The National @Auditorium Parco della Musica (07/2014)

Si ripete lo show... impossibile rimanere, emotivamente, indifferenti.

Decidere di andare a vedere un concerto a un anno di distanza è un rischio. Meno rischioso è rileggere un libro o vedere nuovamente un film, ma sentire suonare un gruppo due volte e in un lasso di tempo così breve riserva delle incognite.

Mi sono chiesta, banalmente, se l’esibizione sarebbe stata all’altezza, se io fossi dello stesso umore della volta precedente, se l’atmosfera sarebbe stata ugualmente coinvolgente e tutte quelle contorsioni mentali (vedi alla voce: pippe) che uno si fa con troppo tempo libero a disposizione.

Quando il giorno prima del concerto ho deciso in fretta e furia che volevo provare ancora l’esperienza, l’ho fatto per quella situazione emotiva che si viene a creare quando ti piace tanto la musica, soprattutto un certo genere, e vuoi riprodurre le sensazioni del disco ma in un luogo apposta dedicato.

Non voglio azzardare paragoni che possono attirare maledizioni senza perdono, ma andare a un concerto è un po’ come andare in chiesa la domenica. C’è il parroco, la liturgia, il cestino delle offerte, le persone si conoscono tutte e sanno a memoria i passaggi della Bibbia.

Allo stesso modo, quando vado a sentire i gruppi dal vivo, lo faccio perché ho voglia di cantare gli stessi testi che strillo in macchina, trovare conforto nella presenza di chi è lì per lo stesso motivo e mettere in atto tutto quel rituale da concerti.

Può succedere però di avere una crisi mistica e di chiedersi: «Ma chi me l’ha fatto fare?».

Roma è un paese dove ognuno conosce l’altro esattamente come nella piccola chiesa del villaggio. Tutti i luoghi disegnano un’enorme piazza del mercato dove si riuniscono i personaggi a conversare. Gli stessi baffi e le stesse ballerine le ritrovi tanto al Circolo degli Artisti, quanto a Rock in Roma e Luglio Suona Bene.

Poco male, anch’io porto le ballerine, ma è una situazione che ogni tanto può diventare claustrofobica, soprattutto quando la presenza diventa presenzialismo e della musica si perde il valore.

Un esempio su tutti: a vedere gli Slowdive a Padova c’erano pochissime facce della “scena romana”. Se il costo del viaggio fosse stato un buon motivo, molte di quelle persone non avrebbero avuto comunque i soldi per assistere a quei cinque o sei concerti di cui, invece, hanno pensato bene di mettere le foto su Instagram. Stesso discorso per la lontananza.

Io non so nelle altre città, ma a Roma si conserva quell’atteggiamento descritto da Remo Remotti quando parlava di «quella Roma del volemose bene e annamo avanti».

Qui “se volemo” talmente bene che andiamo agli stessi concerti, portiamo gli stessi vestiti, siamo amici su Facebook ma poi al dunque…

Ecco, l’ho detto. Sarò pure antipatica, ma l’ho detto. D’altronde l’ho premesso righe fa che i live sono come le funzioni domenicali, mica è detto che tutti quelli che partecipano siano realmente credenti.

 

A questo proposito arriviamo all’esibizione dei National, che si confermano nuovamente una grande band dal vivo. I ragazzi dell’Ohio (ora residenti in quel di Brooklyn) hanno la capacità di realizzare un coinvolgimento nel pubblico tale da creare un’isteria generale propria di fan adolescenti.

Sanno suonare, passano indifferentemente dalla chitarra alle tastiere fino ad arrivare agli strumenti a fiato con la disinvoltura di Roberto Bolle nella calzamaglia di Non ci resta che piangere.

La cavea ha una buona acustica e cosa più importante una struttura a imbuto che permette di vedere bene da qualsiasi punto.

Come già successo l’anno scorso, i National partono in sordina con alcuni brani pescati dal passato remoto del gruppo (“Wasp Nest“, “All Dolled-Up In Straps” e “90-Mile Water Wall“). L’atmosfera è rilassata, la gente continua ad arrivare e c’è tempo di scambiare ancora qualche chiacchiera.

