande intenditore di vini, ma quando varcavo quella soglia, avvolto dal buio della notte, non facevo grandi distinzioni, mi scollegavo completamente dal mondo reale, dal mio lavoro, entravo in quel Paradiso-Inferno che distillava il mio spirito rendendolo forte, ma allo stesso tempo mi riduceva a una pezza da piedi. Mi infischiavo di tutto ciò. Giudizio della gente? Puah, roba da benpensanti.
Al secondo bicchiere incrociai gli occhi di una mora. Mi superò dopo una rapida occhiata come se niente fosse, come se fossi un fantasma. Volevo maledire la sua sagoma che si allontanava lentamente; ma la guardai ancheggiare fino all’ultimo tavolo del locale.
Guardandomi intorno vidi che non ero messo poi così male. Casi umani dalla a alla z si aggiravano silenziosi come lucertole. Mi immaginai ciascuno di loro con un pesante fardello da portare appresso.
Il vecchio che sputava aveva uno zaino da campeggiatore che reggeva a malapena; dentro probabilmente portava tutti i suoi peccati, tutti i suoi segreti, e così tutti gli altri. Il più curioso era un uomo sulla quarantina che annaspava a destra e a sinistra con una sorta di carriola. Sembrava pesantissima, cercai di guardare più a fondo e pensai che fosse ricolma di ingordigia, ma forse fu solo una facile deduzione, vista l’enorme pancia che si portava dietro.
Avrei voluto saper scrivere. Tutte quelle occasioni, tutti quei soggetti che albergavano all’interno delle mie sortite notturne. Michele il pazzo, che aveva così tanti tic da poterli catalogare. Gianni il ladro. Ah, Gianni era il mio preferito. Era un ladro caritatevole, rubava ai ricchi, ma non per dare ai poveri, solamente per allargare il suo portafogli. Che stupendo personaggio sarebbe stato per un romanzo! Un ladro che per derubare i ricchi affitta di volta in volta uno smoking che lo trasforma in un perfetto gentleman, un ladro in borghese, rasato e ripulito dalla testa ai piedi che si impegnava nell’arduo compito di riequilibrare gli squilibri sociali, o almeno i suoi.
Dopo il quarto bicchiere sentii che avevo bisogno di una donna. Uscivo spesso da solo, ma cercavo sempre un po’ di compagnia, cercavo una donna che mi potesse far sentire meno solo, che mi potesse far sentire un vincitore in un mondo di sconfitti, almeno per una notte.
Mi guardai intorno. Niente di niente. Esclusa la mora che mi aveva snobbato rimaneva soltanto Barbara, una signora minuta che setacciava tutti i bar della zona per ore ed ore. Se ne stava zitta a guardare, a muovere la testa verso ogni dove, sembrava aspettare qualcosa. Farfugliava parole senza senso di giorno in giorno. Solo dopo anni scoprii da un ragazzo che la piccola Barbara aspettava il marito. Un marito morto, chiuso in un ricordo che aveva perpetuato all’infinito, perdendosi al suo interno, in quel labirinto di dolore che la faceva illudere che prima o poi sarebbe tornato, e tutto si sarebbe finalmente aggiustato. Non successe mai. Barbara stette diciannove anni ad aspettare, senza rendersi conto che accanto a lei il mondo continuava a cambiare, la ruota continuava a girare. Quando andavo in collera sputavo ai quattro venti offese e calunnie di ogni tipo. La più gettonata rimaneva sempre: “Diventerai come Barbara, sì, spero proprio ti succeda lo stesso”. In verità, da lucido, riflettevo sempre sulle mie parole e mi rendevo conto che nessuno si sarebbe meritato tanto, nemmeno il mio peggior nemico. Ma l’alcool spesso mi faceva dire cose che non pensavo; sì era l’alcool il motore di tutto.
Dopo il sesto bicchiere una zanzara cominciò a girarmi intorno, volteggiava qua e la quasi in segno di sfida. La guardai. Le lanciai un’occhiata da pistolero. Se ne andò come intimorita dal mio atteggiamento; ma probabilmente aveva capito che il mio sangue era guasto, come la mia vita. Continuai a sorseggiare il bicchiere di vino pensando che se l’era data a gambe per via dello sguardo da pistolero.
