Panta: intervista a suon di rock, incubi, sogni e bisogni

La band dichiara il proprio amore per la musica di matrice anglo americana, traducendo, nelle liriche, un'accurata ricerca letteraria

Attivi dal 2016, i Panta hanno già realizzato quasi 200 concerti e hanno collaborato con artisti come Carlo Verdone e Giorgio Canali. La loro strada si è incrociata con quella di David Lynch, che li ha voluti a Lucca a nome della David Lynch Foundation, e ONE, l’Ong fondata da Bono Vox, per la quale il cantante è stato eletto Youth Ambassador in Italia.
Si intitola “INCUBISOGNI”, il disco d’esordio della band, uscito per MEI e Goodfellas; un’elegante esplorazione in chiave rock di incubi, sogni e bisogni. L’album è stato registrato e mixato da Valerio Cascone presso il The Lab Studio di Roma, è stato completato a Londra con Steve Lyon (Depeche Mode, Paul McCartney, The Cure) e vede la partecipazione di Andrea Ruggiero, Alessandra Perna e Valerio Bulla.

Benvenuto al vostro primo album “INCUBISOGNI”. Come lo descrivereste?

Grazie innanzitutto per il benvenuto all’album! “INCUBISOGNI” per noi è stato ed è come un’immersione nei livelli più profondi, più segreti, delle persone (e quindi in primis di noi stessi); quei livelli che di fatto determinano chi siamo ma che spesso non si manifestano apertamente nella vita di tutti i giorni, ovvero gli incubi, i sogni e i bisogni più reconditi. I sogni sono gli stati ideali a cui vorremo approdare, gli incubi sono le paure e gli ostacoli che remano contro, i bisogni sono ciò di cui – nonostante tutto – non possiamo fare a meno. Quello di cui non possiamo fare a meno noi come band, e l’abbiamo scoperto sogno dopo sogno e incubo dopo incubo in questi anni insieme: è esprimere chi siamo in forma di musica. Diciamo, per essere ancor più precisi, in forma di Rock, che per noi è un concetto di libertà ancor prima che un genere musicale.

Raccontatemi la vostra storia, da dove venite?

Come prima cosa vorremmo dirti che siamo 4 amici, con provenienze e caratteri diversi ma con una storia e uno spirito comune, che è il percorso musicale di ognuno di noi, quello stesso percorso che ci ha fatto incontrare e metter su la band. Io (Giulio) e Leo il chitarrista siamo praticamente cresciuti insieme, anzi io gli ho insegnato addirittura a suonare la chitarra, tanta era la passione per il Rock che ci univa; Davide (il bassista) si è trasferito da Gioiosa Jonica a Roma per suonare e per scrivere in una realtà più vitale artisticamente; Riccardo, il nostro nuovo batterista con cui abbiamo avuto modo di suonare da anni, studia la batteria fin da bambino in un connubio di rock, fusion e world-music. Col tempo, i Panta sono diventati una famiglia e soprattutto uno strumento per esprimersi liberamente all’interno di un progetto che non pensa all’hype o alla fama come punto di arrivo, ma a voler suonare e comunicare qualcosa di sincero con chiunque voglia condividerlo con noi.

Quale percorso personale vi ha portato a questa vostra opera prima?

Il percorso di essere nati come una live band, ovvero di testare i brani sul campo prima di immaginarli in un disco, senza dubbio. All’inizio del progetto, ancora eravamo un trio addirittura; essendo tutti nati tra il ’90 e il ’95, ci siamo interrogati sul fatto che i nostri coetanei non avessero più la musica che piaceva a noi come principale genere di ascolto e quindi volevamo innanzitutto vedere se i brani – che significavano già molto per noi – potessero avere un impatto, un qualsiasi feedback umano, con un pubblico fatto di persone in carne ed ossa, non di riproduzioni sulle playlist o likes alle foto sui Social. Tante persone, a cui siamo grati, hanno creduto in noi fin dall’inizio e ci hanno donato carburante per andare avanti. Soltanto dopo molti concerti la risposta che ci siamo dati è stata “sì, questo riscontro umano c’è, è reale”, in molti ci hanno iniziato a chiedere del primo disco, e ci siamo convinti a metterci in studio per incidere gli incubi e i sogni che avevamo in qualche modo attraversato lungo il percorso.

Chi scrive i testi? È un lavoro corale o ci si chiude nella propria stanza-casa a scrivere?

