Vecchi frac, nuove gardenie

Illazioni arbitrarie e scellerate su Domenico Modugno, Stefani Benni e altri letterati compari. Viaggio sulle orme di un uomo con la gardenia

C’è chi giura si sia suicidato abbandonandosi alle gelide acque del fiume, dicendo addio al mondo e ai ricordi del passato. Il suo cadavere, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Non è una cosa da poco, perché senza un corpo da seppellire non si può seppellire neanche questa faccenda. So che cosa  dico.
Per quanto possa valere la mia parola, sono quasi certo di averlo visto vivo e vegeto, non molto tempo fa, passeggiare dentro a un libro di Stefano Benni, Il bar sotto il mare. È vero, credetemi, è accaduto: se così fosse, se io ci avessi visto giusto, le versioni ufficiali sulla sua dipartita vacillerebbero e potremmo essere costretti a rivedere da capo tutta la faccenda del Vecchio Frack di Domenico Modugno.
Altro che le scie chimiche!

 

1. Ti stai sbagliando, chi hai visto non è…

Forse sto calcando troppo la mano e questo che segue è aria fritta, ma il gioco vale la candela e rischia di essere abbastanza interessante.
Abbiamo una canzone e un libro che sembrano avere in comune più di quanto si potesse immaginare. Ma andiamo con ordine, e il modo migliore per iniziare, certe volte, è dall’inizio.
Nell’incipit de Il bar sotto il mare, ci troviamo davanti agli occhi stupefatti del narratore, testimone di uno straordinario incontro:

Non so se mi crederete. Passiamo metà della vita a deridere ciò in cui altri credono, e l’altra metà a credere in ciò che altri deridono. Camminavo una notte in riva al mare di Brigantes, dove le case sembravano navi affondate, immerse nella nebbia e nei vapori marini, e il vento dà agli oleandri lente movenze d’alga.
Non so dire se cercassi qualcosa, o se fossi inseguito: ricordo che erano tempi difficili ma io ero, per qualche strana ragione, felice.
Improvvisamente dal sipario del buio uscì un vecchio elegante, vestito di nero, con una gardenia all’occhiello, e passandomi vicino si inchinò leggermente. Mi misi a seguirlo incuriosito. Andavo di buon passo a un palmo da terra, e i suoi piedi non facevano rumore sul legno umido del molo. Il vecchio si fermò un attimo, tracciando in aria gesti con cui sembrava calcolare la posizione delle stelle. Poi annuì con la testa e prese a discendere una scaletta che dal molo calava nelle acque scure.
– Si fermi signore – gridai . Non lo faccia! Ma il vecchio non mi ascoltò, in breve tempo fu nell’acqua fino alla cintola, e poco dopo scomparve. Senza indugiare, vestito com’ero, mi tuffai. L’acqua era gelida, e sul fondale melmoso giacevano detriti e cordami. Mi guardai intorno cercando tracce dell’uomo e con mia grande meraviglia vidi, sospesa a pochi metri dal fondo, un’insegna luminosa con la scritta Bar. Verso di essa si dirigeva tranquillamente, camminando come un palombaro, il vecchio della gardenia. Come in un sogno nuotai anch’io verso quell’insegna che illuminava l’acqua di azzurro…

 

L’insegna è per l’appunto, quella de Il bar sotto il mare. Trovarne una accesa nel cuore della notte è una bella fortuna, considerato che nella canzone di Modugno già a mezzanotte si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè.
Ma anche in Vecchio Frack la voce narrante ci rende partecipi di un altro uomo uscito dal sipario del buio. Confrontiamo la due descrizioni:

