Valerio l’invisibile

Racconto breve... Una storia di sopraffazione esistenziale su miraggi funebri

Come immaginereste l’antefatto di un funerale? Se ne parla così spesso, dei funerali, ma poi la storia, quella del morto dico, a noi chi ce la racconta?

 

E alla fine successe. Il 17 marzo Valerio fu sepolto da una valanga di terriccio umido, e in quella bara –che pareva più una cassa di legno fradicio– se ne stava ormai isolato, in uno spazio insonorizzato ed angusto. Ma Valerio sapeva che quella morte apparente, seppure macabra, sarebbe durata soltanto poche ore: avrebbe presto rivisto la luce del sole, di un sole nuovo, e si sarebbe diretto verso un continente lontano. Avrebbe lasciato per sempre Valle Secca, e sarebbe stato pronto a solcare i mari di galassie ignote pur di abbandonare quell’esistenza disumana.

 

La vita di Valerio era diventata pesante e barbosa. Le sue giornate sembravano scandite dai passi lenti delle processioni ai funerali, e s’incorniciavano in un quadro grigio, senza spiragli di luce. Era pure la sua famiglia, che dico, l’intera città di Valle Secca a stargli col fiato sul collo, a soverchiarlo, e così Valerio si sentiva oppresso ed emaciato.
Dalla più tenera gioventù Valerio aveva sviluppato una certa abilità nel rispettare le regole: sempre buoni voti a scuola, mai una grana, abitudini esemplari e orari da collegio. Valerio era, insomma, il classico ragazzino a posto, innocuo, quello che si mimetizza bene con il verde del banco per non farsi interrogare, e quello che quasi nessuno si ricorda di salutare perché, semplicemente, non lo si nota per strada. Pareva invisibile e questo, talvolta, giocava a suo favore. Non era circondato da molti amici; ne aveva uno, Bernardo, che stava entrando nei giri giusti, fra la gente d’alto livello. Bernardo non si poteva definire brutto, al contrario, e con Valerio facevano un po’ la coppia Ranieri-Leopardi: il belloccio e il mezzo gobbo. Lui non è che fosse proprio gobbo, solo un po’ ricurvo, ed era anche molto esile. «Sono Valerio l’invisibile e come un fuscello volo via!» si ripeteva ogni volta che desiderava fuggire da qualche situazione imbarazzante. E, nonostante avesse ormai compiuto i venticinque anni, quella formula era rimasta un motto irrinunciabile ed efficace.
Ma proprio quella sera la frase non funzionò. Bernardo aveva costretto l’amico ad imbucarsi ad una festa organizzata dal Consiglio Comunale. Lusso, alcool e droga imperavano indisturbati. Di Valerio, ovviamente, nessuno se ne accorse. Tuttavia, una ragazza lo investì col suo vomito fresco di sbornia: era Domitilla, la figlia del sindaco. Valerio, che era un gentiluomo, tese una mano alla fanciulla e, piuttosto che schiaffeggiarla, la aiutò a ricomporsi. Le stette vicino per tutta la sera, timoroso che Domitilla potesse avere qualche ricaduta. E quella volta Valerio firmò col sangue la fine dei suoi giorni. L’ambitissima Domitilla s’era invaghita del misero, inappetibile Valerio. All’inizio, l’invisibile ne rimase sbalordito. Si sentiva felice, e se la rideva pensando a tutte quelle malelingue che lo avevano disprezzato in passato, che lo vedevano uno spaventapasseri senza cornacchie, uno zitello a vita. E invece Valerio si era fidanzato, aveva conquistato una donna, e non una qualsiasi, ma proprio la più desiderata, raffinata, e… insopportabile ragazza! Perdio, quanto era odiosa, Domitilla! Che incredibile pezzo di stronza!
«Valerio, dove stai andando? Dobbiamo prendere il tè con la zia, poi alle sette passiamo dai nonni che devo ritirare i miei regali, e stasera ceniamo con i cugini americani, mi raccomando metti la cravatta viola che ti ravviva lo sguardo, tesoro, mi ascolti? Ah, e domattina torna mamma dall’Argentina, dobbiamo andare a prenderla in aeroporto, anzi no zuccherino vacci tu, che io devo incontrare le nuove iscritte al Club dello Sporting, ce ne fosse una bella, sono tutte delle cesse! Oh Dio, mi si è spezzata un’unghia, Valeriooooo tesoro dove cazzo vai?!».