I bicchieri di vino si ammassavano uno dietro l’altro alzando la temperatura piano piano.
Il calore, lo stordimento da alcool, le immagini di tutti quei bagagli che la gente si portava appresso mi fecero pensare di essere all’Inferno. Ecco spiegato l’odore di sangue e sudore.
Non potevo crederci, ero morto e non me n’ero reso conto? No, non poteva essere reale, niente di tutto quello poteva essere reale. Mi alzai un po’ scosso. Il nono bicchiere mi aveva steso.
Andando in bagno urtai diversi tavoli sulla mia strada. Entrando mi guardai allo specchio. Un morto vivente. Come ero potuto arrivare a tanto? Ero verde, o forse giallo, non distinguevo bene le sfumature che mi aveva lasciato l’alcool addosso dopo tutti quegli anni. La vescica iniziò a chiedere pietà. Entrai in uno dei bagni. Sbattei contro la porta.
«Un po’ sbronzo eh!?» disse una voce dal bagno accanto.
«Più morto che vivo».
«È il compromesso giusto. La sera leoni e la mattina dopo coglioni, no?».
«Più o meno».
«Mi stai simpatico».
«Ma se non ci vediamo nemmeno».
«Sì è vero, ma a pelle…».
«Qui di pelle ne vedo tanta… ma nella mia mano..».
«Vedi che avevo ragione. Dai confidenza agli sconosciuti. Sei uno a posto».
«Ok, amico. Stasera crederò a tutto ciò che mi dirai. Quindi sì, sono a posto e ho anche un certo senso dell’umorismo» risposi abbottonandomi i pantaloni.
Mi misi a sedere sulla tazza del cesso. Ero troppo sbronzo, dovevo riprendermi qualche minuto.
«Ehi amico, sei ancora lì?» chiese la voce.
«Ti sento forte e chiaro e tu?».
«Certo che ti sento, ho fatto io la prima domanda».
«Scherzavo, scherzavo. Non è questo che si fa fra amici?».
«Puoi dirlo forte. Avrei pagato per avere amici come te».
«Cazzo amico così mi commuovi».
«Piangi pure, tanto da qui non ti vedo».
«Ci sarebbe davvero da piangere, ma preferisco bere».
«Una massima di tutto rispetto. Se a casa non mi è passata di mente giuro che la scrivo».
«Bravo, diffondi il verbo, che magari creiamo un esercito di nottambuli».
«Sei forte amico, se anche Alfredo fosse stato così accondiscendente…».
«Chi cazzo è Alfredo?» chiesi a botta sicura.
«Era il mio migliore amico».
«E ora?».
«Abbiamo avuto una feroce discussione e ora non c’è più».
«Gli amici vanno e vengono».
«Sì, ma lui non tornerà più…».
«Morto un Papa se ne fa un altro».
«È vero, ma non potrò mai scordare tutto quel sangue, quelle urla…».
«Oh cazzo amico, l’hai fatta grossa».
«Ormai sono passati anni. Tutto perché non mi dette ragione. Se tutti fossero accondiscendenti come te. Se almeno Alfredo lo fosse stato…».
«Ti capisco, ti capisco, anche io voglio sempre avere ragione. Ora ti saluto. È stato un piacere. Non presentiamoci, rimaniamo così, nell’oscurità di una pisciata in compagnia, almeno questo ricordo rimarrà immacolato. Ti saluto amico».
«……».
Sentii dei singhiozzi, o almeno è quello che ricordo. Uscendo dal bagno fui punto da una zanzara.
Mi resi conto di essere ancora nel mondo dei vivi. Avevo sentito dolore. Ero vivo.
Andando al bancone ordinai il decimo bicchiere di vino, lo iniziai a sorseggiare lentamente e il rosso liquido divino mi fece capire molte cose. Era il vino che mi aveva salvato. Da sobrio avrei trattato quello sconosciuto frettolosamente, lo avrei liquidato in pochi secondi e probabilmente sarei finito morto stecchito in quel bagno. Sì, il vino mi aveva salvato. Presi il cellulare e chiamai gli sbirri. Non ero un infame, ma in quel momento mi sembrò la cosa giusta da fare.
Uscendo pensai al peso che mi trascinavo dietro, ai miei fallimenti che non sarebbero entrati neanche in una cisterna enorme, sarebbero straboccati da ogni parte. Ripensai alla mia vita, ma questa è un’altra storia.