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In Benni l’uomo è certamente un vecchio, in Modugno quel “vecchio” è da riferirsi al frac (soltanto nel titolo, però: questo aggettivo non viene mai usato nel testo). Tuttavia, considerando che il brano di Modugno è del 1954 e il libro di Benni del 1987 (data che non rispecchia necessariamente l’ambientazione del libro), il nostro uomo in frac avrebbe tutto il tempo di invecchiare, sempre nel caso in cui ne avesse voglia.
In compenso abbiamo molte analogie tra le descrizioni: in entrambe l’uomo indossa una gardenia all’occhiello, che ne Il bar sotto il mare ne diventa addirittura l’elemento caratteristico e distintivo: ogni avventore del bar è tenuto a raccontare una storia, quella del nostro uomo è intitolata “il racconto del vecchio con la gardenia“. Va detto che avere una gardenia all’occhiello non era cosa rara per i veri maschi di fine Ottocento, inizio Novecento.
Ma Modugno non è avido di dettagli e aggiunge molti elementi: oltre alla gardenia abbiamo il cilindro, i gemelli, il bastone, un gilet “candido” (probabilmente bianco) e un papillon blu. Benni invece è più vago sull’abbigliamento del suo vecchio: semplicemente è vestito di nero, elegante, per quanto l’eleganza sembra riferirsi in realtà ai suoi modi, più che all’abbigliamento; anche l’uomo descritto nella canzone ha un incedere elegante, ma ci torneremo più avanti.
Per il momento possiamo confermare che nella descrizione di Benni non c’è nulla che contrasti apertamente con quella fatta da Modugno, a parte, forse, il blu del papillon che sull’abito nero potrebbe essere una cafonata.

Se non ci basta tutto questo, comunque, possiamo fare di peggio e inoltrarci con la nostra indagine facendo appello a elementi extra-letterari. Abbiamo la libertà di disporre a piacimento della copertina del libro, che lo stesso scrittore tira in ballo con un espediente meta-narrativo, rendendola parte integrante della narrazione. Sempre nel Prologo, infatti, scrive:

Come potete constatare dal disegno di copertina, formavano il gruppo più stravagante che io avessi mai visto…

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Ecco davanti a noi tutti gli avventori del bar, quelli che a turno – è la regola del locale – dovranno raccontare una storia. L’unico a non essere rappresentato è il narratore principale. Di lui non sappiamo nulla, neanche il nome, tanto che nel libro viene definito semplicemente “ospite”, a sottolineare l’eccezionalità della sua presenza nella fauna sub-marina. Non è ritratto, probabilmente, perché l’immagine è una sua soggettiva. Così come la narrazione ci arriva tramite i suoi occhi, è tramite i suoi occhi che vediamo gli altri avventori. Sembra di essere nel Finale del libro:

A questo punto nel bar sotto al mare tutti si voltarono a guardarmi…

Accade così una piccola magia: lo sguardo dell’Ospite e quello di chi tiene fisicamente il libro tra le mani si fondono insieme diventando un’unica cosa. Se non è questo un racconto in prima persona…

Ma non distraiamoci. In questa sede ci interessa solo il vecchio con la gardenia. Lo vedete? Eccolo lì, proprio al centro della composizione, in evidenza rispetto agli altri, come fosse il personaggio più importante.
Del resto è lui che innesca la narrazione conducendo l’Ospite nel bar e trascinandoci dentro, di conseguenza, anche il lettore (il signore con la gardenia mi tese la mano. Non fece altro che tirarmi dentro di colpo e mi ritrovai in un bar accogliente, luminoso e pieno di avventori). Nell’illustrazione, però, il vecchio ha indosso un vestito marrone scuro e non nero come nel testo. Possibile che nel buio della notte all’Ospite sia sembrato nero? O forse Giovanni Mulazzani, autore del disegno, è stato costretto a colorire un po’ l’abito per farlo risaltare nella penombra del bar? In ogni caso non c’è traccia del papillon di Modugno, al suo posto abbiamo una cravatta.
Dite che è già abbastanza per arrenderci? Dite che ci sono due uomini con la gardenia diversi e non uno solo, come vorrei farci credere?

Non ci scoraggiamo e torniamo da Modugno. Nella seconda parte della canzone, quando è ormai giorno, scopriamo cosa resta di quell’uomo in frac:

E nella luce bianca galleggiando se ne van
Un cilindro, un fiore e un frac.

Elementi che lasciano intendere che l’uomo si sia buttato a fiume, come tutti dicono. Ma tratteniamo il respiro e andiamo oltre senza farci condizionare. Del resto vediamo galleggiare solo oggetti, quindi possiamo avanzare un’altra ipotesi:
forse galleggiano perché l’uomo, immergendosi nell’acqua, si è spogliato di tutto, gettando alla corrente il suo, ormai vecchio, frac. Perché avrebbe dovuto farlo? Ci arriveremo.

