L’ombrello

Cronaca di un viandante con la coscienza della pioggia [Racconto breve]

Era un giorno dispari e il cielo era gonfio, pesante. Si svuotavano le strade di passanti, si lasciava spazio ai millimetri d’acqua che sarebbero caduti di piombo. Chi per lo zapping quotidiano o per un’informazione di seconda mano s’era munito d’ombrello, senza indugio ne faceva uso, incurante di sembrare prevenuto. Di fatto non pioveva, ma le nuvole erano capre con pance gonfie che belavano in attesa di essere munte. Non per capriccio, ma per adempiere alla volontà di tutti e avere salva la faccia, tutti ritornavano a casa asciutti fradici. Cosa sono le nuvole grigie se non l’incubo di pioggia?

Erano strade da museo cinque minuti prima della chiusura: quiete mista alla frenesia di chi va dove portano i piedi. E Tic-Toc camminava rasente i muri, collaudando le sue scarpe nuove. Con i pugni in tasca, i polmoni in riserva, marciava fischiando. Le sue labbra a culo di piccione tradivano la sua gioia di essere tutto solo. La sinistra seguiva la scarpa destra con uno scarto di zero virgola ventiquattro centesimi di secondo. Era in palio il guinness dei primati per la passeggiata più fischiata, se non fosse stato per uno strano prurito al naso. Etchi. É sulle sue mani che si spalmò a mo’ di stimmate di santo un bel pasticcio giallo. Masticando una bestemmia, si pulì imprimendo le mani sul muro. Giallo il sole, dietro le nuvole, abbracciava quel mattino la collina. Frugando al di là del suo naso calamitò lo sguardo sullo scodinzolare di un cane. Una frusta che sbatte allegra tra strada e cielo, non può non far quel poco di rumore che basta al silenzio per farsi quiete. E continuava a fischiare come la Terra ruota. Donne disoccupate su di una panchina, sfidavano la fedeltà stretta nel cerchio della fede, col tanto caro e buono attore che di sera le bagnava la clitoride. Non si saluta per educazione ma per sentirsi vivo. Tic-Toc stava calcolando il momento di stacco, di pausa dal suo far sesso orale all’aria, per dare un’impronta vocale di sé che non tradisse il suo stomaco da sognatore. Ma un sibilo gli smorzò pensiero ed azione, lo spinse avanti a testa bassa senza più alcuna attenzione all’idea che le altre si sarebbero potuto fare del mancato saluto. Aveva una coda, Tic-Toc, una scia di ansia che lo faceva girare sempre nel suo cerchio e uscire non poteva se non andando altrove.

Un chiasso di preghiere investiva l’uscio del caro defunto di turno. Un crocchio di conoscenti, a stento, manteneva l’emozione di sentirsi vivo e indossare abiti. Erano assenti al dolore ma mantenevano un contegno da escort. Il più bello aveva cicatrici disseminati in volto che ricorda il terremoto dell’ottanta. Si adeguava agli altri volti, aveva equilibrio nel parlare quel volto. Erano parole ben spese. Di tanto in tanto un ragazzino di venti e passa anni compariva in cima alla salita come se spiasse qualcuno, qualcosa. Tic-Toc girava alla ciuccia e sapeva che era vivo anche senza alcun particolare tepore. Con un guizzo dolce il ragazzino si piegò a raccogliere una monetina. Non aveva l’aria di aver trovato un tesoro ma con un sobbalzo del braccio all’unisono col ginocchio si alzò, insaccò, e sgusciò via a perdere fantasia e ore dove c’era speranza di un chiasso più allegro. Tic-Toc s’impegnò a leggere il manifesto mortuario incollato sul portone dell’ultimo domicilio del fu tizio. Aveva famiglia come tutti. Era morto nel sonno senza soffrire né lasciare volontà. Una morte che tutti si augurano, nell’eventualità. Le campane si sciolsero più volte e Tic-Toc era già lontano a cuore libero. Sulla punta della lingua il nome di una vecchia signora che fu il suo primo ricordo della morte. Una scala venne poggiata al balcone, i vetri furono rotti e si apprese che Zì Maria si era spenta davanti al televisore. Non capiva cosa era successo, ma partecipava mantenendo con la sua esile mano da bambino la scala. Poi una mano se lo portò a casa. Masticò quel nome come si pensa ad un colore e continuò il rodaggio delle scarpe. Era stato un acquisto sofferto e agognato che richiedeva almeno un paio di calzini non logori. Un oggetto chiama l’altro ed ecco una catena che pende al collo -anche una collana- e l’uomo è un gladiatore che combatte per avere, possedere, distruggere. Scarpe in pelle e nere affrontavano i decenni sotto i piedi di un tavolino di legno. Tra uscio e cunetta Zì Elia sbucciava un’arancia e vantava una tecnica unica: la pela a vivo con un coltellino e della buccia fa una fisarmonica che non suona. Il problema era il tacco.

