Nomadi Ora

Racconto breve da un'esperienza al di là dei confini formali: tra comunità gitane oltre il senso comune di civiltà

Sposto i piedi, muovo l’orizzonte, mi scuoto, mi fermo, ancora.
Sposto i piedi, chiudo gli occhi al sole, mi piego, trattengo il respiro.
Sposto i piedi, spalanco le mani, alzo la testa, inspiro.
Le gocce di grandine cristallo levigano il viso e le braccia, piomba dal cielo nero che avvolge tutto intorno, nel silenzio lo scrosciar della pioggia fina, battente sulla tenda, violino del divino, mi sdraio ancora un poco tra le umide coperto il gelo entra dai polsi, nel naso e giù nel petto, le gambe, l’uccello, indurito, non mi muovo.
Sospiro lungo, sul finire palpebre tremanti e labbra schiuse nell’aria spettrale del Nord.
Partito che era buio e senza far rumore, un goccio di thè caldo, bardato quanto possibile, per come necessità impone, maglione pesante e consumato, pelle che è quella di sempre, pesante e consumata, bisaccia con del pane duro, miele, formaggio fresco.
Lento l’inizio nel freddo della notte, l’oscurità mi avvolge, trema il respiro, impaurito dai latrati.
Che la nostra vita è solo un’altra vita tra le molte vite che son passate per di qua.
Che il nostro vagare è solo uno dei tanti che c’han preceduto e che saranno ancora, inutili e spontanei, illusi e scanzonati.
Che i rumori nella notte sono altri rumori e urla di altre grida di lupi affamati e soldati dementi morti per un pugno di mosche, un oceano di sangue questa umanità.
Ma non abbandonarmi e non mi abbandono e ancora il piede giù nel fango, la merda, le ossa sparse a terra, continuo. La strada è una traccia confusa marrone accasciata sul verde scuro dei prati.
Partito che era buio, le tende scure e sonnolenti, confuse con gli yak, di pastori e sciamani alla deriva nel continente, senza meta che non sia la sorte, senza ventura , gioia o paura, solo gli eventi e il rispetto della morte.
Figlio casuale del mondo animale, figlio ancestrale di un altro a me uguale, nato in un giorno banale senza grazia e talento. Aperto la porta al mondo sconfinato, un nastro infinito di campi ed erba e bestie da pascolo. Vissuto più o meno consapevolmente gli anni del sogno, oracoli divini mostrati nel fumo da mio nonno, orgoglio tribale del clan.
Celebrati i riti dell’età, le urla, la musica, la festa che gira intorno al fuoco nella notte abissale. Goduto, pasciuto, veduto il viso largo e tondo della donna, la carne morbida, i fianchi bianchi, capelli neri e lunghi come crine di cavallo.
Bevuto vodka russa, fermento di latte di giumenta, cacciato marmotte, lepri e bisonti, guidato i montoni più a valle più a nord. Conosciuto il cavallo che non avevo ricordi, il morso, la gara, le fasce colorate di vittorie donate a molti altari. Rubato, raccolto, sgozzato, scuoiato, imparato i rudimenti, la tecnica, gli scritti, e come ci si muove tra i cani nelle steppe.
In cammino nell’aurora, la notte si schiarisce, l’alba pallida e antica, si alza la marmotta, cacciano i rapaci, branchi di cammelli masticano incuriositi dalla mia andatura. E sorge il sole, si alza all’orizzonte una sfera di fuoco nella bruma poi torna la solita luce giù in pianura, pallida e bianca. Cammino con spirito sollevato, le ossa dei morti mescolate alla terra, teschi e costati, e stele di renna e tombe di antichi, mura di bazar in rovina e fortini e galere ed è tutto stritolato dal tempo immobile passato.
Dei cani lontano mi latrano contro, denti aguzzi spettrali assassini, il padrone li ferma uscendo da una tenda e mi invita ad entrare come è sempre stato, come è giusto che sia.
Seduti in cerchio nella tenda l’intera famiglia ed io, mangiamo yogurt e dolci fritti. I bambini sporchi di moccio, d’incuria, il padre mangia del formaggio, la madre allatta la figlia.