Ma come in un climax ascendente, i pezzi successivi porteranno la serata a un crescendo di emozioni quasi comandate dal gruppo americano. Vengono suonate, tra le altre, “Don’t Swallow The Cap“, “I Should Live In Salt” e “Bloodbuzz Ohio“.

Il pubblico del parterre centrale, a questo punto, ha lasciato i propri posti per raccogliersi intorno al suo predicatore e recitare insieme a lui: «..If I stay here, trouble will find me, if I stay here, I’ll never leave».

Perché la cosa evidente anche in questa occasione è il contatto che si viene a creare tra la band e la folla, un’empatia che qualche canzone dopo diventerà fisica superando quella barriera tra palco e resto del mondo.

Prima che iniziasse il concerto, mi era giunta voce che Matt Berninger avesse smesso di bere (specificando come fosse da Pasqua che il cantante avesse detto sì a Valsoia. Come fa la gente a sapere come e dove è un’altra storia). Se anche la leggenda fosse vera, di sicuro c’è che Berninger ha ritenuto opportuno sciogliere il fioretto con tutti i crismi.

Beve prima un qualcosa di trasparente che decisamente non è acqua, poi passa alla bottiglia e all’improvviso è un uomo fuori controllo che raccoglie il lascito di Bukowski. Si aggira sul palco come una tigre in gabbia, sbatte il microfono sulla sua testa, tira bicchieri e inciampa nell’asta del microfono.

Come l’anno precedente, su “Mr.November” scende tra il pubblico a cantare la sua follia e il pubblico lo ricambia con calorose strette a qualsiasi cosa appartenga a lui, che sia una scarpa o i gioielli di famiglia.

In questo momento vacilla la mia fede.

La passione sfrenata per tutto ciò che contiene etanolo fa subire un calo alla performance del cantante, che addirittura lascia interpretare a uno dei gemelli Dessner una versione meno intimista di “I Need My Girl“.

I presenti non sembrano assolutamente delusi dal personaggio dell’artista bello e dannato e, anzi, qualcuno ne approfitta per salire sul palco e stringere tra le braccia Matt Berninger, il quale pazientemente accoglie il fan come si farebbe con un bambino da rassicurare.

L’esibizione finisce, da copione, con una “Vanderlyle Crybaby Geeks” acustica, che vede tutti i musicisti lasciare le proprie postazioni per cantare con il pubblico e salutare in questo modo una folla ancora una volta grata.

 

Ho già fatto la parte della bisbetica più su e concludo degnamente come certe vecchie che si mettono in fila alla posta solo per poter litigare con qualcuno.

I National sono un bel gruppo, musicalmente ed emotivamente, si concedono ai fan senza filtri e questo li pone un gradino al di sopra di altre band. I loro testi, almeno per quel che mi riguarda, parlano al cuore e sembrano raccontare qualcosa di te, sanno descrivere come, a volte, capita di sentirsi.

Stavolta, però, un po’ di quella magia dell’anno scorso sembra essersi persa tra le maglie di uno spettacolo che è andato esattamente come doveva andare, con i tempi e i momenti quasi uguali a quello precedente e per questo meno eccitante, più prevedibile.

Non dirò che è stato il più bel concerto del 2014, almeno non a un livello emotivo/personale seppure eseguito egregiamente. Non racconterò dei brividi che non ci sono stati, solo perché bisogna farlo. Dirò che ogni tanto la fede esita e si domanda se è davvero tutto oro quello che luccica.

Poi torni a casa, il frastuono delle voci è passato, le ballerine sono state tolte e Matt Berninger canta: «..Can I stay here I can sleep on the floor». Allora capisci che ci credi sempre e te ne stai lì, con i tuoi demoni, mentre qualcuno lo racconta per te.

Agnese Iannone

 .

.

L’anno scorso..

 

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