Per ora diciamo che i due uomini (sempre che siano due) sembrano avere un destino molto diverso e soltanto una gardenia in comune. Eppure possiamo trovare ancora punti di contatto:
non sappiamo in quale città sia ambientata la canzone di Modugno, certo, ma in compenso abbiamo qualche indizio sulla nazionalità dell’uomo in frac; lo sentiamo mentre va dicendo ad ogni cosabuonne nuit” e poi “adieu”: è molto probabilmente francese. Nel libro di Benni, il racconto del vecchio con la gardenia è intitolato, neanche a farlo apposta, “Il più grande cuoco di Francia”.

I due uomini (sempre che siano due) si assomigliano anche nelle movenze, laddove uno se ne scende lentamente, mentre l’altro l’abbiamo visto discendere una scaletta che dal molo calava nelle acque scure.
Ancora: quel leggero inchino che il vecchio con la gardenia rivolge al narratore del libro denota una gran signorilità, quasi d’altri tempi. Come abbiamo già visto è un vecchio elegante nel portamento e nei gesti più che per gli abiti che indossa. L’uomo in frac di Modugno non vuole essere da meno, e non si può non restare colpiti da quel suo incedere elegante.
Tanto che il narratore, nella canzone, si chiede curioso: “chi mai sarà / quell’uomo in frac?”.
Una curiosità che ritroviamo addosso all’uomo che passeggia in riva al mare di Brigantes, che confessa: “Mi misi a seguirlo incuriosito”.
A quanto pare anche i due narratori potrebbero avere in comune più di quanto non vogliano ammettere.

 

2. Ci vuole un’altra vita

Forse la caratteristica principale di Vecchio Frack di Modugno è proprio il non detto, un’ariosità del testo che lascia ampio spazio di manovra per disparate interpretazioni.
Benni se ne approfitta, ve lo dico io, e sembra infilarsi in ogni ambiguità della canzone, deciso a farla sfociare in un’altra direzione. E perché mai dovrebbe?

A me viene in mente Fabrizio De Andre’:
«La canzone di Marinella nasce da un fatto di cronaca che avevo letto su un giornale locale, credo La Provincia di Asti, quando ero quindicenne. Ne rimasi molto colpito, tant’è che qualche anno più tardi volli raccontare la storia di questa ragazza che per motivi familiari era stata costretta a fare la prostituta e venne poi scaraventata nel Tanaro dopo essere stata derubata. Nella canzone ho cercato di reinventarle la vita e addolcirle la morte ».
[F. De Andre’, intervistato da Luigi Viva / / Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco: vita di Fabrizio De André; Feltrinelli (2000)]

Finisce così che ci ritroviamo una ragazza che, proprio come l’uomo in frac, dovrebbe beatamente essere annegata in un fiume (“Questa di Marinella la storia vera / che scivolò nel fiume a primavera”) e alla fine eccola da tutt’altra parte rispetto a dove sarebbe logico immaginarsela (ma il vento che la vide così bella / dal fiume la portò sopra a una stella).

Ma anche la storia del vecchio con la gardenia, ne Il bar sotto il mare, parla della vittoria sulla morte: nel suo racconto Il più grande cuoco di Francia riesce a rimandare la sua fine corrompendo con i suoi manicaretti il diavolo, che vorrebbe portarselo all’inferno.
Ora io voglio pensare che anche Benni ha voluto salvare la pelle all’uomo in frac, piegando a suo vantaggio le ambiguità della canzone, offrendogli un destino diverso e, dal suo punto di vista, migliore. Per questo lo ha indirizzato verso un posto fuori dal mondo (anche se non proprio “sopra a una stella”), dove la gente comune non arriva mai.
Per arrivarci serve qualcosa che ti stacchi i piedi dal suolo. Il nostro uomo in frac sembra aver perso il senso della realtà, o addirittura una ragione di vita. Forse colpa di un tragico amore:
addio al mondo
ai ricordi del passato
ad un sogno mai sognato
ad un attimo d’amore
che mai più ritornerà

Di sicuro quel preciso attimo ha segnato un frattura insanabile tra l’uomo che era e l’uomo che è diventato, tra il mondo in cui viveva e quello che vede adesso con occhi nuovi.
Probabilmente è proprio in questo attimo d’amore che c’è il nodo centrale della canzone, un enigma da sciogliere per poterne capire ampiamente il senso.
Quando uscì questa canzone, la censura obbligò Modugno a cambiare gli ultimi due versi:

ad un attimo d’amore
che mai più ritornerà

cambiati con

ad un abito da sposa
primo ed ultimo suo amor.

