Lei ha bisogno di qualcuno che la salvi

Su questi anni precari che non torneranno... [Racconto breve]

«Ci pensi mai all’eutanasia?».
chiesi a Marta all’improvviso.

Era un tiepido pomeriggio di inizio aprile e, come sempre accadeva fra me e lei, eravamo rimasti su quella panchina al sole a parlare da almeno due ore. Le macchine passavano stanche in quel posto isolato. Le foglie secche a terra ricoprivano i marciapiedi, segnalando il cambio di stagione.
E io e Marta ripetevamo sempre le stesse cose futili da una vita, non curandoci affatto dei cambi di stagione, dell’andare del tempo che fra noi pareva sempre fermo come i lavori della Salerno-Reggio Calabria, della vita che pure scorre quando non te ne accorgi.

«Ci pensi mai all’eutanasia?».
Chiesi di nuovo a Marta che stava ancora pensando alla mia domanda. Di solito i nostri incontri erano lunghi fino al calar del sole. La reiterazione dei discorsi era solo un gesto tenue da tenersi stretto; di quello che dicevamo ben poco superava i venti secondi della memoria a breve termine.

«Ci pensi mai all’eutanasia?».
Marta ancora non rispondeva alla mia domanda. A volte nei suoi lunghi silenzi amavo riempirmi di arie e dirle quanto sarei stato bello e in carriera un giorno. E lei si perdeva a fissare le nude piante che si alzavano di fronte a noi, come incantata dal mistero della vita che tutto intorno ciclicamente si ripeteva.

Io, Marta l’avevo conosciuta alla discoteca Utopia, una sera di agosto di tre anni fa. Una situazione strana quella lì, giravo a vuoto col mio amico Giorgio che era in cerca di una vita che non fosse la sua. Io invece, mi ero abituato alla mia, di vita; passavo molto tempo a trollare su Facebook, mi divertiva l’al di qua dello schermo, fuori era sempre un mondo assassino per noi, e quella sera stavo attento a non perdermi con gli altri, tantomeno con Giorgio, sempre a caccia di qualcosa che non desiderasse realmente.
Marta, l’avevo trovata alla periferia est della pista da ballo. Aveva i capelli gonfi e neri e gli occhi tesi, come rimasti alla luce da un niqab integrale. Indossava un paio di Superga bianche, una maglietta azzurra senza pretese che lasciava intravedere il seno superbo, e un paio di jeans che delineavano gambe troppo grosse ma comunque piacevoli. La sua pelle sprigionava un profumo di pesca che dava alla testa, un incenso coniugato fra le mie narici che mi agitava la vista, eppure Marta non era una dea frangicuori, lei voleva solo starsene in pace.
Non so perché quella sera stringemmo. Forse per il profumo di pesca, forse perché lì intorno era un inferno, riuscimmo a trovarci solo con un’istantanea visiva. I nostri corpi non comunicavano affatto, erano totalmente scollegati tra di loro, le voci erano impossibili nel trambusto di dj Mixedheart. L’unica cosa che riusciva ad unirci era lo sguardo e un sorriso, puramente abbozzato fra di noi, che cercava una complicità da situazioni tristi.
Dopo circa un quarto d’ora di fuorigioco riuscii a dirle: «Hai mica da accendere?».
Lei mi porse un clipper con forme di marijuana colorate sul bordo, accesi la sigaretta e le feci cenno di uscire nel cortile antistante l’Utopia. Fumavo con voracità la mia camel light azzurra, Marta mi guardava fumare e non proferiva parola. Una volta un mio amico mi aveva detto: «Tu tendi a parlare del niente per dare un senso alla vita». Marta non parlava di niente per non pensare alla vita.
Il suo silenzio, lo trovai da subito illuminante, un’apertura di senso sulle mie parole che molte volte andavano a perdersi nel vento di quell’estate lì, troppo asciutta e secca per ricordarle, le mie parole.
Come poi passammo quelle ore nel cortile dell’Utopia è un mistero. Lei teneva le mani lungo i fianchi che sembravano appese, io ero seduto a cavallo dei miei pensieri. C’era come un’intesa tacita fra me e Marta. Io fumavo sigarette in una strana posa giovanile, lei mi scrutava senza far niente. Io mi sentivo al centro del mondo, modello squattrinato per i suoi occhi stretti; lei era in totale assenza di sé: aveva attenzioni solo per me. Nelle ombre tracciate dal mio corpo si muoveva il suo volto silenzioso.
Tempo dopo cominciai a considerare Marta il mio specchio personale, la mia coscienza più profonda, quella che sfugge alle parole umane ma che non rimane ineffabile ai corpi.
Ben presto, Marta divenne la protesi della mia anima.

«Ci pensi mai all’eutanasia?».
E Marta quella volta abbassò il viso, si guardò la punta delle scarpe e rispose con parsimonia di parole: «Magari». Quel “magari” era un monito che la mia coscienza voleva rivolgermi da sempre: tutto ciò che segretamente avevo finora nascosto alla mia immagine da duro venne a galla con una forza sconosciuta.
Marta era rimasta in quella postura gobba, il volto ancora rivolto verso terra quasi shoegaze, le mani appese lungo i fianchi. Cercava una reazione che non la coinvolgesse.
Non riuscii a proferire parola, la accompagnai a casa. Dalla radio dell’auto usciva la voce di Neil Young che cantava Old Man e Marta scoppiò a piangere. Mi disse: «Anche tu mi abbandonerai» e io risposi con la sicurezza di un politico: «Ma no, vedrai, per me è tutto a posto».
Ci salutammo, sotto casa sua, con un bacio sulla guancia, come s’usa fra ragazzi, e sfrecciai via meditando su quel “magari”.

Il giorno dopo appresi dai manifesti funebri in città che Marta era morta. Venni poi a sapere che lottava da troppo tempo con una forma aggressiva di cancro al seno. Come spesso capita nella vita reale, avevo scambiato la malattia con una forma di poesia. Al cimitero non piansi e anzi, mi chiesi più volte se fosse, poi, realmente possibile un amplesso sincero fra malattia e poesia, ma a questa domanda ancora oggi non ho trovato risposta.

Ogni tanto, di primavera, vado ancora a sedermi su quella panchina e mi chiedo se tornerà mai il tempo della giovinezza e degli anni passati a monologare con Marta. Ma poi ci penso, guardo le rondini volare e gli alberi in fiore e mi dico che no, non tornerà.

 

di Domenico Porfido

 

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