Slowdive @Radar Festival (07/2014)

Per la prima volta in Italia e a vent'anni dallo scioglimento. Un evento imperdibile al Radar Festival di Padova

Da dove si parte quando si vuole descrivere forse il concerto più importante della propria vita?
Il dubbio addirittura è se parlarne. Come posso raccontare l’emozione di veder salire sul palco una delle mie band preferite dopo quasi vent’anni di inattività?
Cominciamo dall’inizio.

Nel 1996 io avevo sedici anni e un pessimo gusto nel vestire. In quel periodo, o poco prima, venivano gettate le basi per la donna che sarei diventata. Musicalmente parlando.
Un mio amico mi fece ascoltare per la prima volta “Just For A Day“, album di esordio di un gruppo inglese chiamato Slowdive.
Potrei mettermi a spiegare che gli Slowdive sono una band inglese formatasi nei primi anni ’90, con all’attivo solo tre album. Si sono sciolti nel 1995 e confinano a nord con lo shoegaze, a sud con il dream pop e bla bla bla.
Ma se non siete stati adolescenti in quegli anni e cresciuti con certe sonorità, la cosa più difficile è spiegare il brivido lungo la schiena quando l’inverno scorso è stata annunciata la reunion.
Naturalmente i biglietti sono stati presi con largo anticipo, anche se era possibile acquistarli direttamente in loco. Già qui, che gli Slowdive non hanno registrato il tutto esaurito, mi lascia sorpresa. Ma io ragiono con la testa di un innamorato e perciò non imparziale.

Quindi vado avanti, fino al giorno della partenza, quando ci muoviamo alla conquista dell’Italia oltre il Raccordo.
Prima tappa, Toscana. Decidiamo di fermarci una notte in quel di Cetona (SI) prima di rimetterci in marcia verso Padova, giusto per affrontare il resto del viaggio confortati da una faraona al forno e una bottiglia di Chianti.
Il giorno dopo arriviamo nel Veneto. Tempo di posare le valigie in un albergo di quelli da viaggio di affari -dove io e il fidanzato stoniamo come i cavoli a merenda- e di fare un giretto per Padova, che è ora di dirigerci al concerto.

