Tanti auguri e figli morti!

Volontà di potenza e la potenza del botto [Racconto breve]

Ho sempre pensato di fare la cosa giusta. Non mi è mai interessato cosa pensassero gli altri, cosa fosse giusto o sbagliato in cuor loro. Ho sempre pensato che tutto fosse soggettivo, anche la ragione. E se tutto è soggettivo, dunque tutto è valido, tutto è giusto, tutto è lecito. È per questo che non mi piace discutere, né mi interessa persuadere qualcuno delle mie convinzioni. Mi piace che ognuno sia cristallizzato nelle proprie certezze, mi piace lo scontro, più del confronto. Se ci convincessimo gli uni con gli altri, se mitigassimo ogni contrasto, non saremmo altro che marionette ammaestrate, a brindare allo stesso tavolo come iscarioti di noi stessi. Guerra! sola igiene del mondo. La storia prolifera nel conflitto, la grandezza divampa nella discordia. Io sono l’angelo dell’intolleranza.

Ho sempre pensato di fare la cosa giusta. Anche ora, con le dita sudate sopra un pulsante rosso, sto facendo la cosa giusta. Ne sono convinto. Non c’è bisogno che nessuno mi dica nulla, che nessuno mi rimproveri, mi incoraggi, mi dissuada o mi convinca. La ragione è soggettiva, e io ho la mia. Quando premerò questo pulsante salteranno in aria tutti. Puf! Sentirò il suono sordo delle salme ricadere sul cemento, ascolterò le grida di chi ancora vegeta, con le membra dilaniate e le carni lacerate, il pianto delle madri sulle carcasse dei figli, le urla dei mariti sulle carogne delle mogli. E sorriderò, mi nutrirò della sofferenza, del botto, delle lacrime. Anche quel bambino, quello lì, dietro la statua, che si aggira per la piazza, con il lecca-lecca fra le labbra appiccicose. Se non si allontana dal cestino sarà il primo. La testa si staccherà dal collo e rotolerà fino alla strada: sarà l’unica parte di quel piccolo corpicino a non esplodere. Almeno i parenti risparmieranno sulla bara, gliene basterà una piccola, dove riporre dolcemente solo il cranio. Non dovranno nemmeno vestirlo, basterà pettinargli il ciuffo biondo, passare il trucco sulle guance tonde e il rossetto sulle labbra appiccicose. Oppure potrebbero impagliarlo, quel bel musetto morbido, e appenderlo in soggiorno, sopra il divano, il fuoco che scoppietta nel camino e si specchia negli occhi di vetro del marmocchio. Farebbe atmosfera, farebbe tanto salotto del cacciatore. Non lo so, non mi interessa. Non mi interessa nemmeno la madre che gli corre incontro. Guardala, come ondeggia sui tacchi, che infilzano i sampietrini della piazza. Se fosse mia moglie, chi sa, magari avrei pietà. Ma le donne così a me non mi considerano neanche, figuriamoci sposarmi. Non ho i soldi per comprargli quelle scarpe, e nemmeno quella borsa. Potrei regalarle solamente dei calzini, o delle mutande, e forse nemmeno quelle. Dipende cosa indossa, sotto quell’abito di marca. Forse ha le mutande del discount e i collant del mercato, e allora sì, in quel caso potrei permettermi di farle un regalo. Ma non posso saperlo, nascosto nel mio angolo, con le dita sudate sopra un pulsante rosso. Dovrei spogliarla ora, in piazza, alzarle la gonna, e sfilarle gli stivali. E a quel punto, già che ci sono, prima di farla esplodere la violenterei, davanti al suo bambino. Le passerei il lecca-lecca del figlio fra le labbra ispide, le ungerei l’orifizio di zucchero e saliva, per poi profanarlo, e sentirei i peli del cazzo che si incollano l’uno con l’altro, appiccicosi. Poi restituirei il chupa-chups al bambino e correrei al mio pulsante – fermi così, bravi! Fatemi un bel sorriso: cheese! Puf! E magari salterebbe la testa ad entrambi, chi sa. A quel punto servirebbero due bare, due piccole bare, grosse quanto un orologio a cucù. Ecco, anche questa sarebbe una bella idea: stesso muro di prima, stesso salotto, stesso fuocherello che scoppietta, e due teste appese – non più solo una! – con un orologio a cucù in mezzo, a dividerle. Sarebbe uno splendido salotto del cacciatore svizzero, no? Oppure ancora, altra idea, altra suggestione visiva: due orologi a cucù, con le teste di madre e figlio che sbucano fuori a cinguettare l’ora, e poi si ritraggono, riposano sessanta minuti nelle loro bare a cucù, e poi di nuovo fuori: cucù! cucù! cucù! cucù! Sarebbe splendido, non trovate? Uno squisito affresco famigliare: il padre sul divano, e moglie e figlio sul muro.
Se invece fosse un padre di famiglia tradizionale, senza inventiva, uno di quelli che si struggono sulle tombe dei figli, che tirano pugni per terra e si strappano i capelli, se seguisse i dettami moralistici di questa società turpe che io rinnego, anche in questo caso non avrebbe di che lamentarsi, fortunato padre di famiglia. Basterebbe approfittare della splendida offerta 2×1, che ormai spopola fra gli appassionati di accessori mortuari: due bare al prezzo di una, proprio così: un’offerta u-ni-ca! Chiamate per informazioni lo 051.40.60, e scegliete la vostra nuova bara! Scegliete una Barinflex Plus, eletta dai consumatori prodotto dell’anno! Proprio così, dai consumatori, da voi! E allora non aspettate, telefonate! Anche perché questo – ed è una grande notizia – è il mese del ri-spar-mio! E quindi, se deciderete di acquistare una bara Barinflex, la seconda ve la regaliamo noi! E allora cosa aspettate? Chiamate per informazioni – 051.40.60 – e i nostri esperti Barinflex vi aiuteranno a scegliere la bara ideale per le vostre esigenze!

