(senza titolo)

Prima che tutto il mio essere, vittima del freddo e del gelo che mi circondano, cada nell’oblio e la mia stessa mente perda il potere di richiamare alla memoria quanto mi accadde nella mia pur breve esistenza, lascio queste quattro note a quanti verranno dopo di me, spero che sappiano farne buon uso.

Facevo parte di una delle tante squadre suicide che di tanto in tanto il nostro governo allestisce per lanciarle in operazioni disperate finalizzate ad assicurare la sopravvivenza della struttura sociale di cui, bene o male, facciamo tutti parte. Durante il corso di addestramento ci era stato ripetuto più volte che l’importante non era l’integrità di tutto il gruppo, ma che almeno a uno solo di noi riuscisse di giungere alla meta e conquistare la postazione, che tutti gli altri, poi, potessero morire nello strenuo tentativo era cosa della minima importanza, anzi, era preventivato. La consapevolezza di far parte di una struttura determinante ci riempiva di un orgoglio e determinazione tali che, a volte, il nostro comando riusciva a stento di trattenerci dall’entrare in azione. Si vociferava che all’inizio, quando il nostro organismo era stato istituito da poco, più di una volta era capitato che alcune unità, prese da impazienza e ardore giovanile, approfittando della notte e dell’allentarsi del controllo dei capi, avessero preso il sopravvento e si fossero lanciate in una missione inutile e velleitaria, andando così in contro ad un inutile sacrificio di tutti i membri. A seguito di questi spiacevoli avvenimenti si prese la consuetudine di informare tutti noi di quanto fosse disdicevole sacrificarsi a vuoto, paragonando simili comportamenti ad atti contro la patria.

Nel mio gruppo non c’erano veterani, nessuno poteva raccontare cosa sarebbe accaduto quando ci avrebbero dato l’ordine di gettarci all’assalto, ma, tuttavia, forse per una qualche strana eredità di memoria genetica, tra di noi si parlava che, in passato, chi ci aveva preceduto era andato a spiaccicarsi contro pareti plastiche o aveva trovato una morte orribile in sostanze chimiche irrorate sul campo di battaglia dal nemico. Dopo la prima settimana di permanenza nella caserma centrale venni scelto insieme ad altri miei compagni e trasferito in un nuovo stabile, poco distante dalla base.. era il segnale che per noi si stava avvicinando il momento di entrare in azione.  Era un locale più angusto e buio dal quale potevamo avvertire tutti gli stimoli provenienti dal mondo esterno.. faceva parte della strategia psicologica per caricare i nostri nervi e renderci ancora più aggressivi non appena ci fosse stato dato l’ordine di andare all’attacco. Stavamo accalcati gli uni sugli altri, urtandoci spesso e, cosa ancora più penosa, avevamo perso parte di quello spirito di corpo che sino allora ci aveva unito: ognuno di noi sperava di essere lui il fortunato a giungere alla meta e sapeva in cuor suo che non avrebbe mosso un solo muscolo per aiutare un compagno in difficoltà. Poiché era stato stabilito che quella volta era della massima importanza che la spedizione giungesse a buon fine, dal comando supremo seguitavano a giungere altri giovani perché si unissero al nostro gruppo. Il nervosismo era al limite e lo spazio troppo ristretto, più volte si corse il rischio che si ripetessero uno dei deprecabili tentativi di uscita non preventivata, ma grazie alla ferrea preparazione furono contenuti.

Ricordo ancora oggi quando giunse il giorno fatidico.  Improvvisamente, mentre ormai mi ero quasi rassegnato alla inazione, fui violentemente sospinto verso l’uscita della camerata, lungo lo stretto corridoio che conduceva alla porta di lancio.  Lo percorsi di corsa, con il fiato in gola ed, in fine, mi gettai fuori, insieme a coloro con i quali avevo condiviso più strettamente le ultime settimane di permanenza nella sezione distaccata. Mi aspettavo il buio ..trovai la luce. Credevo che attorno a me ci sarebbe stato calore ..faceva freddo. Dopo la caduta libera mi accorsi che per un imponderabile motivo la nostra missione era diversa dalle altre: nessuna corsa verso la postazione nemica da conquistare, ma ci trovavamo all’interno di un carcere dalle pareti trasparenti. Dopo il primo momento di disorientamento mi resi conto che ci avevano mandato li per poter essere analizzati uno per uno e studiati nelle nostre effettive possibilità. Il periodo di osservazione durò un paio di giorni, quando mi scelsero capii che ero stato destinato ad una operazione il cui risultato doveva essere quasi certo e per la quale era sufficiente un solo e valido elemento. Ero molto fiero di me, non sapevo invece che sarebbe stata la mia lenta agonia. Pochi giorni dopo che ero stato scelto e isolato dagli altri giunse un ordine dall’alto che bloccò ogni iniziativa e fui relegato in una cella affinché non parlassi con alcuno.

Ecco, ora, in questo luogo di isolamento non ho altro conforto che ripensare a tutto ciò che avrei potuto fare e che mi è stato negato. La temperatura sta calando sempre di più e sento che presto sarò quasi totalmente devitalizzato. Non ho alcuna speranza di tornare nel pieno possesso del mio essere, fin quando qualcuno, pietoso, non mi richiamerà in vita per assegnarmi alla missione per cui ero stato scelto, o mi darà il colpo di grazia gettandomi nell’acqua.

(da: memorie di uno spermatozoo)

Melog

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