All’epoca (1954) parlare di “attimi d’amore” doveva essere alquanto scabroso, difatti sembra insinuare un amore occasionale, della durata di un attimo, appunto (con buona pace della destinataria che forse auspicava a una durata maggiore), e che mai più ritornerà. Dunque si pensò bene di spostare il senso di quei versi in direzione opposta, quella dell’amore coniugale, lasciando intendere che la morte della sua sposa abbia indotto l’uomo a suicidarsi. Muore lo stesso, certo, ma senza scandalizzare la pubblica opinione.
Quello che posso dire è che a un altro mondo ci va, ma forse non è proprio quello che i censori avevano immaginato.

 

3. Il calore di un momento

Possiamo inventarci una teoria tutta nuova su quell’attimo d’amore, e se provassimo a togliere da quei due versi ogni connotazione sessuale o carnale, avremmo degli strani risultati. Prendiamola alla lontana, facendo un salto nel 1916, tra le righe di Giuseppe Ungaretti.

Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa

Su Parigi s’addensa
un oscuro colore
di pianto

In un canto
di ponte
contemplo
l’illimitato silenzio
di una ragazza
tenue

Le nostre
malattie
si fondono

E come portati via
si rimane.
[G. Ungaretti, Nostalgia]

Ci ritroviamo ancora davanti al passaggio dalla notte al giorno, quando di rado qualcuno passa, siamo (ancora?) in Francia, a Parigi, dove s’addensa un oscuro colore di pianto; abbiamo ancora un ponte, si presume sopra un fiume (Il fiume scorre lento / frusciando sotto i ponti).
Non si può affermare con certezza che Modugno avesse letto questa poesia, o che ci sia un legame voluto tra la Nostalgia di Ungaretti e il suo Vecchio Frack, ma sicuramente i due testi hanno un sapore molto simile, ed è soprattutto incredibile la somiglianza che si riscontra anche nella struttura.
Entrambi i testi iniziano il racconto dall’ora in cui si ambienta la narrazione (che nella seconda parte della canzone arriva addirittura a coincidere), poi allargano lo sguardo alle strade, all’ambiente circostante, all’aria che si respira, per poi fermarsi, alla fine, sopra un ponte:

Vecchio Frack
Modugno
(prima parte)
Nostalgia
Ungaretti
Vecchio Frack 
Modugno
(seconda parte)
È giunta mezzanotte,
si spengono i rumori,
si spegne anche l’insegna
di quell’ultimo caffè…
Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera…
È giunta ormai l’aurora
si spengono i fanali,
si sveglia a poco a poco
tutta quanta la città […]
…le strade son deserte,
deserte e silenziose,
un’ultima carrozza
       [cigolando se ne va.
…e di rado
qualcuno passaSu Parigi s’addensa
un oscuro colore
di pianto
…sbadiglia una finestra
sul fiume silenzioso,
e nella luce bianca
galleggiando se ne van
un cilindro, un fiore,
                            [un frac.
Il fiume scorre lento
frusciando sotto i ponti…
In un canto
di ponte…
Galleggiando dolcemente
e lasciandosi cullare,
se ne scende lentamente
sotto i ponti verso il    [mare…

.

Se la prima cosa che balza all’occhio è una forte assonanza nella struttura, ci sono elementi meno evidenti nella poesia di Ungaretti che vale la pena considerare.