Mamma, invece, non spenderebbe un centesimo per la mia bara. Ce la vedo già, con un collant stirato sul volto e i lineamenti deformati, mentre trafuga il mio cadavere dall’obitorio. E poi me la immagino di fianco all’orticello di casa, che si appoggia alla pala con le due mani, esausta, e si passa un fazzoletto sulla fronte. E oplà!, fa scivolare la mia salma nella fossa, in pasto ai vermi, con un colpo di pantofola che si infila fra il mio sterno e la terra. Lo scavetto. Mo je faccio er cucchiaio. Gliel’ho già visto fare con Lenin, il jack russell che ci è morto quando avevo dieci anni. Un colpo di ciabatta ed era nella fossa, con la schiena riversa e le zampette a mezz’asta. Povero Lenin, non ho mai capito come fosse morto. Mamma ha detto che gli era caduto un mestolo in testa. Mah. Doveva pesare dieci chili, quel mestolo, perché Lenin aveva il cranio aperto come un albicocca, e una parte del cervello gli colava sul pavimento. Non ho voglia di ripensare a Lenin.

Ora premo il pulsante. Salteranno in aria tutti. Quel bambino salterà in aria per primo. E stasera saremo il primo servizio al notiziario, la prima pagina del quotidiano di domani. “Esplode ordigno in piazza Gramsci, ventuno morti. Attentatore muore nell’esplosione”. Si parlerà di me per dieci giorni, o almeno spero. Che inguaribile ottimista che sono. Beh, dai, come minimo una settimana. Intervisteranno mia madre che farà spallucce. Poi sarà il turno dei vicini, “Ma sì, guardi, lo conoscevo, ma neanche troppo sa. Giusto perché abitava nel quartiere, lo si incrociava qualche volta al bar, oppure sulle scale. Non salutava mai, pensi. Mai. Neanche un cenno con la testa, niente. Anche quando mi vedeva con la busta delle spesa, figuriamoci se mi teneva aperto il portone. Anzi, quasi quasi me lo chiudeva in faccia, pensi” – “E lei cos’ha pensato quando ha sentito dell’esplosione?” – “Mah, guardi, devo essere sincera, qui in quartiere ce lo aspettavamo un po’ tutti. Quello era pazzo, ve lo dico io”.
Ci sarebbero state trasmissioni, approfondimenti, fiumi di parole e di lacrime. Quella bella conduttrice che parla di cronaca nera, trucchi di bellezza, cronaca nera, Grande Fratello, cronaca nera, Uomini e Donne e cronaca nera, avrebbe parlato di me. Sicuramente. E chi sa cosa avrebbe detto; magari mi avrebbe difeso, magari mi avrebbe attaccato, compatito, disprezzato. Magari, osservando una mia foto sullo schermo dello studio, avrebbe detto: “guardate, era un così bel ragazzo, così giovane”. Ecco, ora sento che mi si drizza il pene sotto le mutande. Non devo pensare alle sue labbra che pronunciano il mio nome, se no mi vien voglia di masturbarmi. Mi vien voglia di correre in quel bar che c’è all’angolo, ordinare un caffè e farlo raffreddare sul bancone, mentre allungo il passo verso il bagno, comincio a slacciare la cintura ancor prima di aver chiuso la porta, e mi siedo sul gabinetto con il pene fra le mani. Op! Op! Op! La bella conduttrice che fa la faccia triste, mentre ascolta i famigliari delle vittime, che scuote la testa, mentre ripete che avevo solo ventiquattro anni, che quasi si commuove, mentre pensa al bambino con il lecca-lecca a cui si è recisa la testa dal collo. E poi lei che ripete il mio nome, che inframezza l’anafora con qualche gemito, che strepita consenso – “sì! sì! sì! ancora!” –, mentre struscia la schiena contro il muro, su e giù, su e giù, con gli occhi chiusi e la bocca aperta. E poi un brivido che ci coglie entrambi, e io che sprofondo la testa nel suo seno, lei che mi posa le labbra sulla nuca. Ed entrambi sospiriamo godimento.

Ecco perché non devo pensarci, perché se mi masturbo perdo la forza, lo slancio vitale. Voglio che tutto vada per il verso giusto, questa volta.
Ora premo il pulsante. Salteranno in aria tutti. Non voglio che mi diate ragione, io di ragione ho la mia, soggettiva, relativa, come tutto. E tanto basta.

Cheese.

 

Paolino Diaz

 

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