Nascere durante la Terza Rivoluzione Industriale

La conoscenza è cumulativa, il senso etico no

La Rivoluzione Industriale ha generato una discrepanza tra Sviluppo e qualità della vita. Nondimeno, oggi, l’industria è sempre più digitalizzata e la linea tra chi idea e chi realizza è sempre meno netta. Anche secondo l’Economist, il mercato sta per stravolgersi!


Al momento, stiamo attraversando nientemeno che la Terza Rivoluzione Industriale.

La prima ha “centralizzato il lavoro“, dalle campagne si andava nelle città e nelle fabbriche.

La seconda, invece, è stata la rivoluzione informatica. Ma c’era ancora un passo da compiere: estendere tale mutamento al singolo.

Il succo degli ultimi vent’anni è stato proprio questo: capire l’influenza sociale dell’informatica e portarla nel mondo reale.

Di fatto, verso la fine del 1700 siamo passati dalle singole persone chine sui telai, alle fabbriche tessili che contavano centinaia di lavoratori; verso l’inizio del 1900 è arrivato Henry Ford ed è cominciata la produzione di massa; ora che le tecnologie stanno convergendo e che molto è a portata di un click, si chiuderà il cerchio, in un certo senso. Ovvero: “Le industrie del futuro si focalizzeranno sulla personalizzazione di massa, e potrebbero assomigliare più alle piccole case con i telai che non alle catene di montaggio della Ford”.

 

Così oggi le Nazioni sono più ricche, ma se lo sono è perché hanno fatto scempio nello strato sociale delle popolazioni… e ti pareva! Oggi abbiamo più conoscenza dei nostri padri o dei nostri nonni, ma certo non siamo migliori, non siamo meglio di quelli che abbiamo sempre criticato. Qualcosa nella nostra coscienza non è andata di pari passo con lo sviluppo tecnologico. In questi anni non si regge più la marcia spietata dello sviluppo,  ci vorrebbe un accordo mondiale per abbassare i livelli della competizione invece di alzarne continuamente l’asticella. Noi non abbiamo bisogno di andare sempre più veloci, ma di vivere meglio. E su questo piano l’attuale modello di sviluppo, nato con la Rivoluzione industriale, è stato disastroso.

Nel 1650, in Europa, i suicidi erano il 2,6 per 100mila abitanti. Nel 1850, un secolo dopo il ‘take off’ industriale, erano il 6,9 (triplicati), oggi sono il 20 per 100 mila abitanti (decuplicati). Il suicidio è solo la punta dell’iceberg, in cui il peggio è laddove  maggiore è proprio il “benessere”. L’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Nevrosi e depressione sono malattie della Modernità, all’inizio colpirono i ceti benestanti, la borghesia (Freud insegna), oggi riguardano tutte le fasce della popolazione. Negli Stati Uniti, Paese di punta del modello, 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci, cioè un abitante su due non sta bene nella propria pelle. E cosa fa lo Stato di fronte a questo? Esso vuole drogarci ancora di più, farci andare ancora più veloci, cementificarci ulteriormente, costringerci a lavorare come asini al basto, incrementando la nevrosi e la depressione per poi riempirci di medicina tecnologica per reggere lo stress ed essere all’altezza della competizione divenuta globale.

Così in Italia, dopo il fallimento della Seconda Repubblica la popolazione ha cominciato a criticare sul serio la mediocrità dei politici; la crisi economica del Capitalismo ha contribuito alla fine del modello politico della Seconda Repubblica. Già dagli anni ’70 iniziarono le proteste, ma dopo Tangentopoli le cose si sono fatte più chiare, sia per l’elettorato di sinistra e oggi anche per quello di destra. Tuttavia il berlusconismo è stato artefice di una politica fondata sull’individualismo e sulla logica del potere, non già come fonte per la collettività, quanto per la scalata sociale al potere, e la sinistra non ha saputo anteporre al berlusconismo un’idea di sistema politico efficace, tanto che instabilità e alternanza sono state le debolezze di questo ventennio fino all’avvento di un clone politico (stavolta tra le file opposte) come Renzi.

Mentre un tempo, infatti, votare per un partito significava “appartenenza” ad un determinato contesto sociale (e il partito ne era il simbolo nella stanza dei bottoni), oggi il deflusso dei voti è sinonimo di “non-appartenenza”. Non sorprende perciò, che l’antipolitica sia tanto temibile e gradualmente sempre più estesa, sebbene io credo non sia per nulla una soluzione, essendo anch’essa collusa con i poteri forti! In ogni caso, proprio perché il movimento si concettualizza come estraneo al sistema vigente, non sorprende che la sua idea democratica non sia quella storica della rappresentanza, altresì quella della partecipazione – peccato solo si tatti di un’alternativa ma sterile valvola di sfogo.

