Prospettiva Bukowski

Finalmente la rivoluzione era attuata: restare sul divano attuando la rivoluzione. Perché gli eroi moderni hanno una play station

. «Dovrebbero leggere la Bibbia, dovrebbero leggere Lolita. Dovrebbero smetterla di leggere Bukowski e dovrebbero smetterla di ascoltare la gente che dice loro di leggere Bukowski». (C. Bukowski)

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Erano quelli i giorni in cui i maschi più anaffettivi, edonisti, egoisti e narcisi si mettevano a scrivere canzoni sull’amore eterno, adescando i cuori delle deliziate romantiche femminucce, quel buon zoccolo duro che non rinunciava alle fantasie pre-adolescenziali sul principe azzurro. Pur di trovarlo, le fanciulle erano disposte a passarsi tutti gli uomini più beceri; “è dentro a un rospo che si cela il principe”, gli avevano detto, e loro si sarebbero consumate le labbra pur di risvegliarlo. Del resto un principe azzurro bell’e pronto era molto meno intrigante da accalappiare. Così, percossi e attoniti, anche i più azzurri dei principi azzurri, quelli che fino all’ultimo sembravano restii davanti alla possibilità di essere mutati in qualche sudicia bestiaccia, cominciavano poco a poco a dismettere la livrea celeste e a tentare timidi grugniti pur di rimediare qualche briciola.

Quelli, poi, erano gli stessi giorni in cui Bukowski era l’autore preferito di tutti quelli che non avevano mai letto un libro. Deliziati dai suoi aforismi contemplavano come si potesse essere iscritti all’albo dei grandi autori pur parlando di bestemmie e vomito e sbronze e scopate e puzzette. Quello era uno di loro, uno che ce l’aveva fatta. Perché anche loro bestemmiavano e vomitavano e si sbronzavano e (una molto bassa e molto fortunata percentuale) scopavano e (tutti, perché almeno le puzzette sono democratiche) facevano le puzzette. Quindi anche loro erano grandi viveur e, da qualche parte, in fondo al loro cuore, sapevano che sarebbe bastato mettere per iscritto le ore a cui andavano al cesso per essere annoverati anch’essi tra gli scrittori da grosso calibro votati all’eterna gloriosa fama. Certo, non avevano ancora messo mano all’inchiostro perché era abbastanza impegnativo scrivere e riuscire al tempo stesso a giocare alla play station. “La fortuna di Bukowski era non avere una play station, ma così eravamo buoni tutti a fare gli scrittori”, si suggerivano ticchettando frenetici sui pulsanti; poi immaginavano una vita senza play station e concludevano che Bukowski non era poi questo fortunello, dopotutto. Ma potevano essere grati a quel povero sfigato che si era preso la briga di rendere epiche le loro puzzette: quelle righe erano più che abbastanza per conferire grandezza alle loro vite in bilico tra il divano e il bar sotto casa.

Perché quelli erano i giorni buoni per essere protagonisti. Un secondo rinascimento era in atto: dopo ere buie e depravate in cui l’essere umano era schiacciato dalla magnificenza di se stesso, ecco che tutto tornava a prendere misure più abbordabili. Il televisore non costringeva più nessuno a umilianti sessioni per misurare la propria miseria al confronto coi giganti. Era tempo di amarsi. Via le guglie gotiche, dunque: niente più sciocchi navigatori a sfidare i limiti del mondo imposti da qualche oscura divinità, niente più idioti sentimentali a inseguire il proprio dilaniato amore oltre lo zolfo asmatico degli inferi, niente più inflessibili creduloni a combattere solitari contro l’universo stesso a costo di essere spezzati.
I veri eroi, finalmente, avevano le dita nel naso.
E un divano.
E la play station.

Perché in quei giorni la rivoluzione era da tempo conclusa, anche se i rivoluzionari lo tacevano persino a sé stessi per non restare disoccupati, ché l’obbiettivo era aspirare alla rivoluzione, mica farla. Ma se per anni avevano lottato contro l’ipocrisia dei benpensanti e la logica comune, la sobrietà, i nodi alla cravatta, ecco che il mondo era ora come sempre l’avevano sognato. Certo, magari evitavano di mostrarsi compiaciuti (commiserarsi era parte integrante del loro piano), ma le cicale avevano conquistato finalmente i punti nevralgici del potere, senza lo sforzo di sapere cosa farci. Esse, a differenza dei predecessori, non avevano rinnegato le loro origini. Le vedevi con i nodi della cravatta orgogliosamente deboli a decidere delle sorti di tutti, ma senza quella fastidiosa patina di distacco dal popolo. Decidevano con pacatezza, così, a tempo perso, perché la cosa principe era dimostrare di non essersi fatte logorare dal potere: eccole, splendidamente scalcinate, ancora dedite alle bestemmie e al vomito e alle sbronze e alle scopate e alle puzzette. Ecco il popolo governato dallo stesso popolo, che rivoluzione. Nonostante ciò, va detto, a onor di cronaca, che in un certo qual modo l’invidia corrode ogni cosa, e persino la felicità non era condivisa da chiunque, poiché non tutte le cicale avevano avuto la stessa dose di fortuna. Alcune trovavano quasi fastidioso che delle cicale scorreggione tanto quanto loro potessero comandare e loro no. Le più temerarie tra le infelici decisero di dare vita a un’altra rivoluzione devastante quanto quella ufficiosamente conclusa e si misero a scrivere delle roventi invettive sgrammaticate sui social network.

Ma in quei giorni il più era fatto. Nessun laureato bastardo e spocchioso avrebbe più fatto valere il suo titolo di studio per trovare lavoro, nessun cretino palestrato che si è spezzato la schiena per anni allenandosi avrebbe più potuto mostrare i muscoli senza che qualcuno rivendicasse il diritto di poter essere obeso e bello comunque, nessuno avrebbe mai più conseguito un obbiettivo senza necessariamente essere figlio di o essere stato a letto con o in ogni caso è fortuna e non lo meritava, nessun avvenimento sarebbe stato nominato senza che per par condicio fosse vero anche l’esatto contrario, nessun tramonto sarebbe passato indenne da uno scatto con il cellulare. Tutti erano attori, tutti erano musicisti, tutti erano professori, tutti erano fotografi, tutti erano scrittori, tutti erano modelli, tutti erano politici, tutti erano tutto. Tutti avevano un opinione su tutto. Tutti potevano parlare di tutto. Tutto era niente.

Insomma, avrete capito che giorni erano. Erano quelli i giorni in cui il medico, già provato dalla rivoluzione, strabuzzò gli occhi sulla pagina e sentì il suo cuore sussultare. Si fece un lungo esame di coscienza. Aveva sbagliato ogni scelta dal principio del suo nascere, e solo ora le vibranti e incendiarie parole di Bukowski sapevano illuminare il luminare sulla vorace verità. Il medico abbandonò il libro e tornò al suo camice con andamento incerto e capello sconvolto, lasciando che la pagina sventolasse al mondo l’inconfutabile segreto rivelato solo agli indomabili che hanno frequentato la difficilissima e impervia scuola della strada:

«Ospedali, galere e puttane: sono queste le università della vita. Io ho preso parecchie lauree. Chiamatemi dottore». C. Bukowski

Il medico aveva studiato dieci anni di medicina, dieci anni della sua vita, per salvarti il fegato ora che piangi. Chiamalo stronzo.

“Ma però prende un sacco di soldi!”, scrisse qualcuno su Facebook.

Matteo Mammucari

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