Li scrivo io (Giulio), quindi è qualcosa che mi riguarda molto da vicino. La scrittura delle liriche è qualcosa di essenziale per i Panta, perché di fatto determina che l’intero progetto sia in italiano, mentre la musica che suoniamo potrebbe forse suggerire l’inglese come lingua d’elezione. Ho studiato Lettere all’Università perché sono visceralmente appassionato di letteratura e poesia italiana, un amore che ho fin da piccolo e che è sbocciato sotto il segno di Dante e Pasolini al liceo. Scrivevo poesie in italiano rigorosamente tenute nascoste e i testi per le canzoni in inglese. Ad un certo punto, proprio mentre mi ero trasferito a studiare in Inghilterra, ho capito che quella dell’inglese era una maschera e che se avessi messo su una band avrei dovuto toccare le corde più profonde, più reali: così ho ascoltato la musicalità delle cose in italiano che scrivevo e sono nate “Lacrime Criminali” e “Roma Dolce Tenebra”, entrambe nel disco, entrambe nate come poesie. Col tempo poi ho affinato la tecnica, forse, ma il processo tutt’ora rimane così, il più genuino possibile.

Come concepite i pezzi? Partite prima dalla musica, da un riff o prima dai testi?

Tutte e tre le opzioni, a dire il vero! Possiamo dire che la prima modalità prevede che io (sempre Giulio ahahah..) arrivi in sala con la canzone già pronta a livello di struttura proponendola chitarra e voce e che la si arrangi poi insieme. La seconda invece che in sala si proponga un riff (Davide, il nostro bassista, è un portatore sano di riff, ad esempio, ma anche Leo, che se ne è uscito col riff di “Prima!”) e che ognuno sviluppi le sue idee a partire da quello. Quanto ai testi, devo ammettere che in “Incubisogni” si equivalgono i pezzi nati prima dal testo e quelli prima dalla musica. Un esempio per entrambi i casi: “Roma Dolce Tenebra” è nata prima dal testo come ti dicevo poco fa, “Nella Tua Trama” prima dalla musica.

Quali sono i debiti artistici che avete con il resto del panorama musicale internazionale?

Eh, eh, bella e vastissima domanda. Dunque, andando cronologicamente, di certo come musicisti siamo tutti cresciuti sullo strumento con i classici – Pink Floyd, Doors, Who, Cream, Hendrix, Beatles, Stones, Led Zeppelin e via… – e ad un certo punto ognuno di noi ha preso una diramazione prediletta. Davide e Liberiano con la New Wave di Joy Division, Smiths, Cure e Depeche Mode; Leo con l’Indie e l’Alternative di Radiohead, Muse, Alt-J, Interpol, Arctic Monkeys e Franz Ferdinand; Riccardo, il nostro nuovo batterista, col punk dei Ramones o col metal dei Maiden. Io, visto che sono un vero e proprio onnivoro di musica, ti direi tutti quelli che abbiamo nominato fino ad ora, soprattutto l’influsso Wave, più una buona dose di Grunge americano (Nirvana e Afghan Whigs in testa) e di Brit Pop inglese dagli Oasis, agli Suede, ai Manic Street Preachers. Però, non posso non menzionare Bowie, gli U2, Lou Reed e Nick Cave come numi tutelari dell’album.

E quello italiano?

Qui è più facile perché, anche se non a livello di importanza certamente, sono meno a livello di quantità. Sempre cronologicamente, la tradizione cantautorale da De André a Pino Daniele in primis, poi di sicuro i Litfiba e i CCCP/CSI hanno giocato un ruolo fondamentale per la nostra componente “80s”; invece Subsonica, Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena e Teatro degli Orrori un ruolo decisivo per le decadi successive. Ci siamo letteralmente cresciuti. Riguardo cose più recenti, siamo grandi appassionati di Paolo Benvegnù e de I Cani. Last but not least, però, devo dirti che Franco Battiato è stato e resta il mio più grande modello italiano (anche perché pratico Meditazione felicemente ogni giorno da 4 anni e i Panta sono nati anche grazie a questo…).

Dove finisce l’omaggio e inizia il plagio secondo voi?

Così d’emblée mi viene in mente Platone e la copia della copia, ma sarà sempre che sto’ fuso con la Letteratura! In realtà forse è una questione di personalità: è inevitabile, soprattutto nel fare musica oggi, confrontarsi con tante e disparate influenze, ci sono state realtà talmente belle e significative che in qualche modo bisogna percorrerle per trovare la propria strada. Qualcosa di simile a ciò che in teoria letteraria si chiama intertestualità, quello è l’omaggio. Il plagio invece è quando ci si “veste” della personalità altrui e si tenta di imitarla in toto, per farti un esempio noto, i Greta Van Fleet si vestono dello stile (e pure dei vestiti!) dei Led Zeppelin senza apportare nulla di nuovo musicalmente, quindi – come band – non ci interessa. I Led Zeppelin a loro volta, invece, omaggiavano la meravigliosa tradizione del Blues e la conducevano su sponde nuove e inaspettate, basti pensare a com’era “Dazed and Confused” e com’è diventata nella loro versione. Questa è la grandezza del genio che ruba di cui parlava Picasso.