Lorenzo Borghini

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7 Comments

  • Credo che di Baudelaire ne abbiamo anche abbastanza, con la differenza che incitava ad “ubriacarsi”, della Vita e non solo del vino. L’era degli Spleen, credo, o almeno spero fortemente sia passata. Questo fatto che l’ispirazione provenga sempre e solo da fiumi di alcool, sinceramente, ha stufato…e non poco. Vi prego, ubriacatevi di Vita. Magari sarete in grado di scrivere cose anche più interessanti.

    Che vergogna andare al cinema da solo
    senza un amico, senza un’amica, senza moglie,
    là dove tutti gli spettacoli sembrano tanto brevi
    e tanto lunga la loro attesa.
    Che vergogna
    in questa interiore guerra dei nervi
    davanti alle coppiette beffarde del foyer
    in un angoletto, tutto rosso, masticare un pasticcino,
    come se ci fosse di che restar confusi…
    Noi,
    fuggendo la solitudine
    e l’angoscia
    ci buttiamo in qualsiasi compagnia,
    e così degli obblighi che fanno schiavi di amicizie senza senso
    ti perseguiteranno fino alla tomba.
    Le amicizie si formano in modo assurdo:
    gli uni si danno al bere senza una ragione,
    gli altri non sono interessati che ai fronzoli e alle donnacce,
    e c’è pure chi
    sembra occupare il tempo in discussioni astratte,
    ma di fatto
    si somigliano tutti tra di loro…
    Molte son le forme della vanità!
    O l’una,
    o l’altra chiassosa compagnia…
    Non saprei a quante di queste
    io sia riuscito a sfuggire!
    E come caduto in un nuovo tranello,
    sono riuscito a sfuggire,
    lasciandovi il pelo,
    sono sfuggito!
    Mi sei dinanzi, vuota libertà…
    Perche’ diavolo mi sei necessaria! Mi sei cara
    e insieme odiosa,
    come una moglie non amata e fedele.
    E tu, amata mia,
    come stai tu?
    Ti sei liberata delle tue vane preoccupazioni?
    A chi adesso appartengono i tuoi occhi strabici
    e le tue bianche, splendide spalle?
    Pensi certo che io mi vendichi,
    che in qualche parte mi precipiti in taxi,
    ma se anche lo facessi
    dove scenderei?
    Eppure non potrei liberarmi di te!
    Con me le donne si rinchiudono in sé,
    perché sentono
    d’essermi ora del tutto estranee.
    Abbandono la testa sulle loro ginocchia, ma non a loro,
    a te appartengo…
    Or non è molto sono stato da una
    in una brutta casupola di via Sennàja.
    Ho appeso il paltò a un misero attaccapanni.
    Sotto un abete spoglio da un lato, con le lampadine fioche,
    rilucendo con le sue pantofoline bianche,
    sedeva una donna, severa come una bambina.
    Avevo così facilmente ottenuto il permesso
    di venire,
    che ero sicuro di me
    e troppo inebriato, come oggi si usa
    e le avevo portato non fiori, ma vino.
    Ma tutto apparve molto più complicato…
    Ella taceva
    e modestamente due goccette trasparenti,
    due orecchini,
    brillavano sui suoi lobi rosati.
    E, come sofferente, guardandomi confusa,
    sollevando il suo corpo di fanciulla, mi disse con voce smorzata:
    “Vattene…
    E’ meglio di no… Lo vedo,
    non sei mio, ma suo…”
    Mi amava una ragazzetta
    dalle maniere rudi, da maschiaccio,
    con un ciuffetto sbarazzino
    e gli occhi trasparenti,
    pallida di paura e tenerezza.
    Eravamo in Crimea.
    C’era di notte un temporale
    e la ragazzina
    al bagliore dei lampi
    mi sussurrava:
    “Mio piccolo!
    Mio piccolo!”
    e mi copriva gli occhi col palmo della mano.
    Intorno tutto era spaventosamente solenne,
    il tuono
    e il gemito sordo del mare, quando all’improvviso ella,
    con una lucidità tutta femminile, mi gridò:
    “Non sei mio!
    Non sei mio! »
    Addio, mia amata!
    Io sono tuo, cupo
    e fedele,
    e la solitudine
    è la più fedele di tutte le fedeltà.
    E non importa se sulle mie labbra non fonde più
    la neve d’addio del tuo monchino.
    Grazie alle donne
    belle e infedeli
    per tutto ciò che è durato un istante, per quell’addio!
    che non è un “arrivederci!”,
    perché, fiere come regine nella loro menzogna,
    ci regalano delle dolci sofferenze
    e i magnifici frutti della solitudine.
    [“Solitudine” – Evgenij Evtusenko]

  • posso capire il commento di …… , forse sono anche d’accordo. ma insomma, non è male questo racconto, ha il suo perché!
    bello

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