Questione di virgole

Come un professore, pensando alla luce, si ritrovò nelle tenebre…

CAPITOLO 1 – ORMAI

La verità ultima non può essere esplicitata. Non può essere descritta in nessun modo.
L’atto stesso di razionalizzare è una violenza, una contaminazione del concetto percepito.
“Illuminazione”, “consapevolezza”, “presenza mentale”: chiunque abbia cercato di capire in modo “cerebrale” questi concetti, ha perso (ormai) la capacità di centrarne il significato, finendo così in periferia.
Così, parlano i Maestri.

Ed è appunto in un bar di periferia che inizia questa storia, laddove la routine ha (ormai) consumato gli ultimi brandelli di libero arbitrio.
Perché, in fondo, ci comportiamo un po’ come delle dighe: intraprendiamo compulsivamente i sentieri già solcati, condizionati (ormai) per sempre dal primo passo che forse, ingenuamente, abbiamo compiuto.

X: «Si fidi di me professore, sono stato un discreto criminologo. La degenerazione dicotomica è una caratteristica ben radicata nei delinquenti. Un giorno ti ritrovi a superare i limiti di velocità, tanto (ormai) lo fanno tutti. Il giorno dopo uccidi perché (ormai) hai la fedina sporca».
Y: «”Degenerazione dicotomica” eh? Pensa di impressionarmi con i suoi tecnicismi? Ok, mettiamola così: qualora non lo sapesse, i comportamenti che Lei cita sono “Darwiniani”. Conferiscono chiaramente un vantaggio selettivo.
Le faccio un esempio: pensi ad un atleta che, attraverso un circolo assolutamente virtuoso, vive il condizionamento come un’occasione. Intendo dire che per lui non avrà senso divorare hamburger o intossicarsi di tabacco dopo aver (ormai) intrapreso una vita salutare. È questo il segreto dei grandi campioni».

Yin e Yang. Queste le posizioni espresse dai due interlocutori.
Il barman sente di default la loro conversazione come fa (ormai) con decine di altre ogni giorno. Sente, non ascolta, pulendo il bancone che rimane abitato solo da una ciotola di noccioline e da un giornale spiegazzato.
X: «Se è così, allora i suoi “campioni” vivono in una gabbia».
Y: «Una gabbia d’oro, mentre gli altri vivono in una prateria di merda».

Intanto la porta del bar si apre. Una folata di vento volta pagina al giornale, mostrando una statica verità cartacea.
Un volto ed una citazione.
Subito sotto, un curioso e fatale inserto pubblicitario che mostra una cicca spezzata ed una mela verde. Insieme, perché anche i buoni vanno (ormai) a braccetto.
X: «Cosa pensa che porti allora a delinquere? Ci pensi: non è altro che un effetto domino. Un effetto domino che agisce su un libero arbitrio compromesso!».
Y: «Cosa? Non saprei dirglielo. In realtà ho solo una vaga idea su chi siano i carnefici. Però conosco bene le vittime, questo si».
X: «E chi sarebbero?».
Y: «Quelle che si fanno troppe domande. Buonanotte dottore».
Si alza, in pochi passi è (ormai) vicino all’uscita.
X: «Temo che non se ne sia accorto, ma ha una macchia sulla giacca. Forse dovrebbe portarla a lavare».

Interrogarsi sulla vita. Lo avevamo detto all’inizio: le troppe domande ci allontanano dalla verità, ma ci possono avvicinare ad un altro posto, tanto silenzioso da compensare il frastuono dei nostri pensieri.

Y: «Tanto (ormai) è vecchia, non ha più senso».

CAPITOLO 2 – SUBITO

Attaccamento è sofferenza.
Per questo bisogna trascendere i piaceri materiali. Cercare (e subito) la via edonica, non ci renderà mai “illuminati”. O forse si, ma solo dalle luci di un locale notturno.
Così, parlano i Maestri.

Ed è appunto in un night club che inizia questa storia, laddove il piacere è (subito) a portata di mano. Un po’ come la boccata di una sigaretta. Ah, la sigaretta! Il meno raccontabile dei piaceri. Perché si, sapete, amo classificare i piaceri in “raccontabili” e “non raccontabili”. I primi, dotati di dignità propria, ottenuti con sforzo e sacrifici, ci indirizzano verso le caratteristiche di un individuo. I secondi? Beh, totalmente amorfi. Rapida fruizione, altrettanto rapido esaurimento. Non ci diranno mai chi abbiamo davanti.
Pensateci: vi hanno mai raccontato di una “particolare fumata di sigaretta”? Io non credo. Ma stavolta no. Questa è una storia diversa…

X: «Grazie per la sigaretta, professore».
Aspirò quindi una boccata, osservando il fumo argenteo.
«Sa, non riesco più a leggere un libro, professore. Non riesco a godere di un film. Nemmeno la musica mi attira più. Forse per questo mi sono fatto trascinare qui. Basta alzare un centone e (subito) una Sud-Americana ti si inchioda in mezzo alle gambe. Non c’è attesa. Non c’è sforzo. Un po’ come fumare questa sigaretta.
Soltanto il piacere, trainato dal disprezzo e da un senso di colpa verso la mia compagna.
Anche questo fa parte del tirocinio?».

Y: «”Urgenza edonica”. Si chiama urgenza edonica.
È un comportamento adattativo, “Darwiniano” direbbe qualcuno. Fanculo i libri e gli stronzi di Hollywood. Dobbiamo forse diventare dei degustatori di vagina per apprezzare le donne? Dobbiamo conoscere la biochimica dell’etanolo per goderci una sbronza? Non c’è tirocinio, amico mio, per chi sa godere (subito) del piacere».

