Una crepa di maggio

Una voce che mi scivolava sulla pelle, che per un palpito, almeno lei, mi faceva tremare...

Era quando la sera arrancava ad imporsi che diventavo cosciente.

Il languire del cielo mi coglieva sprovveduto, e tutto insieme realizzavo quanto i raggi solari si fossero scaltriti. Ora avevano imparato a ritirarsi senza fretta, con la sorniona pacatezza di chi tanto ci si vede tra poco. Il tempo si faceva distratto. Le luci della pianura cominciavano ad accendersi, una dopo l’altra, e lo sguardo, a seguirne i segnali, camminava fino al mare. E lì si fermava, senza bagnarsi.
Sulle sponde dell’imbrunire, tutto insieme, come ogni volta, ricordavo perché maggio mi teneva in ostaggio.

Era quel momento, momentaneamente infinito, quando il rossore si era finalmente dissolto ma la notte si faceva ancora aspettare, quando la sera si vestiva da sera in un colore speciale: ecco. Ecco che il cielo mi ammantava di un sapore che si confondeva con la terra, e non riuscivo più a tracciarne un confine. Ho amato maggio senza essere ricambiato. Ho amato la malinconia a cui si accompagnava.

C’era una voce da qualche parte, tra gli steli d’erba a fiancheggiare la strada e le rive quiete dell’orizzonte, sotto la lampada di qualche veranda con le sue prime falene, nel molle fruscio delle fronde. C’era una voce che mi chiamava. Erano le promesse bugiarde di maggio.

Una voce che mi scivolava sulla pelle, che per un palpito, almeno lei, mi faceva tremare. La sentivo sussurrarsi alle mia labbra, e sapeva del fresco serale. Solo lei, rugiada della melanconia, sapeva disarmarmi all’illusione. Dolce, ambigua labile voce, filtrava tra le mie difese. Era un invito a ricordi che aspettavano di essere tracciati, era una scintilla di desueta speranza. Che cosa speravo? Non lo so, non lo sapevo. L’avevo scordato.

Era l’ultimo barlume di un trasognare passato, riaffiorato a pena per dirmi che c’era. Era ancora là, a pendere dalle promesse di un estate che prometteva di arrivare. Era una premessa del mare.
E io subivo attonito questo velo del cielo, la sua voce sinuosa, la tentazione di credere che si stendeva sul mio sentire, quando il cuore lasciato a maggese si confessava assetato di semi.

Ed ecco che il primo canto dei grilli mi schiacciava nella nudezza della terra o dell’asfalto, muto all’infinito del creato: la voce di maggio gocciolava dalla piccola crepa che solo a maggio si mostra, cadeva a lasciarsi assorbire dal mio palpitare sabbioso per un solo terribile salto.

Era solo in quell’unico eternabile istante che mi scoprivo sconfitto e cosciente, quando l’ultimo raggio del sole non voleva appassire.

Con chi raccoglierò questo lento imbrunire?

di Matteo Mammucari

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