Ricordati di me

Racconto breve...

«Vedi, quella che ti è successa, è una cosa molto strana».
«C’è da preoccuparsi, Doc?».
«Beh, più che una cosa strana, ecco, direi, ha un nome molto complicato. Ragazzo mio, credo che tu soffra di athazagorafobia».
«Di che si tratta, Doc?» dissi, chiudendo gli occhi lucidi e immobili.
«È la paura di dimenticare, ragazzo mio».

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Ricordati di me

Inappetenza, perduranti stati di agitazione, lacrime agli occhi, cali di concentrazione: questi erano i sintomi che da alcune settimane rendevano la mia vita un piccolo inferno privato.
Qualcosa di difficile da spiegare.
Fissavo le foto di Irene. Erano tutte fuori fuoco.
Come era possibile? Non sembrava più lei, non riuscivo a distinguerla dallo sfondo.
Completamente sbiadite, ingiallite, come se si trattasse di immagini di repertorio, foto d’epoca.
Eppure non era passato nemmeno un anno da quando erano state scattate.
Come avevano potuto invecchiarsi in così poco tempo?
Di lì a breve le cose degenerarono e si verificò la prima crisi.

Successe che ero appena tornato dal lavoro.
Iniziai a pensare a Irene, come accadeva praticamente ogni giorno.
Che sensazione orrenda, in quell’occasione il mio pensiero non riusciva a trovare compimento: oddio, in sostanza non riuscivo ad elaborare la forma degli occhi della vecchia Ire.
E più mi sforzavo e più tutto appariva sfumato e sulfureo.
Avevo in mente gli zigomi, le sopracciglia, ma non ero in grado di elaborare i suoi occhi.
La malinconia mi cinse le spalle. Presi a respirare con affanno, poi sentii una stretta alla pancia ed il cuore andare veloce come le vergini comete. Era un attacco di panico.
Piangevo come un grillo, avevo paura di morire.
Tesoro, dimmi tu, come è potuto accadere di perderti in una matassa di pensieri blu?

Io e la vecchia Ire ci eravamo mollati un anno fa, senza troppi rimpianti, senza troppe complicazioni ataviche.
Era accaduto, lo avevamo accettato, con un soffio di tristezza sui capelli e la pelle d’oca a correrci sul collo.
Ci guardavamo a distanza, abitanti di due universi abbastanza lontani da non lasciare intravedere stazioni di servizio a metà strada.
Tuttavia il processo di separazione, per quanto tormentato, sembrava non avere ucciso nessuno dei due.
Non c’era un giorno in cui io non pensassi a Irene, ma era soltanto una lieve nostalgia.
Non potevo immaginare che poi le cose avrebbero preso quella piega.

Ebbi la seconda crisi che era un sabato pomeriggio, mentre ero in macchina per andare in centro. Passai velocemente davanti l’incrocio dove la conobbi.
Provai a ripensare a come andarono le cose in occasione del nostro primo incontro.
Non ero in grado di ricostruire, la mente era offuscata dalla nebbia, stavo di un male cane.
Scusami Ire –pensavo– scusa davvero, non so che mi succede, ho qualcosa che non va, non avrei mai voluto cancellarti ma mi stai sfilando via, non ho colpa, perdonami amore, davvero.
Di nuovo la tachicardia, un buco nero profondo e senza uscita, il panico che danza sulle note di una ballata vuota.
Persi il controllo dell’auto e andai a impattare contro un palo della luce.
Ora mi era chiaro che qualcuno doveva aiutarmi.

Dopo tre settimane di terapia, il dottor Nove, stimato psicoanalista, mi disse: «Vedi, quella che ti è successa, è una cosa molto strana».
«C’è da preoccuparsi, Doc?».
«Beh, più che una cosa strana, ecco, direi, ha un nome molto complicato. Ragazzo mio, io credo che tu soffra di athazagorafobia».
«Di che si tratta, Doc?» dissi, chiudendo gli occhi lucidi e immobili.
«È la paura di dimenticare, ragazzo mio».