Quella fu una fumata particolare. Posso addirittura raccontarvela. Perché sì, è stato di conforto dare una boccata per coprire i sensi di colpa…
X: «Non lo so professore. Mi sembra tutto così semplice da risuonare come sbagliato. Mi piace aspettare i miei figli che tornano dalla scuola. E mi piace il profumo del pollo arrosto. Sa, la mia compagna è molto brava a cuci…».
Y: «Basta così. Ricordi quel tale che uccise il criminologo in pensione, qualche tempo fa? Lo fa a pezzetti, quaranta se non ricordo male. Con una metà ci sfama i suoi tre pastori tedeschi per un po’, l’altra la congela in cantina, per l’estate.
…Ritieni forse che l’attesa della giustizia sia essa stessa la giustizia?».
Una boccata per bypassare il disgusto un omicidio…
X: «E la catarsi professore? Ne ha parlato proprio allo scorso seminario, ricorda? Non è forse l’attesa che ci porta lentamente all’apice della purificazione?».
Y: «Così ho detto? Beh, non sempre l’apparenza coincide con la sostanza. A me tu non stai molto simpatico, ad esempio. Lo avevi mica capito?».
Una boccata rimasta a metà, per una dichiarazione inaspettata…
X: «Beh, no professore. Io pensavo di averle fatto una buona impressione, almeno dopo queste prime settimane di tirocinio».
Y: «Oh, non fraintendermi amico mio. Mi hai fatto un’ottima impressione. Pensa che mi sono ingegnato per evitare di farti morire di cancro, senza tuttavia levarti il piacere di una sigaretta…».
X: «Ma cos…».

Ma soprattutto una boccata senza rischi, per una volta, di morire di cancro.

CAPITOLO 3 – OLTRE

Le riflessioni trasformano le percezioni in percezioni “filtrate”.
Sapete qual è il momento in cui siamo più distanti dall’amore? Il momento in cui riflettiamo sull’amore. Ed è per questo che il pensiero circa ciò che è bene può trasformarci in esseri capaci di fare del male. Pensare ad un fiore potrà portarci a strapparlo.
Così, parlano i maestri.
Merda.

Ed è appunto in un prato che inizia questa storia, laddove un professore non riesce a guardare (oltre) le apparenze. Può infatti scorgere un meditante seduto nella posizione del loto.
Lo stesso meditante, di tanto in tanto, dà una boccata ad una sigaretta.

X: «Scusi se mi permetto, non riesco davvero a fare a meno di notare che lei sta praticando la presenza mentale. Sa, ho avuto modo di farlo anche io ed ecco… devo dirglielo: lei sta fumando.
Cioè, lo sa che sta fumando, mi scusi. Intendevo dire… a cosa è rivolta la sua attenzione?
Alla sigaretta o alla meditazione?».
La domanda fu ignorata dal meditante, che indicò invece due cani che giocavano alla lotta.
Y: «Loro sì che praticano la presenza mentale. Non lo sanno, ma sono illuminati».
Il professore ebbe un’intuizione, ma sfuggì. Sfuggì nel momento in cui provò a razionalizzarla. Proprio in quel momento, il meditante incalzò:
Y: «Quando è di rientro, provi a disegnare due quadrati. All’interno dell’uno raffiguri un anziano meditante. Nell’altro, un fumatore. Una volta finito, getti via il disegno. Lo getti più lontano che può».
Per la prima volta il meditante aprì gli occhi: «Andare oltre (,) il pensiero la porterà all’illuminazione».

La vita è questione di dove mettiamo le virgole.

La cultura rende l’uomo libero, dicono. Ma non è quella stessa cultura a creare le sovrastrutture che ci allontanano dalla genuinità dei cani che giocano?

La vita è questione di dove mettiamo le virgole.

Tornato a casa, il professore avrebbe potuto semplicemente intuire la potente verità di quel messaggio. E fu così, all’inizio. Gli bastò calcare la matita sul foglio, che ebbe un’epifania: il meditante era uno sconsiderato. Non era né Orientale né Occidentale. Aveva capito che i veri meditanti sono i cani. Non capiva cosa volesse dire. Ma poteva intuirlo. Si mise nella posizione del loto. Non si fece nessuna domanda…era giunto (oltre).

La storia sarebbe potuta finire qui. Vi avrei raccontato la storia di un illuminato.
Ma la vita è questione di dove mettiamo le virgole. Improvvisamente, ricordò. Ricordò il momento in cui il meditante, forse ignaro, fece una pausa fatale.

La casa si riempì in breve di libri sul Buddismo, sul Taoismo, sul Confucianesimo. Si dice che il professore non uscì di casa per due settimane, vivendo con addosso la stessa giacca macchiata di caffè, dormendovi perfino.
Il quindicesimo giorno si mise nella posizione del loto.
Si accese una sigaretta.
Un risus sardonicus iniziò a delinearsi sul suo volto.

Vi avrebbe potuto parlare per ore della presenza mentale, dell’illuminazione. Eppure, era diventata la persona più lontana da tutto ciò. Il suo sentiero era stato (ormai) solcato, ed aveva così perso la lucidità nel tentativo di cercare (subito) di tornare (oltre).

di Lorenzo Filippo

Illustrazione: Piero Nudo

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