Si scollava, ma aveva provato a inchiodarlo: un rumeno da tutti chiamato Gasparre batteva le strade tutto il giorno a inchiodare pezzi di questo con pezzi di quello, a pulire cantine e a bere vino fino al paonazzo delle gote. La differenza sta nella flessibilità. Un chiodo è un corpo estraneo che penetra e sarà sempre un rimedio temporaneo e invasivo. La colla, fluida, s’asciuga e non c’è più. Zì Elia con il tubetto dell’attack aveva abbracciato la vecchiaia e la speranza che sotto il sole seduto a sbucciare e a rimuginare su cose di altro mondo, poteva sistemare vecchie cose e plasmarle, nuove. É un tipo capace di litigare col cielo se non gli piace il colore. Tic-Toc ne aveva timore e a misura d’offesa passava rapido, col capo a terra come attratto dalla strada. Con millimetrica precisione mosse il baffo a lambire la punta del naso e la bocca scatarrò. Zì Elia s’era fatto presente e pretendeva risposta. Tic-Toc secco smorzò il saluto in gola e forte dell’intento abortito sul nascere, lasciò Zì Elia seduto con i piedi scalzi nella cunetta. Se piove si lava i piedi, che un brivido freddo gli ricorda che l’età è pelle e rughe di giorno in giorno più grevi.

S’era infossato Tic-Toc su di una terrazza a vivere di silenzio e di sonno. E una massa radunata ad un incrocio lo destò. Dall’alto erano formiche nere. All’incrocio tra la piazza e un vicoletto che scivola tra le pietre delle case, una folla ordinata come una repubblica cresceva a vedere un semaforo. Tic-Toc era già li controcorrente nella marea. Il cicaleccio delle donne; un vocio fatto di si e no. Per tre colori s’era gonfiata la piazza di curiosi. Un semaforo nell’entroterra andava accolto come una benedizione dall’alto del centralismo burocratico. I colori sbattevano sulle pietre e sui portoni scrostati. Il verde addolcisce, neutralizza, genera un sentimento mediocre, ci assicura che le cose sono quelle che sono. La folla aveva addosso il silenzio e aspettava il giallo. Tic-Toc s’era fatto strada nel corridoio della folla e stava sugli scalini, sulla soglia del Tabacchi. Illuso da alcune civiche lampadine che per ronzio ricordano i mosquitos, seguì la linea della corrente e uscì dalla calca che ancora guardava. All’ombra camminava: il fresco è compagno di viaggio se si avanza passo dopo passo, soli. S’alzava davanti a Tic-Toc A Croce. Era il Corso vecchio del paese, un tempo via di botteghe. Una strada che il terremoto aveva risparmiato e quindi non era entrata nel piano democristiano di ricostruzione. Zì Gaetano ai tempi aveva inscenato danni agli edifici per circa trecento milioni di lire. Poi con una fune al balcone s’era liberato dall’astuzia giocata male. Trafficava lì da ore Malek, un topografo algerino che lavorava per potersi imbarcare per la Spagna. Spostava le bottiglie dall’arco del portone; bottiglie che gli abitanti mettevano davanti agli usci per non far fare pipì ai cani. Bottiglie di plastica piene, sfibrate da ore di sole. Malek fissava il cavalletto sul piano inclinato della strada di fronte ad ogni portone, e scattava foto. Di numero civico in numero civico ripeteva l’operazione. Ogni portone di casa o cantina era messo a fuoco nell’obiettivo di Malek. Tic-Toc se lo trovò a pochi passi, aspettò un po’ prima di parlare. Malek, intanto, era ricurvo a scattare foto al portone numero civico cinquantasei. Tic-Toc gli girò intorno per farsi notare. Abbozzò un che fai che non andò a segno. Poi un tuono squarciò il cielo. Iniziò a piovere e Malek tirò fuori dal borsone degli attrezzi un ombrello. Tic-Toc con silenzioso consenso si fece avanti e con gesto quasi arrogante gli strappò l’ombrello. Lo manteneva immobile sul suo capo e su quello di Malek.

 

di Silvio Spiniello

 

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