Restai smarrito nel vapore acqueo delle parole del Dottor Nove.
«Si tratta, come ti dicevo di una cosa abbastanza rara. Questa fobia, nella sua forma più comune, consiste nella perdurante paura di essere dimenticati dagli altri, ma, talvolta, in ipotesi più remote, l’athazagorafobia capovolge la propria prospettiva e il paziente vive nel terrore di dimenticare, qualcosa o qualcuno».
La mia mente nascondeva i ricordi di Irene, li rendeva a sè stessa non intellegibili.
E Gli attacchi di panico e gli altri sintomi non erano altro che la reazione della mia psiche alla paura che si era insinuata in me e mi manipolava, ossia quella di dimenticare Irene, di rimuovere inconsciamente qualsiasi ricordo di lei e della nostra relazione.
Ma c’era qualcosa che non mi tornava.
«Eppure, Doc, non capisco come possa essersi innescato questo processo. Le spiego, la nostra storia non ha avuto un epilogo drammatico, è stata una decisione unanime, serena se vogliamo, non capisco perché la mia mente abbia reagito così».
Il Dottor Nove sfregò le dita sulla barba secolare, poi prese a parlare: «Come tutte le fobie, anche questa, scaturisce da un evento traumatico, in latino, ehm ehm, “eventus damni”, quasi certamente latente, sepolto in fondo al subconscio. Ragazzo, ti parlo di un momento che ti sarà potuto sembrare irrilevante quando si verificò, ma dal quale discende, certamente, la paura di dimenticare questa ragazza, Irene».

Nei giorni che seguirono cercai ininterrottamente notizie su internet e feci il giro di tutte le biblioteche della città: dalle mie ricerche, effettivamente, sembrava trovare conferma quanto mi aveva diagnosticato il Dottor Nove.
L’athazagorafobia si annidava dentro di me, vivevo nella paura e nel senso di colpa smisurato verso la vecchia Ire, perché, senza volerlo, la stavo irrimediabilmente perdendo di nuovo, e, stavolta, per sempre. Poi venne la terza crisi di panico.
Ero accartocciato nel mio letto, appena entrato nella prima fase del sonno.
Era un sogno così reale: stesi su una lingua di spiaggia, io e la vecchia Irene, occhi negli occhi, mentre il mare di fronte a noi esplodeva in sapienti piroette.
«Ricordati di me» diceva Irene, nel frattempo si allontanava, un passo indietro per volta «ricordati di me» e poi via, fino a scomparire nella brezza marina.
Mi svegliai di scatto, ma non c’era più nulla da fare, non riuscivo a rielaborare il volto, nè il corpo, nè qualsiasi altra cosa: la mia Irene era stata scomposta in frammenti impercettibili dalla paranoia, adesso di lei, nella mia mente, rimaneva solo la forma del suo nome.
Gridai, mi mancò l’aria ed ebbi una crisi cardiaca, mi salvarono i vicini.

Giorni dopo, in uno sciame di singhiozzi e lacrime, raccontai tutto al dottor nove.
Mi diede un potente sedativo e mi calmai, poi mi disse con tono perentorio: «Ragazzo, se vuoi salvare te stesso devi prima salvare Irene».
«Che cosa significa, doc?» Chiesi con un filo di voce.
«Ritengo che, ehm, tu debba cercare quella ragazza, spiegarle tutto. Bisogna individuare l’eventus damni e superarlo. Beh, vedi, ehm, ragazzo, in questo io non posso aiutarti, è una cosa che dovete fare insieme, tu e lei».
È così sia.
Per l’ultima volta, insieme, io e te, nelle cripte della mente, nei cassetti a scomparsa della vita, cercando di capire, vecchia mia, cosa è successo tra noi, indagando se sei quella di sempre, sfiorando con le dita la consistenza dei ricordi.
Ero pronto a tutto per uccidere la mia paura liquida, cominciai a cercare Irene il pomeriggio stesso. Mi feci forza, presi il telefono e la chiamai.
Oddio, non ci sentivamo da un anno. Il numero risultava inesistente.
Maledizione, doveva averlo cambiato. Che fare?
Non c’erano troppe altre soluzioni: sarei andato a casa sua, dovevo vederla, oramai era indispensabile. E dunque mi misi in macchina.
Correvo veloce, spinto dal soffio ammalato dell’athazagorafobia.
Ma dopo dieci minuti ero punto e a capo: che sconforto, che disperazione, non ricordavo dove abitava la vecchia Irene, lo avevo rimosso!
Nei giorni seguenti mi resi conto di quanto potesse essere difficile trovare Irene senza sapere praticamente più nulla di lei.
Quello che era stato il mio amore, in poco tempo, era diventato solo una di sei miliardi di esistenze sconosciute. In sostanza non ricordavo chi fossero i suoi amici, dove lavorasse, che posti frequentasse, Irene era un ago nel pagliaio affollato della città.
E se anche l’avessi incontrata sarei stato in grado di riconoscerla? Sei troppo lontana amore, soltanto un nome oramai, soltanto un suono muto, troppo poco per sperare che questa disperazione si neutralizzi e voli via.
E continuavo a fissare quelle foto, il suo volto era come sbiadito dal vento.