Al confronto, un incubo notturno pareva un verde prato fiorito. Non si sa come, Valerio aveva sopportato questa raccapricciante contingenza per anni, forse troppi, e ora s’era ridotto così, a due occhi spenti e fissi nel vuoto, col ronzio delle mosche che gli infestavano le orecchie. Ma Valerio neppure le sentiva, pareva un reietto, un morto cerebrale. Era passato dalla condizione di fuscello gobbo a quella di vegetale. Prima, almeno, nella sua invisibilità ci sguazzava sereno, si sapeva accontentare del suo mondo, e gli andava bene così. Adesso invece, nell’anonimato ci soffriva. Era un fantasma depresso. Anche i suoi genitori lo volevano uomo d’alto rango, e gli davano due calci nel sedere non appena provava timidamente a lamentarsi della sua relazione, accennando a qualche titubanza: «Ma cosa blateri, ingrato?! Sei forse figlio del demonio? O Gesù santissimo e benedetto, cosa abbiamo fatto tua madre ed io, per la miseria, e non farmi bestemmiare, per meritarci un figlio tanto scemo? Se non era per Domitilla adesso tu saresti un uomo invisibile, senza arte né parte! E invece qui, a Valle Secca ti conoscono tutti, sei diventato famoso, e ti lagni pure! Levati dalla mia vista va’, prima che t’ammazzo, infame!».
Per non parlare poi dei parenti più alla lontana, che persino da chilometri di distanza gli raccomandavano di non farsi scappare l’occasione, perché, in fondo, quando mai gli sarebbe ricapitata? Ma Valerio non ne poteva davvero più. Gli era venuta la psoriasi sui gomiti e dietro le orecchie per quanto stress stava accumulando. Doveva chiudere quella storia succhiasangue in fretta. Ma fuggire, stavolta, sarebbe stato impossibile. Purtroppo la sua formula non bastava. E poi lo avrebbero senz’altro riconosciuto al varco: in qualsiasi stazione ferroviaria, o all’aeroporto, Valerio sarebbe stato fermato dalle guardie in servizio che lo avrebbero scortato dritto dritto a casa, di Domitilla. Si sarebbe sorbito una bella strigliata e… niente. L’unica, radicale soluzione era togliersi la vita. Scomparire dalla faccia della terra. Valerio doveva morire. Ma, sebbene continuasse ad avere l’aspetto di un ragazzo invisibile, in cuor suo, ci teneva un po’ alla sua pelle. A parte la psoriasi e un po’ di gastrite, non soffriva di altri mali. Perché, allora, spirare così giovane? Ci doveva pur essere un altro modo…
E sì, gli venne in mente Bernardo. Per essere precisi, lo zio di Bernardo, Umberto, ché faceva le onoranze funebri. Quando lo zio Umberto passava per Valle Secca, infatti, tutti cominciavano a ravanarsi le parti basse. Valerio non ebbe più dubbi. Una mattina, in cui sapeva d’esser solo, Valerio telefonò all’amico Bernardo con voce seria e circospetta, e gli chiese un incontro segretissimo con lo zio Umberto, dietro lauto compenso ovviamente. Così fu presto fatto: Umberto e Valerio organizzarono il finto decesso senza troppe difficoltà. Bernardo, che oltre ai piani alti della società frequentava pure quelli un po’ più bassi, e ogni tanto lavorava con lo zio per racimolare qualche spicciolo, gli procurò una bara di legno che pareva più una cassa per trasportare il vino. Il 17 marzo Valerio sarebbe morto in circostanze misteriose, e sarebbe stato interrato nel cimitero della città, assopito da un sonnifero potentissimo. Doveva simulare la sua morte a tutti gli effetti. Dopo il sotterramento, non appena tutti gli invitati al funerale si sarebbero levati di torno –Domitilla avrebbe pianto disperata, si sarebbe strappata una ciocca di capelli con le doppie punte, e poi sarebbe tornata a casa a limarsi le unghie– Umberto e Bernardo avrebbero disseppellito Valerio, lo avrebbero camuffato a dovere con una parrucca biondastra, e lui sarebbe partito per l’Australia. Il posto più distante possibile da Valle Secca, dalla sua famiglia, da Domitilla.

 

E alla fine successe. Il 17 marzo Valerio fu sepolto da una valanga di terriccio umido, e in quella bara –che pareva più una cassa di legno fradicio– se ne stava ormai isolato, in uno spazio insonorizzato ed angusto. Ma Valerio sapeva che quella morte apparente, seppure macabra, sarebbe durata soltanto poche ore: avrebbe presto rivisto la luce del sole, di un sole nuovo, e si sarebbe diretto verso un continente lontano. Avrebbe abbandonato per sempre Valle Secca, e sarebbe stato pronto a solcare i mari di galassie ignote pur di abbandonare quell’esistenza disumana.

 

di Francesca Cordaro

 

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