L’album è sicuramente un album molto vario, sonorità assolutamente diversissime da canzone a canzone. Dai Subsonica di “Cosi è abbastanza indie” ai Diaframma di “Amaledirechelami”, agli Afterhours di “Nella tua trama”.. e cosi via. Questo mi solleva molto all’ascolto perché indica un potenziale incredibile, ma in un certo senso mi preoccupa un po’ artisticamente e mi fa chiedere: qual è la vostra chiara strada a livello di sonorità?

Altra bellissima domanda, grazie, perché ci permette di dire una cosa che per noi è molto importante sul disco. “Incubisogni” è diviso idealmente in due lati (cosa che sul vinile sarà ancora più chiara) che non solo sono due stati della vita e della mente, ma che attingono a riferimenti musicali differenti, anche se sempre in seno al Rock in un’ottica generale. La cosa bella quando riascoltiamo il disco è sentire quante anime diverse avevamo da far dialogare all’interno e cosa questo dialogo abbia generato in termini musicali, ma è chiaro per noi ora che questo attraversamento sia stato compiuto e che abbiamo risolto anche questa dicotomia musicale tra Incubi e Sogni in una direzione che tende molto più verso… be’, si scoprirà nel prossimo disco! Del resto anche gli After erano salutati come i “Nirvana italiani” e i Marlene come i “Sonic Youth italiani”, in realtà la grande novità era far dialogare quel tipo di musica col cantautorato e la lingua italiana. Noi possiamo solo dirti che abbiamo già un sacco di materiale nuovo pronto di cui siamo molto felici e non vediamo l’ora di farlo uscire.

In fondo, siamo tutti barche inevitabilmente risospinte nel passato o è ancora possibile fare un sound pop-rock assolutamente nuovo?

Siamo ancora un po’ tutti figli del Romanticismo in questo senso, dove il concetto di genio personale e di originalità continua è stato sdoganato e si è imposto in modo (giustamente) indelebile, però il punto secondo noi è che l’arte vera – quella che è espressione sincera di sé e non progetti a tavolino, come sempre più ce n’è nella scena e nei talent – attinge sempre da tante fonti, a volte anche diverse tra loro. Perciò crediamo che l’originalità, oggi più che mai visto che moltissimo è stato già detto e scritto, stia nel vedere l’esito del dialogo tra queste fonti. Il che non vuol dire prendere pezzi da altri e meramente assemblarli, ma scegliere cose che ti appartengono, mischiarle a quello che sei e vedere il risultato che questo mix può generare, una cosa che alla fine sarà solo tua. Il fatto è che il mercato musicale tira nella direzione completamente opposta e promuove quasi solo la copia della copia della copia, senza valorizzare la specificità di ognuno. Quindi, secondo noi, qualcosa di nuovo paradossalmente è già non ragionare secondo questa logica.

Programmi per il futuro?

Tantissimi! Per l’immediato stiamo lavorando a un Tour degno di tale nome per “Incubisogni”, che – come nella release al Largo Venue a Roma – abbiamo strutturato in un set con tre fasi per attraversare incubi, sogni e bisogni, e immergerci in acque profonde col pubblico, creando un’empatia, quello a cui più teniamo nei live. Dopo di che, vogliamo continuare a lavorare con Steve (Lyon) sul nuovo materiale e rimettere mano al progetto di musica e letteratura per dare un seguito a distanza di due anni al libro Poesia in forma di Rock, che abbiamo portato praticamente in tutta Italia come reading musicato, una bellissima esperienza. In questa direzione, sto realizzando un progetto sui testi per musica “scritti dagli scrittori” italiani del Dopoguerra – tra cui Calvino, Pasolini, Fortini, Flaiano – che di fatto hanno gettato il primo seme per la nascita del cantautorato in Italia. Vorremo riscoprire le radici, insomma, dandogli nuova linfa.
Io vi auguro il meglio del meglio, grazie ragazzi.

Grazie moltissime a te, bellissime domande, è stato un vero piacere! A presto!

Gars Collireo

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