Mi chiedono del posto da dove vengo, di quanto gregge ho, di mio padre e mia madre, della mia meta, poi mi congedo donandogli un pezzo di pane raffermo che non è la qualità, ma il rito.
Avanti il cielo si fa terso, il vento si agita sul mio viso, proseguo, mi cerco e mi inseguo.
Sagoma stagliante sulla riva nobile del fiume uno yak solitario, nero carbone sperduto nel deserto verde, corna alte e fiere, sparge ostilità. Seguo la corrente, l’ansa del fiume più avanti si slarga, diventa piscina per bambini nudi ci sguazzano le gambe, la madre li osserva cuocendo la zuppa di montone. La pista ora è pulita, percorsa nei millenni da quando esiste uomo, e vecchi pastori sdentati su moto sovietiche cariche di pacchi di farina e cavalli bradi e pastori di renne su transumanze vie d’istinto della bestia. Salgo su un colle, dono un feticcio all’altare alla divinità. L’ovoo con le bandiere e i suoi idoli in piramide, ci giro in torno tre volte, mi attende più in là un anziano bardato da una cintura dorata il suo deel, mantello di azzurro cielo. Sniffiamo le foglie secche di tabacco dalla boccetta, la sua io, quella mia lui, mi offre del latte poi mi saluta gettando alle sue spalle ai punti cardinali le gocce bianche che siano fortuna per la mia strada bianca ancora in salita.
Si apre avanti il mondo la sua civiltà , gli accampamenti mongoli di tende bianche sotto il sole, i fumi che salgono, l’odore acre attorno che sa di carcasse sgozzate, di banchetti permanenti, di frutta marcia, di alcol di musica. Il campo dei fedeli in completa agitazione. Mercanti e pastori uniti nel commercio, e artisti di strada e saltimbanco. Tempo è giunto di varcare la soglia del monastero, con riverenza e in perfetta solitudine di pensiero brucio l’incenso e mormoro preghiera nei tempi intorno sparsi. Come uno che non ha reso grazia mai, come chi la rende sempre, milioni di milioni di uomini passati e ancora a venire, granelli di polvere spazzata, e le carcasse abbandonate e le ossa affondando nella terra con le piogge, chi le ricorda chi le ricorderà? I monaci in abiti d’arancio acceso, rasati i capi e ronzano preghiere seduti sotto gli altari. Un bambino in tunica arancia gioca col cane sotto il sole, il capo raso, sorride al mondo. Scende il sole, lo attendo scomparire sopra un colle, lo scurire del cielo e i fuochi, si accende il campo e le voci aumentano l’entusiasmo e il sangue ribolle. Questa notte si attende l’angelo e non si dorme, l’odore di cibo cucinato, l’odore acre del sangue fresco, i cani e i cavalli da lontano, e la musica si accende tra archi e canti gutturali e le donne nei mantelli appariscenti danzano sul prato e gli uomini ubriachi si spengono per strada. Sollevo un piede dopo l’altro per scavalcare l’uscio e non toccare l’ingresso della tenda, augurio di malanni. Una donna in penombra, scaldata dal braciere che brucia lento merda secca, sdraiata su una branda, rantola malata, sospira. E l’ombra si fa luce, delinea a mano a mano i volti preoccupati dei familiari. Mi siedo assieme a loro, attendo il rito nel ronzio della preghiera.
Preannunciata da campanellini e tamburelli e canti sincopati, trattenuti, fa il suo ingresso lo sciamano, donna anziana, puzzolente, ingobbita, vestita di feticci. Completamente ubriaca scuote il tamburello, scuote il campanello, batte il bastone, mormora preghiere e canta canzoni e brucia l’incenso nel braciere e canta e suona fino al suo svenimento.
La notte è piombata e tutto è finito, restano solo i cani in cerca di cibo, il silenzio sotto la volta immensa del cielo stellato spettrale. Mi allontano, più avanti una ragazza, capelli neri, blue jeans felpa di pile, spegnendo un fuoco mi lancia un sorriso e mi invita ad entrare, mi chino, scavalco l’uscio e chiudo la porta della gher. Domani di buon mattino riprenderò la via del ritorno.

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di Giancarlo Pitaro

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