Marta Sui Tubi @Rocksteria Music Brunch

Un po’ di Marta sui tubi in una fredda domenica di inverno anticipato

Intanto una cosa l’abbiamo capita: il brunch in Italia è un pranzo con un nome accattivante, ché se lo chiami pranzo è brutto farci venire a suonare qualcuno, pare che lo metti a fare piano bar. Poi chi viene ad ascoltare, se lo inviti a pranzo, non viene ad ascoltare ma viene a mangiare. A un brunch non si va e basta, non si mangia e basta, non si ascolta e basta. In realtà non si sa bene che cosa devi fare, quindi quello che fai va bene.
E va bene. Va bene tutto, anche il gelo invernale sguinzagliato in anticipo a novembre. Tanto c’è comunque il sole e noi siamo seduti ai tavolini, con le stufe che non ci stufano e le portate che continuano a essere portate. Sembra proprio che sia domenica in certe domeniche come questa. Mangiamo tanto e con calma, c’è tempo anche per un caffè. Ma non è per questo che siamo qui, non tutti almeno, e ce lo ricordano: ora, dopo tutte queste righe, finalmente si suona.

I Marta sui Tubi sono cinque elementi, ma per l’occasione ce ne facciamo bastare due, che forse è anche meglio. Perché quello che una rassegna come Rocksteria (in questo appuntamento ospitata dalla Locanda dei Matteini) propone, in fondo, è proprio un intimo e pigro pomeriggio tra una chiacchiera e una schitarrata.
Federico Fiume presenta l’eroica rappresentanza sopravvissuta al concerto della sera prima, formata dalla voce di Giovanni Gulino e dalla chitarra di Carmelo Pipitone, fondatori della band, quelli fuggiti dal deserto di Marsala per incrociare fortuna nelle strade bolognesi. Proprio su quei giorni ripartono le prime note, con uno sguardo all’indietro sui “Vecchi Difetti“. Da lì proseguono verso i giorni più recenti facendoci sentire “Dispari“, percorrendo con disinvoltura la scala “Cromatica” sotto lo sguardo sbigottito dei “Camerieri“.

Tutto senza perdersi la hit sanremese, “Vorrei“, che porta a confrontarsi sul solco che divide la musica mainstream dalla musica underground, termini complicati per chi ancora deve digerire il brunch. Affascinante sentire il punto di vista di chi ormai vive in bilico su quel solco, e bello sentirsi dire che sono divisioni tracciate a tavolino, che la distinzione che loro fanno è tra musica bella e musica di merda. Ci sono delle sfumature che andrebbero prese in considerazione, magari, ma è troppo domenica pomeriggio per andare per il sottile. Ciò che conta è che il successo non li ha cambiati, che fondamentalmente sono gli stessi ragazzi semplici di un tempo eccetera, che portano dentro le radici di una Sicilia mai dimenticata. E tanto ci tengono a ribadirlo che si mettono a cantare una presunta canzone di un presunto macellaio marsalese dal refrain semplice ma ineccepibile: “a ti te piace ‘o vinuzzo”. E piace molto anche a loro, andando avanti per dieci minuti buoni incastrandolo in una decina di canzoni diverse, da “Dedicato a te“ de Le Vibrazioni a “Stairway to Heaven“ di un gruppo di cui non ricordo il nome, passando per tante altre che mica uno se le può ricordare tutte.

Sì, sì, divertente, per carità, ma se avessero fatto un altro paio di canzoni al posto di questa non credo si sarebbe offeso nessuno. Loro cantano giustamente che non si dovrebbe dare da mangiare a chi non ha più fame, ma in sala di fame ce ne è ancora molta, e certamente cinque-sei brani non hanno saziato nessuno. Così quando spiegano che già è finito tutto uno ci mette un po’ a capirlo.

Ma che ci volete fare? È un brunch italiano, e quello che fai va bene. Siamo contenti così, canzone più, canzone meno. Quello che conta è che abbiamo passato una domenica intrigante, che sapeva proprio di domenica. E alla fine di tutto te la ritrovi ancora lì fuori ad aspettare. Fredda, pacata e indolente come l’avevamo lasciata.

Matteo Mammucari

Foto: Sofia Bucci

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