Soffermiamoci davanti a quella ragazza dall’illimitato silenzio, alla comunione che si instaura, silenziosa, tra i due personaggi: la ragazza e il narratore, che forse è il poeta stesso, possono fondere insieme le loro malattie, perché sono le stesse, e finalmente il nostro poeta-narratore può trovare riscontro della sua solitudine in un’altra persona, annullandola.
Cercherò di essere meno chiaro:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
[E. Montale; da Ossi di Seppia, 1925]

Ecco un altro poeta con la sua malattia, incomunicabile, e un segreto indicibile a cui nessuno crederebbe; è l’uomo che ha messo il naso fuori nel mito della caverna di Platone.
Niente ti appartiene più, niente è quello che dice di essere e quel segreto è una condanna alla solitudine perenne.
Finché, magari, un mattino qualunque, in un’aria di vetro, su un ponte parigino, ecco qualcuno che ha due occhi in cui specchiarsi e riconoscersi, qualcuno che conosce il tuo segreto e, senza che nessuno ti abbia avvertito per tempo, non sei più solo. Come portati via si rimane, per un attimo. Un attimo soltanto? Perché?
Perché forse non si ha il coraggio di fermare quella persona prima che se ne vada, magari temendo di scoprire di essere stati solo degli illusi e di aver male interpretato quel silenzio, scoprendolo inaspettatamente limitato. E allora si lasciano scivolare via quelle felicità intraviste, lasciandole passare:

[…]
Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.
[…]
Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.

Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.
[G. Brassens, Le passanti; trad. F. De Andre’]

.
Meglio vivere di rimorsi che di rimpianti; o magari “meglio morire”, avrà pensato quell’uomo in frac prima di suicidarsi. Sempre che sia morto.
Se invece fosse solo l’inizio della storia? Dante parla di Vita nova scaturita dall’incontro con Beatrice, di un nuovo e inaspettato inizio. Non potrebbe essere lo stesso per il nostro uomo in frac? Nessuno ci dice che quell’attimo d’amore lo abbia consumato fino a condurlo alla morte; magari è tutto il contrario: magari è stata una scintilla, la folgorazione sulla via di Damasco che finalmente gli ha acceso la voglia di vivere la sua vita, e non quella che gli viene imposta dalla realtà che si vede.

Oppure le cose possono essere andate diversamente, forse davvero l’uomo in frac stava meditando la fine, ma il destino era già in agguato per dargli nuova linfa. Torniamo su quel ponte, perché io dico che è lo stesso, e diamo ancora spazio alla voce di Modugno:

È vero
credetemi è accaduto
di notte su di un ponte,
guardando l’acqua scura,
con la dannata voglia
di fare un tuffo giù.
D’un tratto
qualcuno alle mie spalle,
forse un angelo
vestito da passante,
mi portò via dicendomi
Così:
Meraviglioso.
Ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia
meraviglioso?
[…]
La notte era finita
e ti sentivo ancora,
sapore della vita.
Meraviglioso.
[D. Modugno, Meraviglioso]

Anche qui c’è una notte che finisce e una mattina che comincia. Un angelo salvifico che ti apre gli occhi e come portati via si rimane. Sembra davvero che nel 1968 Modugno abbia voluto suggerirci nuovi particolari su cosa successe quella famosa notte, su come i cattivi pensieri siano stati spazzati via dal calore di un momento. Ce ne parla ancora De Andre’:

…E fu il calore di un momento
poi via di nuovo verso il vento,
davanti agli occhi ancora il sole
dietro alle spalle un pescatore.
Dietro alle spalle un pescatore
e la memoria è già dolore
è già il rimpianto di un aprile
giocato all’ombra di un cortile…
[F. De André, Il pescatore]

Un calore che cambia la vita, spingendo a darle una svolta decisa e immediata, un po’ come San Francesco. E se allo stesso modo del santo di Assisi, come si era timidamente supposto prima, l’uomo in frac avesse deciso di smettere di essere un uomo in frac, spogliandosi dei suoi abiti e gettandoli nel fiume? Se avesse come lui abbandonato i segni distintivi di una realtà con cui non ha più nulla a che spartire, liberandosi di quel frac che a conti fatti non è che una trappola?

[…] se non fossi in frac ti canterei un ditirambo, […] m’alzerei (si alza) e con voce di saxofono canterei… ma sono in frac. Il frac è la logica. Il frac è l’affare. Il frac è il maschio. Il frac è una cosa seria.

Era il 1925 quando Vulcano, uno dei personaggi di Nostra Dea, opera teatrale di Massimo Bontempelli, raccontava la prigione che quel vestito rappresentava.
In quello stesso periodo Ettore Petrolini agghindava con il frac il suo Gastone, satira efferata a quell’attore fotogenico, affranto, compunto, senza orrore di se stesso, vuoto come il mondo pallido di ciprie e di vizi a cui appartiene.

