Ritratto di un realista malinconico

Gabriel Garcia Màrquez e il "realismo" della sua magica consapevolezza

Dal troppo amor di vita, da speranze e da timori liberati, ringraziamo con breve preghiera gli dèi, quali che siano, che nessuna vita vive per sempre… che anche il più stanco fiume trova riposo nel mare.

 

Si teneva al riparo dalle telecamere e dall’enorme notorietà alla quale il suo talento lo aveva esposto. Di lui, negli ultimi anni, si diceva che fosse nascosto in una delle città immaginate e sognate nei suoi romanzi.

Gabriel Garcia Màrquez era un sudamericano atipico, un uomo triste come egli si definiva. Nato ad Aracataca in Colombia nel 1927 può essere considerato il più grande scrittore in lingua spagnola dopo Miguel de Cervantes. Nelle interviste che ha rilasciato emerge il ritratto di un uomo appassionato, discreto, dolcemente malinconico, quasi inconsapevole dell’enorme talento che qualcuno gli aveva donato. Quell’entità ineffabile che lo tiranneggiava e, ad un certo momento, prendeva la sua mano piegandola a scrivere capolavori di bellezza ineguagliata.

«La letteratura è un modo per salvarsi» diceva, «per mettersi al riparo dalla vita reale, è un modo per riscattare le frustrazioni, attingere energia vitale e riprendere il cammino. La letteratura ci aiuta a sopportare le esperienze negative della vita, prepara gli uomini ad affrontare le difficoltà con maggiore consapevolezza». La letteratura è una cosa semplice in fondo, basta prendere un foglio di carta o un quaderno e cominciare a narrare la vita. Di questo Marquez era fermamente persuaso, quando faceva dire ad un suo personaggio: «È vero, come dicevano le canzoni, che l’amore può tutto? –È vero– le rispose lui –ma farai bene a non crederci».

Lo stile scorrevole, immaginifico e ricchissimo è intessuto di una ironia amara. Inquadra i personaggi e li descrive sfogliandoli, come si fa con un libro. Le sue opere parlano di un’altra realtà, quella che non riusciamo a scorgere con gli occhi del corpo. «Dietro quello che vediamo, la realtà immediata, esiste un’altra realtà che solo l’intuizione poetica riesce a captare, ed è questo che appare fantastico nella mia opera».

A “Gabo” non piaceva la definizione che i critici gli attribuirono, quella di massimo esponente del Realismo magico. A chi gli chiedeva di collocare la sua letteratura rispondeva: «In verità sono un realista e basta, solo che la realtà delle nostre latitudini può presentarsi come “magica” agli occhi di chi non la conosce».

 

Quando lessi per la prima volta “Cent’anni di solitudine“, fui letteralmente travolto dalle immagini che la sua prosa suscitava nella mia mente. La sapienza stilistica di cui era dotato dominava il tempo, lo plasmava come se fosse una materia duttile. Si veniva trascinati nelle innumerevoli storie parallele che narrava e, senza mai creare un ingorgo, il flusso narrativo procedeva ordinato sino alla conclusione. La figura retorica dell’analessi, ben dosata nei suoi romanzi, fu uno strumento che seppe utilizzare con sagacia. Il tema centrale di tutta l’opera è quello della solitudine, che Marquez non descrisse con tonalità oscure ma con la consapevolezza di una realtà presente nella nostra vita. «…credo che tutta la mia vita e tutta la mia opera sia servita a rispondere a un’unica domanda: cos’è la solitudine? Si parla della solitudine del potere, la solitudine del maratoneta, di quella dello scrittore. Si parla della solitudine di tutti così si può sospettare che quello che succede è che tutti, assolutamente tutti, siamo soli. Il fatto è che se riuscissi a decifrarlo probabilmente non scriverei più perché appunto io scrivo per conoscere cos’è la solitudine. Quindi preferisco non saperlo e proseguire a scriverne ancora per tanto tempo». Diceva Gabo.