Avevo perso chili, ore di sonno, aderenza alla vita: la mia infruttuosa ricerca mi stava lentamente logorando. Una mattina ricevetti una chiamata da mia madre, mi chiedeva insistentemente di andarla a trovare, voleva parlarmi con una certa fretta.
Arrivai in casa dei miei. Seduti intorno a un tavolo c’erano mio padre, mia madre, i miei fratelli e il Dottor Nove.
Non riuscivo a capire.
«Doc, che ci fa qui? Che vuol dire tutto questo?».
«Tesoro siediti» disse mia madre.
Non riuscivo a comprendere cosa stesse avvenendo.
Poi riprese a parlare «Siamo stati contattati negli ultimi tempi da questo dottore che ci ha spiegato la tua situazione».
Ai miei non avevo mai detto nulla della mia fobia, non volevo allarmarli. Così cercai di spiegare. «Mamma, soffro di athazagorafobia, non è nulla di grave, sul serio, è la paura di dimenticare qualcuno, ma state tranquilli, niente di grave, glielo dica Doc, glielo dica lei».
Nel silenzio tombale della stanza, mia madre riprese la parola: «Non è di questo che vogliamo parlarti», poi un sospiro profondo e continuò: «Vedi, tesoro, questa ragazza, Irene, non è reale, lei non esiste».
«Non capisco».
Il Dottor Nove si alzò dalla sedia, «Ragazzo mio, Irene è stata un frutto della tua immaginazione, per questa ragione non ricordi nulla, lei al di fuori della tua mente non è mai esistita».

Adesso le cose vanno meglio.
Ho smesso di lavorare, passo tanto tempo a casa, riposo moltissimo.
Prendo certe pillole che dicono siano prodigiose.
Il Dottor Nove mi sta seguendo nella terapia, dice che faccio continui passi avanti.
Ogni tanto la notte sento la voce dolce della vecchia Ire che mi sussurra all’orecchio «ricordati di me», quando succede mi giro dall’altro lato e mi dico che è soltanto un altro strano sogno blu.

di Giuseppe Catanzaro

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13 Comments

  • Scherzi del cuore che passano per la mente…
    Meraviglioso Catanzaro.. tra le cose più belle che leggo negli ultimi tempi,dovevo dirlo!

  • C’è uno stralcio di tutte le nostre fobie in questi racconti. Leggerli con la leggerezza e crudezza di questo stile è quasi esorcizzante. e poiché la cosa non è risolutiva , sono sempre in attesa di nuovi racconti di Giuseppe C.
    Grazie Uki……vi voglio bene! <3

  • Non che sia una delle migliori canzoni in circolazione, ma mi è saltata alla mente questa qui:
    https://www.youtube.com/watch?v=fOgWsvNzwQU
    Per via del nome, in maniera più semplice e diretta. Ma me l’ha “ricordata” tantissimo:

    Questa donna non è una donna
    questa donna è un miracolo
    per il modo che ha
    di morire e poi rinascere.
    di moltiplicare i baci.
    starmi accanto anche quando è a casa sua.
    far muovere i miei occhi.
    di capire tutto ciò che ho.
    darmi tutto quello che non ho.
    Di non sapere che non è una donna
    di non sapere che è un miracolo.

    Ma per farla più seria, e non scanzonata:
    […]Io fui il malo frutto di una mala terra. Se l’io non fosse indistruttibile, l’ ”io” di cui scrivo sarebbe andato distrutto molto tempo fa. A qualcuno sembrerà un’invenzione, ma tutto quello che io immagino accaduto, accadde davvero almeno a me. La storia può anche smentirlo, giacché io non ho avuto parte nella storia della mia gente, ma anche se tutto quel che dico è sbagliato, preconcetto, rancoroso, maligno, anche se io sono un bugiardo e un avvelenatore, nondimeno è la verità e bisognerà che la mandiate giù.

    Quanto a ciò che accadde…[…]

    ©1961 The Estate of Henry Miller
    Titolo originale dell’opera: Tropic of Capricorn

  • I commenti di [….] sono sempre così ispirati! Solo su Uki queste cose.
    Ma se il Catanzaro non colpisse così nel segno tutti noi? Splendido tutto!

  • strabiliante incubo ad occhi aperti…..un amore che non lascia scampo agli occhi del cuore…per non perdere il proprio ideale di amore….

    bel racconto

  • “………..Sei troppo lontana amore, soltanto un nome oramai, soltanto un suono muto, troppo poco per sperare che questa disperazione si neutralizzi e voli via………”

    😉

  • Eh…il Catanzaro non sbaglia un colpo…quella miscela esplosiva di emozioni forti,follia,evocazioni,sospese tra passato e presente.

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