Io sono molto ricercato anche perché porto molto bene il fracche…
E quando porto il fracche, ovunque io vado, porto quell’onda di signorilità che manca agli altri comici del varietà…
Io sono nato col fracché…anzi, quando sono nato, mia madre, mica mi ha messo le fasce…macché…un fracchettino!
[E. Petrolini, Gastone]

Un mondo troppo stretto, che ci marchia appena nati. Se fosse questo il mondo a cui dire addio?
Dite che il paragone tra l’uomo in frac e San Francesco è un po’ azzardato? Non direi proprio, visto che come lui lo ritroviamo a parlare con gli animali (oltre che con ogni cosa):

Buona notte
va dicendo ad ogni cosa
ai fanali illuminati
ad un gatto innamorato
che randagio se ne va.

La rivoluzione apportata da Modugno alla canzone italiana è indiscutibile, basti ricordare che nell’anno in cui uscì Vecchio Frac, 1954, il Festival di Sanremo veniva sbancato da Tutte le mamme (di Bestini e Falcocchio), da cantare necessariamente stando immobili tenendo la mano sul cuore. Canzoni che sgocciolavano retorica mentre i censori si facevano ambasciatori del buon gusto dell’opinione pubblica: non è un bel frac da cui vale la pena liberarsi?
E se allora Vecchio Frack fosse in realtà tutto un discorso meta-musicale? Se fosse il manifesto di una rivoluzione, come rivoluzionario fu questo brano? Allora possiamo capire perché il frac è vecchio: è vecchio come il mondo a cui appartiene, così Modugno decide di gettarlo via

 

4. La fine del discorso la conosci già

Stando così le cose, dobbiamo scagionare Stefano Benni dall’accusa di aver cambiato arbitrariamente la sorte del nostro uomo in frac, portatore sano di gardenie.
Semmai dobbiamo dare merito allo scrittore di averlo saputo riconoscere anche a distanza di tempo e di averci dato fedele testimonianza della sua sorte, limitandosi (proprio come il narratore de Il bar sotto il mare) a seguirlo, incuriosito.
Lo stessa curiosità può valere per noi, incantanti mentre il vecchio frac si inabissa fischiettando per affidarsi alla corrente… e come portati via si rimane.
Non lasciamoci sfuggire l’occasione che quell’uomo con la gardenia ci offre nel tenderci la mano: è il momento buono per incamminarsi verso un mondo più vero, più nostro, di scrivere la nostra storia così come la vogliamo, e finalmente raccontarla per renderla reale.

Ed eccoci alla fine del nostro viaggio sulle orme dell’uomo con la gardenia, che verosimilmente ha traslocato indenne dalla voce di Modugno alle righe di Benni. Eppure resta ancora un nodo fondamentale da sciogliere, perché anche dando per buono il percorso fatto fin qui, anche ponendo che l’uomo abbia dismesso il frac in favore di una semplice cravatta, di nuovi abiti e di una gardenia fresca, come mai lo lasciamo mentre si immerge nel fiume e poi risbuca in riva al mare?
Ce lo dice Modugno:

Se ne scende lentamente, sotto i ponti verso il mare
Verso il mare se ne va…

ed è lì che noi lo ritroviamo.

 

Matteo Mammucari

Immagine di copertina: Ivo Milazzo

 

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9 Comments

  • siiiii ho letto quel racconto di Benni. bellissimo. non lo avevo mai accostato a vecchio frac di Modugno. e guarda un po cosa ne e’ uscito fuori qui …… magari Benni davvero si e’ ispirato a Modugno . qualche corrispondenza effettivamente esiste,qui ben illustrata
    complimenti!!

    • sempre se dietro alla canzone Modugno avesse davvero nascosto tutto questo! :))
      concordo con tutti i passaggi indiziari del caso, però il movente potrebbe essere chissa’ quale altra cosa, ma il discorso di Mammucari e’ bellissimo nella sua verità analitica
      <3

  • sono impazzito a leggerlo tutto. post complesso. ma ne è valsa la pena
    uki è uno dei siti migliori che io abbia mai inserito nei miei Preferiti
    complimenti Mammucari

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