Nulla vive per sempre e ad ogni inizio segue una fine, la clessidra del tempo viene sempre di nuovo capovolta. I personaggi di “Cent’anni di solitudine“, da José Arcadio Buendia ad Aureliano Babilonia, si muovono sotto l’egida della sua fantasia e sono intrisi di simbologie, magia dei luoghi e metafore. Cent’anni di solitudine di una grande famiglia i cui componenti vengono al mondo, si accoppiano e muoiono per seguire un destino ineluttabile, in attesa della nascita di un figlio con la coda di porco. Pubblicato nel 1967, scritto in un anno e mezzo, ma meditato per più di quindici anni, l’opera gli valse l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1982. La città di Macondo diventa un luogo dell’anima e un universo di solitudini incrociate, impenetrabili ed eterne, dove galleggia una moltitudine di eroi maschili predestinati alla sconfitta, cui fanno da contraltare la solidità e la sensatezza dei personaggi femminili. Su tutti domina la figura del colonnello Aureliano Buendìa, il primo uomo nato a Macondo, colui che promosse trentadue insurrezioni senza riuscire in nessuna, che ebbe diciassette figli maschi e glieli uccisero tutti, che sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione per finire i suoi giorni chiuso in un laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro. Di questo capolavoro ti resta il percorso dell’umano, le esistenze che come rivoli attraversano il mondo per poi spegnersi, di generazione in generazione.

Marquez immagina l’umanità come un organismo che respira, possiamo verificarlo anche noi. A Macondo tutto ciò che è vivo è destinato a morire, le case ora sono piene ora si svuotano, le persone ora ci sono ora non ci sono più. La respirazione della vita popola i luoghi riempiendoli di rumore, poi li desertifica rendendoli muti e silenti. È il romanzo delle distruzioni e delle rinascite, una metafora dell’esistenza di ciascuno. “L’amore ai tempi del colera” è la storia di un sentimento immenso e irrefrenabile. I protagonisti sono Florentino Ariza e Fermina Daza, i due si innamorano follemente ma tale amore, però, non avrà coronamento prima di «cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese». Si incontrano da ragazzi, lui resta folgorato dalla beltà e grazia di Fermina, si innamorerà anche lei ma suo padre le impedirà di legarsi a Florentino. Sposerà un affermato medico verso cui, lentamente, proverà nulla più di un semplice affetto. Florentino Ariza la seguirà con gli occhi, le vivrà accanto, l’aspetterà per oltre cinquantatré anni. Dopo la morte del marito si farà avanti e, ormai anziani, riusciranno a celebrare il loro amore. È la storia di un amore intramontabile e dell’impossibilità di sottrarsi all’autenticità dei sentimenti.

 

Un’altra pietra miliare è “Cronaca di una morte annunciata“. Lessi il romanzo due volte consecutive. Volevo penetrare la sua complessità strutturale ed entrare dentro la cronaca dell’omicidio che veniva raccontato. Il libro narra la vicenda di Santiago Nasar che, accusato di aver tolto l’onore ad Angela Vicario, viene ucciso dai fratelli di lei, Pablo e Pedro, la mattina dopo le nozze. Quella stessa mattina, infatti, il marito, Bayardo di San Roman, ripudia la moglie, rimandandola nella casa paterna. È un capolavoro sconvolgente, una grande e geniale creazione sui temi dell’onore e della fatalità. La storia viene raccontata a ritroso e su diversi piani, seguendo il punto di vista dei personaggi: I fratelli Vicario hanno deciso di uccidere Santiago Nasar. La voce ha messo in allarme l’intero paese, tranne la vittima designata. Gli abitanti erano consapevoli dell’intento omicidiario dei Vicario, ma il delitto non è stato evitato. La morte annunciata si compirà terribilmente.

 

Da qualche giorno il cuore di Gabo ha smesso di battere. Sono sicuro che le sue storie e le sue passioni continueranno ad animare la nostra vita.

Giuseppe Cetorelli

 

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