I prossimi anni saranno quelli del cambiamento: destra e sinistra oggi non hanno più senso, mentre i movimenti di protesta già bussano alle porte del Parlamento. Per assurdo, solo una repentina (?) risoluzione della crisi economica scongiurerebbe l’ascesa di un nuovo “modello” salvando così questo sconvolgimento del Sistema, tramutando quindi le proteste in una rivoluzione mancata (proprio come avvenne nel ’68, anche se allora il movimento studentesco fu caratterizzato da un altro contesto, e da modalità e ideologie differenti).

Inoltre, i partiti oggi sono così deboli che, oltreché guardarsi dai reazionari indignati che i sondaggi danno in ascesa, dovranno fare i conti anche con l’eredità che lasceranno i tecnici e il “montismo”, che ha prodotto il Governo Letta oggi così simile a quello Gentiloni.

Pertanto, sono due le strade possibili: o si arriva al cambiamento attraverso un processo democratico, e dunque riformulando le questioni in Parlamento, oppure attraverso un processo antidemocratico e storicamente degenerativo, che è quello delle rivolte in piazza. E questo perché anche sul mercato si sta facendo spazio una nuova tendenza, una nuova Visione giustamente in linea con le nuove generazioni!

 

Ad oggi lo dice anche l’Economist: siamo nel pieno della Terza Rivoluzione Industriale, e suoi protagonisti sono i “makers“, quelli che se hanno un’idea, la realizzano direttamente. La trasformazione è già in atto perché è cominciata con la digitalizzazione dell’industria.

Pensiamo all’attuale grande sviluppo delle stampanti 3D e a quello che ormai possono creare semplicemente sovrapponendo strati di materiale. A un designer digitale presto potrebbero bastare pochi gesti per dare forma alle sue idee, che si trovi in un piccolo villaggio in Africa o nel suo garage in qualche grande città, grazie a Internet potrà inoltre collaborare a distanza con altri progettisti in qualsiasi momento.

Ovviamente le possibilità messe in gioco dai nuovi sistemi di produzione e dai nuovi materiali sono solo una parte della storia. Interessante non è solo come le cose verranno costruite, ma anche (se non soprattutto) dove. Perché nei nuovi sistemi il costo della manodopera incide sempre meno. L’Economist fa l’esempio, esplicativo, dell’iPod: la prima generazione di questi gingilli costava 499 dollari, di cui 33 andavano a coprire il lavoro manuale. Il costo dell’assemblaggio finale, in Cina, era di soli 8 dollari. Il fenomeno non si limita alla produzione di oggetti tecnologici e sembra esserci un trend in corso che vede il ritorno della produzione nei paesi in cui si trovano le aziende. Il motivo è che chi vende vuole rispondere sempre più velocemente alle esigenze di chi compra, e certi prodotti sono così sofisticati che ideatore e realizzatore devono lavorare nella stessa stanza.

Boston Consulting Group, multinazionale di consulenza di management e business, prevede che nelle aree dei trasporti e dei computer, come nell’industria metallurgica e meccanica, entro il 2020, gli Stati Uniti costruiranno in casa dal 10 al 30% di ciò che ora importano dalla Cina.

Il passaggio, per quanto lento, non sarà indolore, come è stato per la Prima e per la Seconda Rivoluzione Industriale. Il problema non sarà per i consumatori, ma per gli imprenditori che non adegueranno il loro sistema di produzione. I Governi saranno portati a proteggere le imprese esistenti piuttosto che le idee emergenti, e daranno più peso all’industria manifatturiera che alle società di servizi, scrive il magazine. Ma la linea di demarcazione tra i due settori è sempre meno netta e i politici dovrebbero preoccuparsi soprattutto di offrire buone scuole e leggi chiare, uguali per tutti gli imprenditori.

 

Naturalmente la chiave di questo processo è stata la rete, che ha trascinato la produzione fuori dal tipico modello aziendale. Oggi il cambiamento è dunque in mano ai “linker people”, ossia quel gruppo sociale che orienta i gusti e i comportamenti dei nuovi ventenni, che sono caratterizzati da un forte bisogno di rielaborare il mondo e i contesti circostanti in modo unico e creativo, utilizzando la tecnologia come una piattaforma integrata e sempre in contatto con il mondo esterno. Si rilevano dunque trend setter nei comportamenti di consumo e grandi sperimentatori di comportamenti tecnologici. Un nucleo generazionale aperto a qualsiasi combinazione, anche inaspettata, tra fenomeni mediatici ed esperienza personale, per creare e rilanciare “codici comuni”, senza mai identificarsi in un’unica comunità.

Nascere durante questo periodo di transizione è un’esperienza entusiasmante, perché non sempre, ovviamente, cambiare significa migliorare, ma è sicuro che per migliorare bisogna cambiare!

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