Sohn @Circolo degli Artisti (10/2014)

Il fascino dell’oscurità e del mistero..

A Roma ormai è finita l’estate: lo rendono evidente le giornate piovose, le mattine fredde che rendono impossibile buttarsi fuori dalle coperte e le serate che si preferisce passare a casa perché “sai domani devo lavorare”.

Venerdì sembrava voler rimarcare questo concetto fino in fondo, con una diabolica combinazione di pioggia, turno di lavoro del sabato mattina e incidenti in tangenziale. Tutto questo e in più quella spregevole vocina che mi dice che siamo solo all’inizio, e mi aspettano quattro mesi così. Io non cedo, mi porto un ombrello, faccio il muro torto e arrivo al Circolo degli Artisti con una puntualità che fa spavento anche a me.

Armata di birra e buona volontà vado a conquistarmi un posto sotto il palco, impresa che si rivela poi più semplice di quanto immaginassi: in tutto saremo stati in dodici, compresi barman e tecnici del suono. Perlopiù si tratta di aficionados dei concerti («Come stai?! Non ti vedevo da Bon Iver a Milano»), che come me scriveranno il report dell’evento, e di un gruppo eterogeneo di stranieri che se sul biglietto c’è scritto nove e mezza loro si presentano alle nove e mezza. I romani invece alle undici.

 

Sul palco salgono i Fyfe, duo inglese electro-pop che fa da apertura a Sohn. Anche non conoscendoli li apprezzo subito, perché hanno quella componente che quando si parla di elettronica tutti tendono a dimenticare, cioè la semplicità: una voce, un chitarra, un computer e una batteria elettronica. Tutto molto chiaro e pulito, poche distorsioni del suono, piacevole come un antipasto delicato che non rovina la bocca per la portata principale. Insomma nonostante i quindici elementi del pubblico e la febbre del cantante se la cavano ben oltre le mie aspettative.

 

Trepidante aspetto che salga sul palco Sohn, incuriosita sia dal personaggio sia dalla quantità di lampade al neon che stanno portando sul palco. Sohn è uno di quegli artisti colpiti dalla maledizione del ‘mi ricorda qualcuno’: chi lo definisce come il nuovo James Blake, chi invece lo ritiene più simile a Jamie Woon o, come qualche sera prima aveva dichiarato un mio amico in macchina, «zì, pare un botto Bon Iver».  Questo è ciò su cui rifletto nell’ora di buco che viene lasciata tra l’esibizione dei Fyfe e l’ingresso sul palco di Sohn.

Ma Sohn in effetti è solo uno degli artisti di questo periodo, con un’immensa voce soul, che decide di fondere elettronica, pop e r&b, cosa che nonostante l’attesa da primadonna lo fa rimanere nella mia lista Sì. Un po’ una versione europea di Chet Faker insomma. Eccola là che ritorna la maledizione, neanche io scampo al luogo comune di associarlo a qualche mia esperienza musicale passata.

 

Ecco che verso le undici sale questa figura imponente, zuccotto di lana nero in testa e sopra una cappa nera con cappuccio, immerso nel fumo artificiale in un’atmosfera di semioscurità. Illuminato solo da un faretto blu dietro di lui, Sohn inizia a cantare ed è subito chiaro chi sia a far da padrone in questa esibizione: l’oscurità.

Inizia piano piano l’inglese, con i suoi brani più intimistici, melodie armoniose che trasportano parole d’amore, cullate da sintetizzatori e da una voce più che importante, come “Tremors“, che racchiude in sé l’intimità di una camera da letto, voce e base si scoprono come due amanti inesperti.

Sohn incita il pubblico tra un brano e l’altro, ma durante l’esibizione è un tutt’uno con la musica: occhi chiusi e mani che navigano nell’aria, come se stesse dipingendo le note mentre le canta. È un momento magico, uno di quegli attimi di totale immedesimazione nella musica.

Il pubblico lo segue fedelmente e lui, come un cane pastore, lo guida attentamente, brano dopo brano in un crescendo di emozioni; vuole che ci siano tutti dietro a lui, che nessuno sia lasciato indietro, quando aumenta il ritmo e alza il livello dell’esibizione.

 

Le luci illuminano il palco di blu, rosso, verde e viola e Sohn spinge sempre di più l’acceleratore, abbandona i pezzi che ti toccano l’anima e attacca con quelli che ti fanno ballare tutta la notte, meno soul e più dub, i beat che si rincorrono e inciampano su sé stessi, la voce che guida come sempre e districa tutto ciò che altrimenti sembrerebbe solo un gran casino.

Perché è la voce indubbiamente che da un valore all’astrattismo elettronico del giovane artista, senza la quale sarebbe l’ennesimo producer che muove i primi passi della sperimentazione strumentale. La voce è la protagonista della serata e reclama i suoi cinque minuti di fama con una versione a cappella di “Tempest” da togliere il fiato, capace anche di azzittire un pubblico di romani.

Chiude un concerto tutto in salita con “Artifice” e un’esplosione di luci rosse, impazzite come il pubblico, come i ritmi delle basi, come le mani di Sohn.

 

Il concerto è finito, riprendo la macchina e torno a casa. L’estate è finita qua a Roma. Sohn ha portato definitivamente in questa città l’autunno, le giornate più corte e il freddo che ti entra nelle ossa. Ma il giovane inglese mi ha ricordato anche il fascino dell’oscurità e del mistero, e che se tra le tenebre di questo inverno si nascondono sorprese così, forse riuscirò a sopravvivere fino a primavera.

 Eleonora Paesani

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