Gli Slowdive suonano durante una manifestazione chiamata Radar Festival“, giunto alla sua quarta edizione e ospitato negli spazi dello stadio Euganeo.
In quanto festival, il Radar si presenta con una line-up di cui il gruppo inglese è la punta di diamante, ma non da meno sono gli altri nomi presenti. Se non altro perché sono tutte band italiane e quindi una botta di patriottismo ogni tanto ci sta.
L’area dei concerti è piuttosto ampia, ci sono due palchi, i punti ristoro (pure troppi per una a cui piace mangiare) e le onnipresenti bancarelle che da Treviso a Noto vendono sempre la stessa cianfrusaglia.
La serata è perfetta, le birre ottime e il tempo scorre piacevole fino all’esibizione del primo gruppo, i Brothers In Law.
Come scopro, tutte le band -tranne gli Slowdive ovviamente- sono di Pesaro. Il che potrebbe aprire tutta una serie di considerazioni socio-politiche, che qui limiteremo a un banale: “Ma guarda te queste Marche!”, se no non andiamo più avanti.
I Brothers in Law sono dei ragazzini, dubito anche del fatto che i baffi sul viso del cantante siano veri e non comprati in qualche negozio cinese.
Eppure quando salgono sul palco dimostrano di sapere il fatto loro e di meritarsi la critica positiva per il loro primo Lp “Hard Times For Dreamers“. Mescolano atmosfere wave con le chitarre distorte dei My Bloody Valentine e lo fanno in maniera impeccabile.
Stessa cosa, purtroppo, non si può dire per i successivi Be Forest che si esibiscono sul main stage.
Premesso che è la prima volta che li sento, la mia è un’opinione sulla mera esecuzione. Si comincia da un’intro strumentale che ricorda gli XX, per poi continuare con quelle atmosfere tanto cupe quanto eteree dei Cranes e dei Cocteau Twins.
Fin qui tutto bene, ma forse qualcosa non va nell’impianto (forse, perché quando sullo stesso palco salgono gli Slowdive è letteralmente tutta un’altra musica). Fatto sta che la loro esibizione dopo un po’ mi stanca.
Tuttavia, il giorno dopo mi sono precipitata ad ascoltare qualche loro pezzo su web e, signori, sono incredibilmente bravi.
Terzo e penultimo gruppo: i Soviet Soviet, di cui avevo già potuto apprezzare il lavoro “Fate“.
Loro portano avanti sonorità più dark che ricordano i primissimi Cure, accompagnate da una voce sottile e un po’ nasale alla Brian Molko.
Che dire, bravi. Bravi ed euforici. Si muovono tanto e fanno anche muovere. Peccato per una qualche mancata coordinazione che li continua a far suonare mentre fa la sua comparsa la band inglese.
A quel punto, non ce n’è più per nessuno. La folla sciama come un ordinato branco di bisonti che si va ad abbeverare al fiume. All’improvviso sul main stage ci sono gli Slowdive e i miei sogni di adolescente si concretizzano in quel momento.
È come scoprire a trent’anni che Babbo Natale esiste davvero, mentre ti stringe la mano sulla scalinata del Louvre. La sindrome di Stendhal all’ennesima potenza.
Recentemente mia cugina è andata a vedere gli One Direction dal vivo e ha pianto. Mia cugina ha dodici anni. Mia cugina ha il diritto di sentirsi così.
Io a trentatré ho sentito il mento tremare quando hanno fatto il primo accordo, poi gli occhi bruciare e alla fine (alla seconda canzone) ho salutato la mia dignità.
Gli Slowdive sono gli stessi delle foto in bianco e nero degli anni ’90, più grandi, addirittura più belli.
Neil Halstead ha tanti capelli e tanta barba, suona quasi in disparte come se gli avessero comunicato solo poco prima cosa dovesse fare.
Rachel Goswell è affascinante e materna mentre sorride al pubblico, vestita di scuro con le scarpe rosse di Dorothy pronta a portarci nel mondo di Oz.
E nomino loro in qualità di coppia-simbolo della band senza nulla togliere agli altri membri. Solo la pedaliera di Savill vale l’intero concerto.

Ma come è successo a ognuno di noi, arriva la parte in cui qualcuno si lascia sfuggire che Babbo Natale è una favola raccontata dai genitori di tutto il mondo. E quella felicità incrollabile, che comincia i primi di novembre per finire a gennaio, viene scalfita.
Scalfita, badate bene, non distrutta.

Con gli Slowdive questo succede durante l’esecuzione di “Blue Skied An’ Clear“. Resa più veloce, più ritmata, meno estatica dell’originale.
Diventa un’altra canzone e io come una bambina vorrei urlare che non la voglio, non quella. Io avevo chiesto quella vera, quella in cui si aprono i cori come la vallata ne”La bella e la Bestia” che appare ed è subito fiaba. Invece si va di fretta dove dovrebbe esserci la calma paradisiaca.
Capita di nuovo su “Crazy For You“.
Ma è una parentesi (pesante quando aspetti con ansia un concerto) tra le atmosfere di “Alison“, “Machine Gun“, “When The Sun Hits” e “Souvlaki Space Station“.
I pezzi della nostra adolescenza sono tutti lì. Anche “40 Days” durante l’encore.

E così come il 25 dicembre passa più in fretta dell’attesa di esso, gli Slowdive salutano e se ne vanno, non una parola di più, non una di meno.
Come posso spiegare l’emozione provata in questa serata con una sola immagine?
Ricordando di quella volta in cui ho scoperto i miei genitori mettere i regali sotto l’albero e, ciò nonostante, dicembre è ancora il mio mese preferito.
Perciò ciao Slowdive, non so se quello che ho visto è tutto vero, ma io rimarrò sempre “crazy for you”.

Agnese Iannone

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