Noam Elcott: “Artificial Darkness” – l’Oscurità nell’arte moderna

Il prof. Elcott ha pubblicato uno studio originale e pionieristico sul "buio artificiale", inteso come oscurità regolata tecnologicamente

Per voi cos’è l’oscurità? C’è da fare una distinzione secondo me: se parliamo di oscurità interna, ci riferiamo alla parte di noi più nascosta, volitiva, pulsionale, sfrenata e animalesca; se invece parliamo di oscurità esterna, ci riferiamo a tutte quelle situazioni di mancanza di luce

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Cos’è l’oscurità?

Ma è giusto definire l’oscurità semplicemente come mancanza di luce? O è qualcosa di più? Se ci riferiamo a qualcosa di esterno a noi, l’oscurità può essere considerata un colore? Dopotutto il “nero” è più colore del bianco, in quanto il primo è l’insieme di tutti i colori, mentre l’altro è assenza dei colori.

Quindi l’oscurità è non solo un colore, ma, ancor di più, una condizione. Essa è una condizione psicologica quando è interna; è una condizione esterna invece quando permette di fare delle cose. Pensate alla camera oscura che serve per sviluppare le fotografie: solo grazie ad una condizione di oscurità è possibile fare quello che si deve.

Quindi l’oscurità è essenziale per compiere delle azioni: un altro esempio è dato dalla necessità dell’oscurità per la proiezione e, prima ancora, per il montaggio. Ma in fondo ogni cosa, ogni vita, nasce dall’oscurità: ogni seme diventa pianta nell’oscurità sotto terra, ogni vita nasce dall’oscurità nell’utero di ogni grembo materno… il nostro stesso inconscio sta nel buio nel momento in cui chiudiamo gli occhi!

 

Uno studio innovativo

Del nero, cioè dell’oscurità esterna a noi, ne ha parlato Noam Elcott, un professore di Storia e Archeologia dell’Università della California.
Per la Chicago University ha pubblicasto un nuovo libro: “Artificial Darkness”, che ci parla proprio della oscurità artificiale, cioè quella ottenuta attraverso mezzi tecnologici e quindi volontariamente.

Fondamentalmente il libro è uno studio dei black screen usati nell’arte e nei media nel corso del ventunesimo secolo e oltre. Di conseguenza ciò di cui tratta il libro è la condizione dell’oscurità, più ancora che del colore.

Attraverso l’uso di tecnologie, l’oscurità gioca un ruolo fondamentale nelle arti visive, come ad esempio il teatro, il cinema e la fotografia.
Non ci addentriamo sul piano filo-psicologico dell’oscurità aristotelicamente catartica: vedendo l’oscurità fuori di noi, riusciamo a purificarci da quella che abbiamo dentro.

 

La struttura del libro

Elcott parla dell’oscurità estetica e funzionale, cioè quella che serve per realizzare qualcosa.
E presentandosi come uno studio sui Media, “Artificial darkness” ci mostra, genealogicamente, come essi si sono sviluppati nella storia. Contemporaneamente l’esposizione ha però un approccio anche concreto, e non solo teorico.

Inoltre il libro ci può far riflettere anche su quello che è lo sviluppo della capacità umana di controllare l’oscurità e impiegarla nelle produzioni artistiche.

Il testo si compone di due parti: la prima parla dell’archeologia dei media e quindi proprio della loro nascita; la seconda parte si concentra invece sul loro sviluppo e il rapporto/influenza che hanno con la storia dell’arte.

Nel libro è inserita anche una galleria di immagini, il che ci consente di seguire meglio l’esposizione e poter riflettere in maniera più attenta sulle tematiche proposte.

 

Riflessioni

Pensavo che il testo, in effetti, può essere anche un ottimo spunto di riflessione relativo al rapporto dell’uomo con le nuove tecnologie e la possibilità che abbiamo di controllare la natura, ma la domanda è: la natura si può davvero controllare? Vuole essere controllata? Fino a che punto ci possiamo spingere? Ricordatevi del mostro di Frankenstein: bisogno capire il limite, altrimenti andando troppo in là si corrono seri rischi.

 

Roberto Morra

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