Peaky Blinders: una serie che vi stupirà!

Una storia di gangster... reduci di guerra e donne misteriose: una favola amorale psicologicamente basata sulla contrapposizione di affascinanti personaggi

«Quel solo minuto. Il minuto del soldato. In una battaglia è tutto ciò che hai, un minuto di tutto… tutto insieme. Ogni cosa prima di esso è niente, ogni cosa dopo… niente. Niente in confronto a quell’unico  minuto». [Tommy Shelby, 1×06]

 

Da serie tv-dipendente, voglio dedicare questo post a Peaky Blinders, scoperto per caso e rimastane affascinata.

Telefilm trasmesso sulla BBC2, il settembre scorso e riconfermato per una seconda stagione, in Italia è ancora inedito, ma non mancano quelli che hanno già potuto apprezzarlo, o criticarlo, perchè Peaky Blinders o si ama o si odia!

Peaky Blinders è un period drama e come tale ha un ambientazione storica di grande interesse. Siamo alla fine della Prima Guerra Mondiale, per l’esattezza 1919, e l’Inghilterra cerca di  riprendersi da quella che è stata una prova enorme a livello internazionale. La povertà dilaga, e chi è stato al fronte cerca, invano, di ritornare alla vita di prima, ma consapevole che niente potrà più essere come prima e che gli incubi non cesseranno di comparire né i ricordi potranno essere cancellati in un attimo.

A Birmingham i veterani tornano a casa portando con sé ricordi e ferite, come Tommy e Arthur Shelby e i loro fratelli, ma sono cambiati e persino zia Pol (Helen McCrory) e il resto della loro famiglia non li riconoscono più (e non potrebbe essere altrimenti), rendendoli testimoni di qualcosa che è stato.

Mentre erano via a difendere il re e il paese zia Pollyanna ha gestito gli affari di famiglia: donna dura, che cerca di placare il suo Dio con con il rosario in mano, mentre tiene saldamente il diavolo con l’altra. Ora che i ragazzi sono tornati, hanno intenzione di continuare da dove avevano lasciato, ma Pol non è disposta a cedere il potere così facilmente e insiste per avere ancora voce in capitolo.

 

Chi è la famiglia Shelby?

Soprannominata Peaky Blinders dall’usanza di nascondere una lametta nel risvolto dei cappelli (una coppola che all’epoca veniva chiamata, appunto, “peaky”), sono la classica famiglia gangster: una gang di delinquenti che gestiscono un giro di scommesse e offrono protezione ai pub della zona, balordi per tara ereditaria (meraviglioso cameo di Tommy Flanagan di “Sons Of Anarchy” nel ruolo del debosciatissimo capofamiglia), sono temuti da tutti e vengono rispettati con timore reverenziale.

I Peaky Blinders sono anche ladri, e rubano indisturbati, finché una volta, per sbaglio, non mettono le mani su una cassa appartenente a un giovane politico inglese, Winston Churchill, che immediatamente manda a Birmingham il suo più feroce cane da guardia, l’ispettore capo Chester Campbell (Sam Neill), reduce da un primo, riuscito tentativo di stroncare sul nascere la giovane Ira. Il tutto mentre i Peaky Blinders stanno cambiando capo, passando dal primogenito Arthur al ben più risoluto e giovane Thomas Shelby (Cillian Murphy). Per rendervi il personaggio vi dico che a una ragazza che gli chiede dove compri i vestiti e quanto li paghi, risponde serafico, con lo sguardo acquoso dell’assassino: «I miei vestiti sono offerti dalla casa. Altrimenti la casa brucia».

A questo si aggiunge l’arrivo in città della misteriosa Grace Burness.

Oltre ai traffici della famiglia Shelby, Birmingham si trova ad essere teatro di attivisti comunisti e ribelli dell’Ira: un drago a tre teste.

I personaggi, che in Peaky Blinders risalgono lentamente dai bassifondi della città per dimostrare la loro umanità, confondono, come nei migliori giochi di specchi, il confine tra bene e male, esempio di come le cose non sono sempre quelle che appaiono.

 

L’intreccio è adeguato allo scarso numero di puntate (appena 6): lineare, con pochi personaggi, immediato. La cura nella regia (Otto Bathurst Tom Harper), fotografia, sceneggiatura di cui ogni scena è pervasa rendono lo show una perla con una sua individualità in grado di farla spiccare tra i tanti prodotti simili, come ad esempio lo statunitense “Boardwalk Empire” di Scorsese.

 

Il racconto filmico si apre come una favola amorale, psicologicamente basata sulla contrapposizione dei caratteri e su atmosferici elementi che tendono a svelare i personaggi: la scena iniziale in cui Tommy si aggira per la sua città, per le sue strade, tra il grigiore, ci presenta fin da subito il personaggio nel suo elemento caratterizzante; come anche nel torpore delle candele notturne, quando i ricordi di guerra di Thomas si svelano attraverso lo stordimento della droga, guerra che unisce corpo e spirito in un ricordo di sequenze fulminee nei suoi sogni notturni, o nelle visioni incastonate nell’iride dei suoi occhi azzurri, come teatro del dolore della sua esperienza. Un processo di emersione dei ricordi costruito per associazione mentali, che ci porta a conoscere il protagonista.

I personaggi vengono osservati spesso in quadri esterni, attraverso le grate di un cancello, dalle aperture di una stanza, oltre una porta, sorvolando i perimetri delle mura. Il regista costruisce due azioni nella scena, quelle dei personaggi ritratti e il sentimento parallelo che li anima, in questo modo lo spettatore entra in empatia con questo o quel personaggio, e attraverso l’occhio della telecamera, che segue i loro incontri misteriosi, si sente parte integrante della storia.

 

La colonna sonora gioca un ruolo fondamentale, la città e i personaggi sono raccontati attraverso le note dell’alternative rock dei nostri giorni; musiche anacronistiche scelte per sottolineare un montaggio particolarmente significativo. Fin dalla prima scena ascoltiamo Nick Cave con Red Right Hand, scelta per la sigla, e poi The White Stripes e The Black Keys.

 

Alcuni hanno criticato la serie di essere a tratti noiosa, per un ritmo lento che a mio parere è solo la marca distintiva di un modo di fare tv molto british, e che non è affatto scontato che porti allo sbadiglio. Peaky Blinders è la dimostrazione che le cose fatte con calma possono creare belle suspense che non hanno bisogno di essere eclatanti per tenere lo spettatore attento e partecipe di ciò che guarda.

 Katia Valentini

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